I condannati

L’Inquisizione di Spagna ha avuto nei cinesi i suoi maestri. Questo popolo, che da duemila anni si è, per così dire, cristallizato, senza fare un passo nella via della civiltà, fra le molte cose ha conservato anche oggidì i suoi supplizi.

Come torturavano venti secoli or sono, i giustizieri cinesi martirizzano i disgraziati prigionieri anche ora.

Gli uomini erano così fatti allora: bricconi ve n’erano in quei tempi remoti e ve ne sono ancora: perché cambiare? Ecco il ragionamento della magistratura cinese.

Una, sola tortura è stata abbandonata, la terribile colonna di fuoco, inventata dall’imperatore Chean-Sin per far piacere alla bella Fan-ki, che desiderava vedere contorcersi, sul bronzo ardente, i condannati a morte. Strumento spaventevole, consistente in una colonna di bronzo cava, che si riempiva di carbone finché diventasse tutta rossa, intonacata esternamente di pece e di resina e che i condannati dovevano a forza abbracciare, mediante catene, e rimanervi finché le loro carni fossero completamente consumate. Eccettuata questa, tutti gli strumenti di tortura sono stati conservati.

Per punire coloro che hanno commesso piccoli falli, si servono del bastone. Cinquanta e anche cento legnate, somministrate con una rapidità così prodigiosa che il condannato rischia sovente di morire soffocato, bastano a punire piccoli falli, e anche a rovinare talvolta il dorso al disgraziato che le riceve e che non ha avuto la precauzione di regalare qualche tael agli esecutori.

Pei recidivi hanno la cangue, che i cinesi chiamano veramente kia, specie di tavola che pesa ordinariamente quindici chilogrammi e che serve per imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani.

Parrebbe a prima vista una pena tollerabilissima; invece finisce per diventare estremamente dolorosa, perché il povero condannato non può mangiare da solo e sovente corre il pericolo di morire di fame per incuria dei carcerieri.

E questo non è tutto. Dopo un mese le spalle si rompono e si coprono di piaghe e quando la pena è finita, il prigioniero non è più che uno scheletro. Sono queste le torture minime, che di rado uccidono. Hanno poi gabbie strettissime dove il condannato è costretto a vivere ripiegato in due per mesi e mesi, rovinandosi le carni contro i bambù e storpiandosi le membra; hanno gabbioni più vasti dove si ammucchiano in una sola volta perfino quindici condannati, ai quali i carcerieri danno di rado da mangiare e dove sono costretti a vivere fra la più ripugnante sporcizia.

Hanno poi altre gabbie irte di chiodi che traforano atrocemente le gambe e le mani dei pazienti; coltelli d’ogni dimensione per tagliuzzare la pelle e quindi strapparla a lembi, funi per strangolare, tenaglie roventi per strappare la carne; poi la terribile pena del ling-cink, ossia del taglio dei diecimila pezzi.

La decapitazione poi è cosa comune e si eseguisce in pubblico, sotto una tettoia, mediante una larga sciabola, pena forse più temuta delle altre, non amando il cinese andarsene all’altro mondo colla testa staccata.

E quali orrori poi dentro le carceri! Non sono carcerieri, sono feroci manigoldi, che inchiodano alle pareti le mani dei prigionieri allorquando mancano le catene; che bastonano senza pietà quelli rinchiusi nelle gabbie per farli tacere, quando quei miseri non possono sopportare più oltre l’atroce martirio; che preferiscono appropriarsi dei viveri che il governo assegna alle amministrazioni delle carceri; e che piuttosto di incomodarsi, allorquando qualche prigioniero muore molto sovente di fame, lo lasciano imputridire nella sua gabbia in attesa che i topi lo facciano sparire!

. . . . . . . . . . . . . . .

Fedoro e Rokoff erano rimasti come inebetiti dall’orrore, dinanzi all’atroce scena che si svolgeva sotto i loro occhi.

Intorno a tutte quelle gabbie, degli aguzzini armati di bastoni e di ferri infuocati, bastonavano senza posa i disgraziati che vi stavano rinchiusi o rigavano a fuoco lo loro membra anchilosate, provocando urla e strida orribili.

Erano almeno una dozzina che s’accanivano con un sangue freddo ributtante, contro una trentina di prigionieri impacchettati fra le traverse di bambù, spaventosamente magri, tutti più o meno sanguinanti, colle vesti stracciate e gli occhi enormemente dilatati dal terrore.

– Ma questa è una bolgia infernale! – esclamò finalmente Rokoff. – E oserebbero applicare anche a noi quelle torture? Parla, Fedoro!

– No… non è possibile – rantolò il negoziante di tè, che aveva l’aspetto d’un pazzo. – No… una simile infamia contro di noi!…

– Fedoro, che cosa possiamo tentare? Ci lasceremo torturare e assassinare in questo modo da queste canaglie? Noi siamo innocenti.

– Non so che cosa risponderti, mio povero amico.

– Ciò che ci succede è spaventevole! No, non può essere che un sogno! – gridò Rokoff.

– È pura realtà, amico mio.

– E non tenteremo nulla?

– Non possiamo far altro che rassegnarci.

– Ah! no, vivaddio! Io spezzerò questa gabbia maledetta e farò un massacro di tutti!

– Non riuscirai ad abbattere le traverse – disse Fedoro.

– Lo credi? Ebbene, guarda!

Il cosacco, a cui il furore centuplicava le forze, afferrò due canne e le scosse con tale rabbia, da farle inarcare e scricchiolare.

Un carnefice, che stava rigando le cosce ad un disgraziato prigioniero mediante una sbarra di ferro arrossata al fuoco, accortosi di quell’atto, accorse, vociando e minacciando.

– Toccami, se l’osi! – urlò Rokoff, allungando le mani attraverso le canne.

Quantunque l’aguzzino non avesse potuto comprendere la frase, vedendo quell’Ercole in quella posa, si era arrestato titubando.

– Noi siamo europei! – gridò Fedoro. – Guardati, perché le Ambasciate ci vendicheranno e vi faranno uccidere tutti.

Quella minaccia, forse più che l’atteggiamento del cosacco, aveva fatto indietreggiare il carnefice.

– Europei! – aveva esclamato.

Poi, passato il primo istante di stupore e anche di terrore, aveva rialzata l’asta infuocata, minacciando d’introdurla fra le traverse e di calmare i due prigionieri con qualche puntata.

– Giù quel ferro! – urlò Rokoff, scuotendo le canne con maggior vigore. – Giù o ti strangolo come un cane.

– Tu non mi fai paura – rispose l’aguzzino. – Ora lo vedrai.

Stava per farsi innanzi, quando la porta della sala si aprì lasciando il passo al magistrato che aveva arrestato i due europei nella casa di Sing-Sing. Vedendo il carnefice avvicinarsi alla gabbia, con un grido lo arrestò.

– No, costoro – disse precipitosamente – non ti appartengono! Vattene! Vedendolo, anche Fedoro si era afferrato alle canne, gridandogli:

– Canaglia! Mettici subito in libertà! Tu sai che siamo stati condannati senza colpa e che gli assassini sono gli affigliati della “Campana d’argento”.

– La liberazione non è lontana – rispose il magistrato. – Abbiate pazienza fino a domani.

– Allora levateci da questa gabbia.

– È impossibile per ora.

– Noi non possiamo resistere a queste atroci scene.

– V’interessate di quei banditi? – chiese il magistrato.

– Non siamo abituati ad assistere a simili torture.

– Manderò via i carnefici.

– E fate dare da mangiare a quei miserabili che muoiono di fame. La vostra giustizia vi disonora.

– Avranno dei cibi, – rispose il magistrato. – I nostri carcerati sono trascurati, questo è vero.

Con un gesto che non ammetteva replica, fece uscire tutti; poi, rivolgendosi ai due europei, disse:

– Non farete nulla per informare la vostra ambasciata fino a domani mattina? Solo a questa condizione io vi prometto di lasciarvi tranquilli.

– Avete la nostra parola – rispose Fedoro.

– Vi farò subito servire il pasto.

– Se non possiamo quasi muoverci?

– Vi ho detto che pel momento non posso liberarvi, perché la grazia dell’Imperatore non è ancora giunta. Tranquillatevi e abbiate fiducia nella giustizia cinese.

– Che cosa ti ha detto quel miserabile? – chiese Rokoff, quando il magistrato fu lontano.

– Che domani saremo liberi – rispose Fedoro, raggiante. – Essi hanno avuto paura di qualche denuncia all’ambasciata. Hanno voluto solamente spaventarci, sperando forse che noi confessassimo il delitto che non abbiamo commesso.

– Ti giuro che non me ne andrò da Pechino senza strangolare qualcuno. Mi prendano poi, se ne saranno capaci.

– E chi?

– Quel furfante di maggiordomo.

– Ti prometto di aiutarti. Egli è stato la sola causa delle nostre disgrazie. Deve aver protetto i membri della “Campana d’argento”, messo il pugnale nella nostra camera e poi saccheggiata la cassa del suo padrone.

– Noi lo strozzeremo, no, lo martirizzeremo in modo che muoia a poco a poco.

Alcuni carcerieri erano entrati portando delle scodelle di riso, del formaggio fatto con fagioli, piselli mescolati a farina, gesso e succhi di vari semi, che ha il sapore dello stucco e che pure è assai pregiato in Cina, dei pien-hoa o radici eduli, delle arachidi e delle kau-ban, ossia olive salate e poi seccate. Passarono i tondi entro la gabbia occupata dai due europei, poi si ritirarono precipitosamente per paura di venire afferrati dalle poderose mani dell’ufficiale dei cosacchi.

Altri intanto avevano portato ai miseri, che morivano di fame nelle altre gabbie, delle terrine ricolme d’una certa poltiglia nera, che esalava un odore nauseabondo, formata da chissà quali generi alimentari.

Fedoro e Rokoff, che dalla sera innanzi non avevano assaggiato alcun cibo, quantunque potessero appena muoversi, vuotarono i tondi, scartando però le arachidi, buone solamente pei palati dei cinesi, essendo rancidissime.

Terminato il pasto, il magistrato, che era ritornato, si sedette presso la gabbia offrendo loro, con molta gentilezza, alcune tazze di tè recate da un carceriere e dei sigari europei; poi impegnò con loro una divertente conversazione.

Non era più il burbero magistrato che li aveva trattati da assassini e perfino minacciati di farli fucilare. Era un vero cinese delle caste alte, cerimonioso fino all’eccesso, amabilissimo, che discuteva con competenza anche sulle cose europee. S’intrattenne con loro fino a quando le lanterne furono accese, poi si accomiatò augurando la buona notte e promettendo che all’indomani sarebbero stati rimessi in libertà.

– Fedoro – disse Rokoff, quando furono soli. – Capisci qualche cosa tu di questi cinesi? Io no, te lo assicuro. Poco fa pareva che volessero sottoporci alla tortura; ora ci colmano di cortesie.

– Senza liberarci però – rispose il russo, che pareva un po’ preoccupato. – Si direbbe che tu dubiti della promessa fattaci.

– No, ma… vorrei essere già lontano da qui.

– Ci andremo domani e anche in fretta. Ci recheremo a comperare il tè a Canton od a Nan-King o in qualche altro luogo. Qui non ci fermeremo nemmeno un’ora dopo…

– Dopo che cosa?

– Che avremo strangolato il maggiordomo. Per le steppe del Don! Quel gaglioffo non vedrà tramontare il sole domani sera, parola di Rokoff!

Fedoro non rispose e si accomodò alla meglio per dormire. Ciò era possibile, perché gli altri condannati, dopo la zuppa somministrata loro dai carcerieri, avevano cessato di urlare.

Rokoff, vedendo il compagno chiudere gli occhi, si allungò quanto glielo consentiva lo spazio e cercò d’imitarlo, sognando già di sentire sotto le mani il collo del maggiordomo di Sing-Sing. All’indomani, quando riaprirono gli occhi, svegliati dalle urla degli affamati, ai quali la zuppa del giorno innanzi non era stata sufficiente a calmare i lunghissimi digiuni, Fedoro e Rokoff videro la loro gabbia circondata da otto robusti facchini.

Due lunghe aste, un po’ elastiche, erano state passate fra le canne che formavano la parte superiore della piccola prigione, assicurandole con corde.

– Pare che si preparino a portarci via – disse Rokoff. – Che ci conducano all’ambasciata rinchiusi qui dentro? Potevano metterci in una portantina, questi spilorci; avrei pagato ben volentieri il nolo.

Fedoro non aveva risposto. Guardava con viva inquietudine i facchini, chiedendosi dove lo avrebbero portato.

Cercò cogli sguardi il magistrato, ma non era ancora giunto. Invece erano entrati dodici soldati, armati di fucili, guidati da un ufficiale che faceva pompa d’una larga e lunghissima scimitarra.

– Fedoro, – riprese Rokoff – dove vogliono condurci? Domanda a quel comandante perché non ci mettono subito in libertà, come ci aveva promesso il magistrato. Tu non mi sembri tranquillo.

– È vero, Rokoff; sono preoccupato per l’assenza del magistrato.

– Si sarà ubriacato d’oppio e giungerà più tardi.

In quel momento l’ufficiale si avvicinò ai facchini, dicendo:

– Andiamo.

– E dove? – chiese Fedoro, mentre la gabbia veniva alzata.

Il comandante del drappello guardò il russo con stupore, inarcando le sopracciglia. Forse era sorpreso di sentirsi interpellare da un prigioniero.

– Vi ho domandato dove ci volete condurre – replicò Fedoro. – Ci era stata promessa la libertà per stamane.

– Ah! – fece l’ufficiale.

Poi, voltandogli bruscamente le spalle, disse:

– Orsù, sbrigatevi.

Quattro facchini si posero le aste sulle spalle e portarono fuori la gabbia, seguiti dagli altri quattro che dovevano surrogarli più tardi e dal drappello dei soldati.

L’ufficiale marciava innanzi a tutti, colla scimitarra sfoderata.

– Comprendi nulla tu? – chiese Rokoff al negoziante di tè.

– Non so spiegarmi il motivo per cui hanno preso tante precauzioni verso due uomini che devono mettersi in libertà – rispose il russo, le cui inquietudini aumentavano.- Vedremo come finirà questa avventura.

Un carro massiccio, tirato da due cavalli e scortato da dodici cavalieri manciù, li attendeva fuori della prigione.

La gabbia fu caricata, solidamente assicurata, poi i cavalli partirono al galoppo, fiancheggiati dai manciù.

– Questi cinesi vogliono rovinarci – disse Rokoff, che si aggrappava fortemente alle canne per resistere agli urti ed ai soprassalti che subiva il ruotabile. – Ehi, cocchiere del malanno! Rallenta un po’ la corsa! Non siamo già di caucciù noi! Basta, ti dico, buffone!

Erano parole sprecate. I cavalli, piccoli, vivaci, eppur vigorosi, come sono tutti quelli dell’impero, galoppavano sfrenatamente, imprimendo al carro delle scosse disordinate in causa del pessimo stato delle vie, quasi tutte sfondate e rigate da solchi profondissimi.

Sempre scortati dai manciù, i prigionieri attraversarono i quartieri meno popolati della capitale e che stante l’ora mattutina erano ancora quasi deserti e uscirono dalla porta di Shahuomen, passando sotto una massiccia torre quadrata.

– Dove ci conducono, Fedoro? – chiese Rokoff, vedendo il carro seguire i bastioni esterni.

– Vorrei saperlo anch’io.

– All’ambasciata no di certo.

– Siamo usciti dalla città.

– E ci dirigiamo?

– Verso il Pei-Ho, se non m’inganno. Ah! Mi viene un sospetto.

– E quale Fedoro?

– Che c’imbarchino su qualche giunca e che ci traducano a Tient-sin o fino al mare per impedirci di fare i nostri reclami all’ambasciata russa.

– Ci sfrattano dall’impero?

– Lo suppongo, Rokoff.

– Che ci mandino via non m’importa: mi rincresce solo di andarmene senza aver strozzato quel cane di maggiordomo. Però non siamo ancora giunti al mare.

Il carro intanto continuava la sua corsa indiavolata, seguendo sempre le mura della capitale, robustissime ancora, quantunque contino molti secoli, alte nove metri, con uno spessore di cinque, tutte lastricate in marmo, con bastioni, torri, fossati e cannoniere in gran numero, guardati però, per la maggior parte, da pezzi d’artiglieria di legno.

Di quando in quando passava in mezzo a borgate popolose, circondate da ortaglie, attirando l’attenzione dei passanti, i quali però rimanevano subito indietro tutti, perché i cavalli non rallentavano il galoppo.

Attraversato su un ponte di pietra il canale fangoso che viene chiamato pomposamente “fiume” e che altro non serve che ad alimentare gli stagni ed i laghetti dei giardini del palazzo imperiale, il carro si diresse verso il nord-est.

– Mi pare che ci conducano a Tong – disse Fedoro.

– Che cos’è?

– Una borgata sulle rive del Pei-Ho.

– Allora tu devi aver ragione. Vogliono imbarcarci.

– Tale è ancora la mia opinione, Rokoff.

– Purché facciano presto! Io ho tutte le membra rotte e se questa corsa dovesse durare ancora poche ore, non potrei più fare un passo. È così che trasportano i detenuti queste canaglie cinesi?

– Sì, Rokoff.

– In conclusione, trattano i prigionieri come polli.

– Né più né meno – rispose Fedoro.

– Bel sistema per far rompere le gambe.

– Che ha però il vantaggio; di rendere le evasioni impossibili.

– In quale stato devono giungere i condannati che si mandano dai paesi lontani!

– E lontani centinaia di miglia? – aggiunse Fedoro.

– All’inferno i cinesi!

– Vedo delinearsi all’orizzonte delle abitazioni. –

– Che sia la borgata?

– Sì, Rokoff; il Pei-Ho deve scorrere dietro di essa, perché vedo anche delle piante d’alto fusto. La nostra prigionia sta per cessare.

I cavalli acceleravano la corsa, attraversando la pianura piuttosto arida che si estende intorno all’immensa capitale.

I manciù si erano divisi in due drappelli: uno marciava innanzi al carro; l’altro dietro.

Come se temessero qualche sorpresa, avevano levato i moschetti che fino allora avevano tenuto appesi alla sella e sguainate le scimitarre.

In lontananza si udiva un fragore confuso che pareva aumentasse di momento in momento. Erano urla acute, tocchi di tam-tam e muggiti di conche marine.

Si sarebbe detto che una folla enorme si accalcava intorno alla borgata.

– Che siamo aspettati? – chiese Rokoff.

– Non so – rispose Fedoro, il quale era diventato pallido.

Si era alzato sulle ginocchia, spingendo lontani gli sguardi.

Di fronte alla borgata, una folla enorme si accalcava su una pianura sabbiosa, agitandosi disordinatamente e urlando a piena gola. Pareva che succedesse qualche straordinario avvenimento.

Quando il carro giunse sul margine della pianura, la folla si squarciò di colpo per lasciare il passo, mentre da ventimila petti usciva quell’urlo terribile che è suonato agli orecchi degli europei come una tromba funebre durante le insurrezioni mongoliche:

– Fan-kwei-weilo! Weilo!

Fedoro aveva mandato un grido d’orrore.

In mezzo a quel mare di teste rasate aveva veduto ergersi un palco, e su esso, ritto come una statua di bronzo giallo, un uomo di statura quasi gigantesca, che s’appoggiava ad una larga scimitarra.

Era un carnefice in attesa delle sue vittime.

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