I misteri del capitano

Quanto Rokoff e il suo amico Fedoro dormirono? Non lo seppero mai e non si curarono nemmeno di saperlo, perché una sorpresa ben più interessante li attendeva al loro risvegliarsi ed una sorpresa assolutamente inaspettata. Quando ricomparvero sul ponte, ancora un po’ assonnati e colla testa molto pesante per l’effetto del narcotico loro somministrato dal capitano e anche pel troppo alcool ingoiato, lo “Sparviero” non fuggiva più verso il nord, bensì verso il sud-ovest, con una velocità vertiginosa.

Ma non era tutto. L’equipaggio della macchina volante, chissà in qual modo, era aumentato d’un nuovo personaggio.

Quello sconosciuto, raccolto chi sa dove, era un uomo di oltre sessant’anni, dalle spalle un po’ curve, col viso molto abbronzato e anche assai patito, con una lunga barba brizzolata ed incolta che gli giungeva fino a mezzo petto.

Aveva gli occhi grigiastri, che teneva semi-socchiusi come se non potessero affrontare la luce intensa del sole e attraverso il viso una lunga cicatrice che pareva prodotta da un tremendo colpo di sciabola o di scure.

Era ancora vegeto, nonostante l’età, con membra vigorose, petto ampio e spalle da ercole, un uomo insomma che poteva, per sviluppo e forza, stare a pari con Rokoff.

Fedoro ed il cosacco, scorgendolo, si erano arrestati, guardandosi l’un l’altro, poi fissando il comandante dello “Sparviero” il quale stava offrendo a quello sconosciuto, con una certa deferenza, un sigaro di Manila.

– Un altro uomo! – aveva esclamato il russo.

– Dove avrà pescato costui? – si era domandato il cosacco. – Se sotto di noi vi è sempre il deserto!

Il capitano accortosi della loro presenza, si era avanzato col sorriso sulle labbra, dicendo con una leggera ironia:

– Signor Rokoff, che cosa ne dite del liquore dei frati del monte Athos?

– Per le steppe del Don! – esclamò l’ufficiale, a cui non era sfuggito quell’accento beffardo. – Mi ha fatto dormire come un orso! Se anche ai frati fa questo effetto, non devono abbondare in preghiere.

– Mi perdonate, signori?

– Di che cosa! – chiesero ad una voce Fedoro e Rokoff.

– Di avervi fatto bere troppo?

– Ah! Signore! – esclamò Rokoff. – Io spero invece che ci farete assaggiare ancora di quel liquore.

– Sì, ma senza narcotici – rispose il capitano.

– Ci avete messo un sonnifero dentro?

– Sì, signor Rokoff. Pensate che avete dormito trentasei ore.

– Fulmini del Don! Ecco il perché mi sento indosso un appetito da lupo rabbioso.

– Abbiamo ancora delle trote e un altro prosciutto d’orso.

– Che noi mangeremo assieme a quel signore… – disse il cosacco, accennando lo sconosciuto.

– Ah? Mi scordavo di presentarvelo – disse il capitano. – Un mio amico e soprattutto un valoroso.

– E pescato dove, se è permesso saperlo? – chiese Fedoro.

– Mi rincresce di non potervelo dire – rispose il capitano. – Non vi avrei addormentati.

– È un segreto che noi non vogliamo conoscere, signore – disse Rokoff.

– Sì, non ne abbiamo il diritto – aggiunse Fedoro.

– Non ci darà impaccio – proseguì il capitano. – Attraversato il deserto ci lascerà, non avendo alcun desiderio di tornarsene in Europa.

Lo sconosciuto ad un cenno del comandante si era fatto innanzi. – Il signor Rokoff, tenente dei cosacchi… un brav’uomo…

L’incognito fece un gesto come di sorpresa, poi, dopo una breve esitazione, porse la mano al cosacco, guardandolo però attentamente e corrugando impercettibilmente la fronte.

– Ben felice – disse in cattivo russo.

Poi strinse la mano a Fedoro, limitandosi ad inchinarsi. Ciò fatto si ritrasse a poppa senza aver pronunciata nessuna altra parola, sedendosi presso il macchinista.

– Sapete dove andiamo! – chiese il capitano, che pareva premuroso di fare una diversione.

– Mi pare che lo “Sparviero” abbia cambiato rotta – disse Fedoro.

– Sì, marciamo verso il sud-ovest con una velocità di quaranta miglia. Sono curioso di vedere gli altipiani del Tibet. Si dice che siano meravigliosa.

– E verrà anche quel signore? – chiese Rokoff.

– Andremo a visitare il paese dei Lama – continuò il capitano, fingendo di non aver udito la domanda – una regione che ben pochi europei hanno percorsa e viaggiando sempre lontani dalle città. Farà molto freddo su quegli immensi altipiani, spazzati sempre da venti freddissimi che screpolano la pelle e che gelano le mani ed il naso come al Polo Nord…

– Avete qualche altro da raccogliere lassù? – chiese Rokoff.

– Ah! Poi andremo a visitare la gigantesca catena dell’Himalaya la più superba di tutte quelle che si ammirano nel mondo. Voi non l’avete mai veduta, signor Fedoro?

– No, mai – rispose il russo.

– Poi…

– Signore – disse Rokoff – andremo anche in India?…

– Toh! Mi dimenticavo che avete fame! Trentasei ore a digiuno! Macchinista, preparaci la colazione! – gridò il capitano. – I miei carissimi ospiti faranno onore al pasto! Fortunatamente ho fatto una buona pesca nel Caracorum e le trote sono al fresco! Non avranno perduto nulla della loro squisitezza con trenta gradi sotto lo zero. Vi pare, signor Rokoff?

– Oh! Ne sono convinto – rispose il cosacco che avrebbe invece preferito lasciarle a gelare, per trovarsi solo con Fedoro e scambiare le sue impressioni sul misterioso personaggio caduto sullo “Sparviero” quasi per opera magica.

Fu però un pio desiderio, perché il capitano, quasi avesse indovinate le loro intenzioni, durante tutta la giornata non li lasciò un momento soli, parlando dei suoi viaggi, delle regioni che si proponeva di attraversare, delle tribù che popolano il deserto, dei Lama del Tibet, della guerra che combattevano in quell’epoca gl’inglesi contro le tribù montanare dell’India, facendo scappare più volte la pazienza al cosacco, che ne aveva invece così poca.

Lo sconosciuto, durante quelle spiegazioni, si era tenuto costantemente da parte, sempre seduto presso il timone.

Aveva mangiato con buon appetito, senza mai parlare o limitandosi a rispondere con dei semplici cenni al cosacco ed al russo e facendo loro comprendere che conosceva male la loro lingua, poi aveva accesa una vecchia pipa di porcellana, simile a quelle che usano i tedeschi e gli olandesi e non si era più mosso dal suo posto. Solamente verso le dieci di sera, i due amici poterono trovarsi soli in una delle loro cabine.

Lo “Sparviero” si era arrestato sulla cima d’un enorme ammasso di rupi, quasi al confine del deserto, a non molta distanza dalla via carovaniera che va da Sa-ciou, città cinese, a Uromei, grossa borgata mongolica, passando per Artsi e Pigian.

Il capitano, dopo essersi accertato che nessuno poteva minacciarli, in causa della ripidità delle rupi, aveva lasciato il ponte per ritirarsi nella sua cabina assieme allo straniero, ma non aveva ancora discesi due gradini che era tornato indietro, dicendo a Fedoro.

– Oh! mi ero dimenticato di darvi comunicazione d’una cosa che per voi è della massima importanza.

– Quale capitano? – chiese il russo, un po’ sorpreso.

– Il vostro dispaccio è già stato spedito e la vostra casa di Odessa a quest’ora deve essere informata che voi state per ritornare in Europa attraversando l’Asia.

– Il mio dispaccio spedito! – esclamò Fedoro. – E da quale ufficio telegrafico?

– Da uno che ho potuto raggiungere – rispose il capitano, che pareva si divertisse dello stupore del suo ospite.

– Se siamo nel deserto!

– Costui deve essere il diavolo – pensava intanto Rokoff, guardandolo sospettosamente.

– Il deserto! – disse il capitano. – Qui, sotto di noi, vi è infatti lo Sciarno; più lontano vi sono anche delle città che in poche ore possono metterci in comunicazione coll’Europa. Vi rincresce?

– Tutt’altro, signore. E che cosa avete telegrafato alla mia casa?

– Che voi, per circostanze inaspettate, non avete potuto fare i vostri acquisti e che l’imperatore di Cina vi rimanda in Europa attraversando l’Asia, sotto pena di farvi decapitare.

– Su una macchina volante?

– Questo lo direte voi, quando giungerete a Odessa.

– E da dove avete spedito ii dispaccio?

– Che v’importa di saperlo?

– Capitano, vi ringrazio della vostra gentilezza.

– Bah! Una cosa facile! Non ho impiegato che due minuti! A voi la ricevuta e buona notte, signori. Spero domani di farvi vedere la Mongolia meridionale.

Ciò detto il capitano era sceso nella sua cabina, dove già lo aveva preceduto lo sconosciuto. Rokoff e Fedoro non trovarono di meglio che d’imitarlo, premurosi di trovarsi soli per poter parlare liberamente.

– Finalmente! – esclamò Rokoff, quando si trovò nella sua cabina che era la più lontana da quella occupata dal capitano. – Potremo parlare senza testimoni. Che cosa ne dici tu di quell’uomo? Da dove viene? O meglio, da dove è caduto costui? È un mistero che sarei ben lieto di poter chiarire.

– Che rimarrà, almeno per noi, sempre un mistero – rispose Fedoro.

– Chi credi che sia? Un abitante di questo deserto?

– Lui! È un uomo di razza bianca come noi, mio caro Rokoff. Ha tutti i tratti dei caucasi e nulla affatto dei mongoli. Mi è anzi venuto un sospetto.

– E quale?

– Che possa essere invece un russo.

– Oh!

– Sì, Rokoff. Dalle poche parole che ha pronunciate nella nostra lingua, quantunque orrendamente storpiate, ho sorpreso un accento che noi soli russi possediamo; e poi quella barba, quegli occhi azzurri, quella faccia un po’ larga con zigomi un po’ salienti, affatto speciali della razza slavo-tartara… no, non devo ingannarmi. Quell’uomo deve essere un nostro compatriota.

– E perché non dirlo? Che cosa può aver da temere da noi?

– Ho notato un’altra cosa, Rokoff.

– Quale?

– Che quando il capitano ti ha presentato come ufficiale dei cosacchi, sulla sua fronte è passata come una nube e che nei suoi occhi è balenato un cupo lampo.

– Perché dovrebbe odiare i cosacchi? – disse Rokoff, stupito.

– Come tutti gli esiliati che nostro padre, lo Zar, manda a marcire nelle orribili miniere della gelida Siberia – disse Fedoro. – Tu sai e te lo dico senza che tu abbia ad offendertene, che i cosacchi sono i tormentatori di quei disgraziati, anzi i loro più feroci aguzzini.

– Sicché tu sospetti?…

– Che sia un evaso delle miniere d’Algasithal o di altre peggiori.

– Raccolto nel deserto per combinazione?

– No, doveva esistere qualche accordo: diversamente non saprei spiegare questa corsa dello “Sparviero” verso il settentrione, mentre avrebbe dovuto dirigersi costantemente verso il sud-ovest per condurci nell’Europa meridionale, come ci ha promesso.

– Allora sarà andato a prenderlo in qualche città della frontiera siberiana.

– Ah! Stupido!

– Che cos’hai, Fedoro?

– La ricevuta del telegramma!

Si frugò nelle tasche e trovatala, la spiegò rapidamente, gettandovi sopra uno sguardo.

– Maimacin – disse. – È stato spedito dall’ufficio telegrafico di quella città, che è l’ultima della Mongolia e che si trova proprio sul confine della Siberia, di fronte alla città russa di Kiachta. Ecco la chiave del mistero.

– E tu vuoi che lo “Sparviero” si sia spinto fino in Siberia in così breve tempo?

– Abbiamo dormito trentasei ore – disse Fedoro. – Colla velocità che sviluppano le macchine dello “Sparviero”, la cosa non mi sembra affatto straordinaria.

– Briccone d’un liquore! – esclamò Rokoff, ridendo. – Ce l’ha fatta bella!

– Più che il liquore, il narcotico che il capitano vi aveva messo dentro – disse Fedoro.

– Quell’uomo dunque sarà un amico del comandante.

– Certo.

– Fuggito da Kiachta e rifugiatosi a Maimacin.

– Sì, Rokoff, deve essere così.

– E come l’avrà saputo il capitano?

– Ecco quello che noi non sapremo mai.

– Altro che le famose trote del Caracorum!

– Una scusa per salire verso il nord, senza metterci in sospetto.

– Avrebbe potuto dircelo liberamente. Io non avrei avuto nulla a che dire, anche nella mia qualità d’ufficiale dei cosacchi.

– E nemmeno io, Rokoff.

– Bel tipo quel capitano!…

– Un uomo incomprensibile.

– Ma gentile, Fedoro, quantunque un po’ originale.

– Che ci terrà buona compagnia. Buona notte, amico; me ne torno alla mia cabina.

E si separarono, lieti di aver delucidato, se non interamente, almeno parte di quel mistero. L’indomani, dopo la colazione, lo “Sparviero” lasciava quel gruppo di rocce, riprendendo la sua corsa attraverso il deserto.

Deserto veramente non si poteva più chiamare, perché le sabbie rapidamente scomparivano, lasciando il posto a distese considerevoli di pini, di betulle e di erbe altissime in mezzo alle quali saltellavano legioni di lepri.

Verso l’ovest invece si delineava la imponente catena dei Tian-Scian, una delle più considerevoli dell’Asia centrale e che divide la Dzungaria dal bacino del Tarim e da cui scendono numerosi fiumi.

Qualche accampamento di mongoli, formato di tende di feltro di colore oscuro, si cominciava a distinguere verso gli ultimi contrafforti della catena e anche qualche carovana di cammelli sulla strada che va da Pigion a Chami.

– Scendiamo verso la Mongolia meridionale – disse il capitano, il quale aveva raggiunto Fedoro e Rokoff che stavano a prora, osservando l’imponente panorama che si svolgeva sotto i loro sguardi. – Fra tre giorni noi ci libreremo sugli altipiani del Tibet.

– Ci avanziamo con una velocità straordinaria – disse Fedoro.

– Percorriamo cinquanta miglia all’ora, signori miei, abbiamo il vento favorevole.

– Quasi come gli uccelli – disse Rokoff.

– Oh no! Guardate come corrono quelle aquile che pare abbiano intenzione di venirci a fare una visita.

– Delle aquile! – esclamò Rokoff.

– Non le vedete? Vengono dai Tian-Scian ed ingrandiscono a vista d’occhio – disse il capitano.

– Non danneggeranno le nostre ali!

– Lo cercheranno. Quei volatili sono coraggiosi.

– E non le respingeremo noi?

– Ho già dato ordine al macchinista di portare in coperta dei buoni fucili da caccia. Non c’è da fidarsi di quei rapaci e stizzosi volatili.

– Che credono il vostro aerotreno un uccellaccio?

– È probabile, signor Rokoff. L’hanno proprio con noi.

Una schiera di volatili, che avevano delle ali gigantesche, scendeva, con velocità fulminea, gli ultimi scaglioni del Tian-Scian, movendo verso lo “Sparviero”.

Erano dieci o dodici, tutte di dimensioni poco comuni, essendo le aquile della Mongolia molto più grosse di quelle che vivono sulle montagne dell’Europa. Non uguagliano ancora i maestosi condor delle Ande americane, che sono i più giganteschi della famiglia, nondimeno raggiungono uno sviluppo straordinario.

Le aquile s’avanzavano su doppia fila, gridando a piena gola, colle penne arruffate, ed i lunghi e robusti becchi adunchi aperti, pronti a lacerare.

Volavano con tale velocità, che in meno d’un quarto d’ora si libravano sopra lo “Sparviero”, sbattendo vivamente le loro immense ali.

– Sono furiose – disse Rokoff, prendendo un fucile da caccia, di fabbrica americana, a due canne, che gli porgeva il macchinista.

– Attenti alle ali del nostro “Sparviero” – disse il capitano.

– E anche ai piani orizzontali – aggiunse Fedoro. – Stracceranno la seta.

Anche lo sconosciuto si era armato d’un fucile, collocandosi a poppa. Come il giorno innanzi non aveva pronunciata una sola parola, anzi si era sempre tenuto lontano dal russo e dal cosacco quasi avesse avuto timore di venire interrogato.

Le aquile, dopo essersi tenute ad una considerevole distanza volando sempre sopra lo “Sparviero”, avevano cominciato ad abbassarsi descrivendo degli ampi giri che sempre più restringevano.

– Canaglie! – esclamò Rokoff. – L’hanno con noi perché disputiamo loro l’impero dell’aria! Le signore sono molto stizzose! Vi calmeremo con un po’ di piombo che vi guasterà le penne e anche la pelle.

Il capitano vedendone una che stava per piombare sullo “Sparviero”, sparò il primo colpo alla distanza di sessanta passi.

I pallottoloni le fracassarono di colpo le zampe e l’ala destra. Il volatile per un po’ si sostenne, battendo furiosamente quella che era rimasta incolume, poi incominciò a scendere verso il deserto, descrivendo dei bruschi angoli.

– E una – disse Rokoff. – A me la seconda!

Tre colpi di fucile rimbombarono, seguiti da altrettanti. Anche Fedoro e lo sconosciuto avevano fatto fuoco, quasi contemporaneamente.

Due aquile capitombolarono come corpi morti e un’altra le seguì poco dopo, facendo sforzi disperati per sorreggersi.

Le altre un po’ calmate da quell’accoglienza punto incoraggiante, s’innalzarono precipitosamente, senza però decidersi a lasciare in pace il trenoaereo.

– Sono ostinate – disse Rokóff. – Non ne hanno ancora abbastanza.

– Ritenteranno l’assalto – rispose il capitano. – Non è la prima volta che il mio “Sparviero” viene assalito da quei rapaci volatili. Nel traversare le Montagne Rocciose m’hanno dato una caccia accanita per sette e più ore e m’hanno lacerata tutta la seta dell’ala destra, mettendomi in un gravissimo imbarazzo. Se non avessi avuto le eliche il mio viaggio sarebbe terminato in America.

– Sono ben coraggiose – disse Fedoro.

– Il mio macchinista porta ancora la traccia d’un colpo di rostro che gli aveva stracciato il cuoio capelluto. Se fosse stato più leggero, l’avrebbero portato via.

– Che sia vero che talvolta le aquile osano rapire perfino delle persone? – chiese Rokoff.

– Degli adulti no, ma dei ragazzi sì – rispose il capitano – Questi volatili posseggono una forza muscolare incredibile e veramente prodigiosa. Non si trovano imbarazzati a rapire dei montoni e dei camosci che poi portano nel loro nido per divorarseli con maggior comodità.

– E anche dei fanciulli?

– Nella Scozia, per esempio, dove le aquile sono molto numerose, ogni anno ne rapiscono e anche qui nel deserto. Le madri mongole hanno anzi tanta paura che non osano lasciare soli i loro bambini e se li tengono sempre presso, quando s’accorgono della presenza di qualche aquila.

– Signore, tornano – disse il macchinista.

– Ancora? Sono cariche le vostre armi? – chiese il capitano.

– Sì – risposero il russo e il cosacco.

– Mirate le ali.

Le aquile si erano riunite in gruppo e tornavano ad abbassarsi. Questa volta pareva che avessero preso di mira i piani inclinati, la cui seta, che luccicava ai raggi del sole, doveva aver attirata maggiormente la loro attenzione.

Calavano con furia, tenendo le ali aperte e le zampe allungate, con un gridio assordante.

– Sono a buon tiro! – gridò il capitano.

I cinque aeronauti, perché anche il macchinista si era armato abbandonando per un momento il timone, fecero due scariche l’una dietro l’altra in mezzo al gruppo.

Fu una vera strage. Cinque su nove, caddero moribonde, volteggiando e starnazzando, mentre le altre fuggivano rapidamente, verso gli altissimi picchi dei Tian-Scian.

– Che batosta! – esclamò Rokoff. – Capitano, se ci abbassassimo a raccogliere i morti?

– Per cosa farne?

– Degli arrosti.

– Che sarebbero più coriacei della carne dei muli vecchi – rispose il comandante. – Mangiare degli uccelli che hanno forse uno o due secoli di vita! Preferisco i miei pasticci di canguro.

– È selvaggina, signore

– Che non vale una pipa di tabacco. D’altronde se siete amanti dei selvatici, presto ne troveremo in abbondanza. Il Tibet è ricco d’argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti.

– E li cacceremo da qui?

– E perché no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna.

In quell’istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo “Sparviero”.

Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili.

– Una carovana! – esclamò il capitano. – Da dove è sbucata che prima non l’avevamo veduta?

– Da quel bosco di betulle e di larici – disse Rokoff. – Ma… to’! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole.

– Sono calmucchi – disse il capitano. – Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro.

– Non mi rincrescerebbe – rispose Rokoff.

– E poi, non sono che una dozzina – disse Fedoro. – Prenderemo le nostre armi.

– Macchinista! Scendiamo – comandò il capitano.

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