Il tradimento del tartaro

La casa del tartaro, quantunque avesse le muraglie di fango secco e il tetto di paglia, era un ottimo rifugio, sufficiente ad impedire alle palle di entrare nella stanza inferiore e anche in quella superiore.

La veranda che la circondava era solida e la porta massiccia, formata da grosse tavole di quercia con robusti arpioni di ferro. Quindi poteva servire da fortino contro uomini che dovevano possedere solamente dei pessimi fucili ad avancarica, vecchi di qualche secolo.

Il capitano, assicuratosi con un solo sguardo della robustezza delle pareti, le quali avevano uno spessore di mezzo metro, fece chiudere la porta barricandola con dei macigni che dovevano aver servito da sedili, poi salì nella stanza superiore per spiare meglio le mosse dei manciù. Come quella inferiore, non aveva per mobili che delle stuoie di nervature di bambù e una lanterna di carta oliata e scolorita dal lungo uso. In un angolo però si vedeva uno di quei letti usati dai contadini cinesi, fatti di mattoni con uno spazio vuoto al disotto onde collocarvi il fuoco durante le notti fredde e poche coperte di grosso feltro molto logoro.

Vi erano invece numerosi vasi di terra ripieni di acquavite di riso e una collezione di pipe per fumare l’oppio.

I tre aeronauti, accertatisi di essere soli, si affacciarono alla finestra che metteva sulla veranda e dalla quale si dominava un vasto tratto di foreste. I soldati manciù erano ancora lontani tre o quattrocento metri, e s’avanzavano lentamente, senza alcuna precauzione, chiacchierando e ridendo forte. Erano una dozzina, luridissimi, stracciati, con dei cappelli di feltro nero a tesa ripiegata e infioccati, lunghe zimarre di cotone azzurro e alti stivali di grossa stoffa nera colla suola bianca. Sulle spalle portavano una cappa di pelle di montone colla lana all’infuori e dei moschettoni lunghi, pesanti e a miccia.

– Che splendidi guerrieri! – esclamò Rokoff. – Non saranno certamente quelli che ci metteranno fuori combattimento.

– Bada – disse Fedoro. – Sono robusti e coraggiosi.

– Che ci siamo ingannati? – si chiese il capitano. – Non mi pare che abbiano idee bellicose costoro. Non vedete come si avanzano tranquilli, senza nemmeno accendere le micce dei loro fucili?

– È vero – rispose Fedoro. – Che vengano qui per bere un po’ di acquavite? Quel tartaro doveva essere qualche taverniere.

– Tuttavia si dirigono verso questa casa e non potremo rifiutarci dal riceverli – disse Rokoff. – Ah! che idea!

– Che cosa volete dire? – chiese il capitano.

– Riceviamoli e facciamo gli onori di casa.

– Ma riconoscendo in noi degli stranieri non ci lasceranno andare liberi – disse Fedoro. – L’europeo non può spingersi oltre le frontiere della grande muraglia, senza esporsi a gravi pericoli.

– Che siano i soldati che ci hanno cannoneggiati?

– Certo, signor Rokoff – rispose il capitano – ed è per questo che non vorrei aver da fare con loro.

– Cerchiamo un mezzo per cavarcela.

– Vorrei ben trovarlo e… se ritirassimo la scala e lasciassimo i soldati padroni della stanza inferiore?

– E portiamo giù questi vasi onde si ubriachino presto, – disse Fedoro. – Giacché il tartaro non c’è, approfitteranno volentieri.

– Buona idea – disse Rokoff. – Sbrighiamoci, i manciù non sono che a cento passi.

Presero le tre pentole più grosse e le portarono nella cucina, poi tolsero i massi e socchiusero la porta, senza che i mangiatori d’oppio aprissero gli occhi. Russavano così sonoramente, che nemmeno il cannone li avrebbe svegliati.

Il capitano e i suoi compagni risalirono rapidamente nella stanza superiore, ritirarono la scala e chiusero il vano con una fitta stuoia.

Avevano appena terminato, quando i manciù giunsero dinanzi alla porta. Il capofila l’aprì con un poderoso calcio, gridando con voce imperiosa:

– Changhi, portaci del ciam-sciù; abbiamo tanta sete da vuotare tutti i tuoi vasi.

Non ricevendo risposta, entrò seguito da tutti gli altri.

– Changhi è scomparso, – disse un manciù – ed ha lasciato a guardia della sua casa questi sei ubriachi. Bah! Non protesteranno se noi diamo l’assalto a questi vasi che pare siano stati messi qui per noi. Tanto peggio per Changhi se non troverà più una goccia di sciam-sciù.

I manciù, bevitori formidabili quanto i cosacchi e gli irlandesi, si sedettero intorno ai vasi e cominciarono a bere a garganella senza occuparsi dei mangiatori d’oppio, i quali d’altronde non avevano interrotto il loro sonno.

I tre aeronauti, sdraiati al suolo, spiavano i bevitori attraverso uno strappo della stuoia. Di quando in quando, or l’uno e ora l’altro, s’alzavano per dare uno sguardo alla foresta, temendo il ritorno del tartaro.

– Appena saranno ubriachi ce ne andremo lestamente – aveva detto il capitano. – Se quel tartaro compare prima, guasterà ogni cosa e vorrei che rimanesse lontano qualche ora ancora.

I manciù, trovandosi liberi, ne abusavano per bere a crepapelle. Le tazze s’immergevano e si vuotavano con rapidità straordinaria, senza estinguere la sete che divorava quei robusti stomaci.

Cominciavano però a provare i primi sintomi dell’ubriachezza. Ridevano, schiamazzavano, parlavano tutti a un tempo, si dimenavano come ossessi e altercavano.

A un tratto uno di loro s’alzò e staccò una pipa che si trovava appesa al muro.

– Cerchiamo dell’oppio! – gridò. – Abbiamo ancora due vasi da bere e Changhi non è ancora giunto.

– Così si ubriacheranno più presto – disse Fedoro.

– Si vede il tartaro? – chiese il capitano a Rokoff, il quale si era allora recato sulla veranda.

– Non ancora.

– Se quei manciù continuano a bere con quell’avidità, fra un quarto d’ora saremo padroni del campo.

I manciù, già quasi ebbri, avevano trovato in un vano della parete una grossa pallottola d’oppio, del vero chandoo, il migliore che si conosca e che è molto apprezzato dai cinesi, e anche parecchie pipe adatte per fumarlo.

Sono un po’ diverse da quelle usate dai fumatori di tabacco.

Si compongono d’un tubo cilindrico, lungo ordinariamente mezzo metro, aperto da una parte e chiuso dall’altra e d’un fornello di forma conica situato a circa dieci centimetri dall’estremità che è chiusa.

Essendo l’oppio sciropposo e impregnato sempre d’umidità, prima di versarlo nella pipa lo si mette in un cucchiaio e lo si riscalda fino a che abbia preso una certa consistenza.

Ciò ottenuto lo si versa sull’orlo del fornello e lo si accende avvicinandolo a un bastoncino d’incenso o semplicemente alla fiamma del focolare.

I manciù, preparate ed accese le pipe, ricominciarono a bere con maggior ardore, alternando oppio e acquavite di riso. Una densa nuvola di fumo oleoso invase ben presto la stanza sfuggendo lentamente attraverso la stuoia.

– Ci ubriacheremo anche noi – disse Rokoff, alzandosi.

– Credo che sia il momento di andarcene – disse il capitano. – Ormai i soldati non lasceranno i vasi, finché rimarrà in fondo una goccia di liquore. Si vede nessuno fuori?

– No – rispose Fedoro.

– Dove sarà andato il tartaro? Questa assenza così prolungata non mi tranquillizza affatto.

– Lasciamolo dove si trova e sgombriamo – disse Rokoff. Afferrò la scala e la calò fuori della veranda.

– A voi, capitano – disse.

– Eccomi – rispose il comandante, afferrando il fucile.

Diede un rapido sguardo sotto le piante e non vedendo o almeno credendo che non vi fosse alcuno, scese rapidamente.

Era appena giunto a terra e Rokoff e Fedoro stavano scendendo l’uno dietro all’altro, quando un lampo balenò dietro un cespuglio, seguito da una fragorosa detonazione e dal ben noto fischio della palla.

Il capitano si volse rapidamente, puntando il fucile. Un uomo fuggiva rapidamente attraverso le piante, cercando di ripararsi dietro ai tronchi.

– Canaglia! – gridò il comandante. – Lo sospettavo!

Lasciò partire i due colpi. L’uomo che fuggiva cadde senza mandare un grido, scomparendo in mezzo a un cespuglio.

Rokoff e Fedoro con un solo salto erano balzati a terra, preparando le armi.

– Fuggiamo! – gridò il cosacco. – I soldati!

– Dove? – chiesero Fedoro e il capitano.

– Eccoli là che si avanzano fra gli alberi. Due o tre colpi di fucile rimbombarono.

Dei soldati accorrevano fra i tronchi dei pini e delle querce, facendo fuoco.

– Via! – gridò il capitano, ricaricando prontamente il fucile.

Tutti e tre si slanciarono furiosamente innanzi, raccomandandosi alle proprie gambe e dirigendosi verso l’Hoang-ho. I manciù si erano già gettati sulle orme dei fuggiaschi, continuando a sparare con nessun successo, perché le palle, mal dirette, non colpivano che i tronchi degli alberi.

In un quarto d’ora il capitano e i suoi compagni giunsero sulla riva del fiume, a breve distanza dalla barca.

I manciù, che si fermavano sovente per caricare i loro moschettoni, erano rimasti molto indietro. Tuttavia si udivano le loro grida avvicinarsi.

– Presto, imbarchiamoci – disse il capitano.

– Andiamo all’isolotto? – chiese Rokoff prendendo i remi.

– No, passiamo sull’altra riva. Sarebbe pericoloso mostrare ai manciù che noi abbiamo stabilito il nostro domicilio su quest’isola.

La scialuppa, spinta poderosamente innanzi dal cosacco, tagliò la corrente obliquamente, dirigendosi verso la riva sinistra, che si trovava lontana quasi tre chilometri.

Per metterla al coperto dal fuoco dei soldati, Rokoff prima si accostò all’isolotto, onde ripararsi dietro di esso.

Il capitano e Fedoro si erano sdraiati a poppa, tenendo i fucili in mano. I manciù cominciavano a comparire.

Urlavano come belve feroci e saltavano come capre. Giunti sulla riva si sparpagliarono dietro i tronchi dei pini e delle querce, aprendo una nutrita fucilata.

Erano una ventina e alla loro destra si vedeva il tartaro. Il briccone era miracolosamente sfuggito ai colpi del capitano e per paura degli altri si era lasciato cadere, fingendosi morto.

– Canaglia! – esclamò il comandante dello “Sparviero”, scorgendolo. – Peccato che i nostri fucili da caccia non abbiamo che una portata assai limitata. Se avessi un Mauser o uno dei miei Winchester, non grideresti tanto.

Il fuoco dei manciù continuava senza interruzione, ma le armi degli aeronauti non potevano servire più, in causa della distanza; nemmeno quelle antichissime dei soldati riuscivano a colpire il bersaglio.

Qualche palla, è vero, giungeva fino alla scialuppa, senza avere la forza di traforare le tavole.

Rokoff, che arrancava con furore, con pochi colpi di remo raggiunse la punta meridionale dell’isolotto, virò prontamente di bordo, scomparendo agli occhi dei manciù, poi riprese la corsa verso la riva opposta.

Il capitano e Fedoro, entrambi in piedi, guardavano fra gli alberi per vedere se il macchinista compariva. Quegli spari dovevano averlo allarmato e fattogli interrompere la riparazione.

La scialuppa si era allontanata di cinquanta o sessanta metri, quando lo videro comparire fra i canneti.

– Non mostrarti! – gli gridò il capitano, mentre i manciù riprendevano il fuoco mandando le loro palle sopra l’isolotto. – Ti aspettiamo laggiù: affrettati.

Il macchinista fece col capo un cenno affermativo, poi lo videro slanciarsi fra le piante e scomparire.

– Che la riparazione sia quasi finita? – chiese Fedoro.

– Se il macchinista ha lavorato sempre, fra qualche ora lo “Sparviero” potrà rialzarsi – rispose il capitano.

– E se i manciù attraversano il fiume?

– Fuggiremo lasciando la cura al macchinista di raggiungerci.

– E se sbarcassero sull’isolotto?

– Perché dovrebbero prendere terra colà? Vedono bene che ci dirigiamo verso la riva opposta, quindi non si occuperanno che di noi. Io credo che nessuno abbia veduto lo “Sparviero” scendere in mezzo al fiume. E poi, almeno pel momento, non hanno barche.

– Che sia stato il tartaro a tradirci?

– Non ho più alcun dubbio – rispose il capitano. – Mentre noi facevamo colazione, si è recato al fortino ad avvertire i soldati della nostra presenza. Forse contava su qualche premio.

– Briccone!

– E l’ha avuto – disse Rokoff, ridendo. – Tre vasi di sciam-sciù vuotati e che i soldati non gli pagheranno di certo.

– Ci siamo! E non vedo alcuna capanna.

La scialuppa si era arenata su un banco di sabbia il quale si prolungava fino alla riva.

I tre aeronauti la trascinarono più innanzi onde la corrente non la portasse via, poi si diressero verso la foresta la quale bagnava le radici dei suoi ultimi alberi nelle acque del fiume.

Il luogo pareva deserto. Non vi erano che pini, querce, alberi del sevo, giuggioli e bande di uccelli.

Rokoff si avventurò sotto gli alberi per qualche centinaio di passi, giungendo sulla sponda d’una vasta palude ingombra di canne e da dove lo sguardo poteva spaziare liberamente per parecchie miglia.

Intanto i manciù, dopo aver sprecato buona parte delle loro munizioni, non ottenendo altro risultato che quello di spaventare gli uccelli acquatici, si erano diretti verso il nord seguendo la riva del fiume, onde poter meglio sorvegliare le mosse degli stranieri e fors’anche colla speranza di trovare qualche giunca.

Invece, in quella direzione non si scorgeva alcun veliero e nemmeno una di quelle barche che servono pel trasporto del riso o del tè e che sono, di solito, così numerose sull’Hoang-ho.

– Si vede che non hanno rinunciato alla speranza di darci la caccia – disse il capitano, che li aveva seguiti collo sguardo.

– Se trovano qualche imbarcazione attraverseranno il fiume.

– Capitano, accettate un mio consiglio? – chiese Rokoff, il quale era ritornato dalla sua esplorazione.

– Dite pure.

– Risaliamo il fiume anche noi.

– Ed a quale scopo?

– Per allontanare sempre più i soldati dall’isolotto e per respingere a fucilate le giunche che potrebbero scendere l’Hoang-ho e venire requisite dai nostri avversari.

– La vostra idea non mi piace. Lo “Sparviero” ci raggiungerà egualmente e così facendo allontaneremo ogni pericolo pel nostro macchinista e per l’aerotreno.

– E potremo continuare la nostra caccia – aggiunse Fedoro.

Tornarono verso il banco e ripresero i loro posti nella scialuppa, rimontando lentamente la corrente e oltrepassando l’isolotto.

I manciù rivedendoli comparire li salutarono con selvaggi clamori, ma sapendo che il loro fuoco non sarebbe stato efficace in causa della distanza, non sprecarono le munizioni.

I tre aeronauti finsero di non essersi nemmeno accorti della loro presenza e continuarono tranquillamente il loro viaggio, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile contro le anitre mandarine, i marangoni, i beccaccini e le oche che erano sempre numerose.

Avevano già percorso tre o quattro miglia facendo delle frequenti fermate per raccogliere i volatili che abbattevano, quando Fedoro, che si trovava a prora, mandò un grido di rabbia:

– Stiamo per venire presi!…

– Da chi? – chiesero a una voce Rokoff e il capitano.

– Una giunca di guerra scende il fiume!

– Per tutte le steppe del Don! – esclamò Rokoff. – L’avventura minaccia di finire male!…

– E lo “Sparviero” è ancora ammalato! – esclamò Fedoro. – Dove fuggire?

Il capitano non rispose. Invece di guardare la giunca aveva volti gli occhi verso l’isolotto, dove vedeva apparire e agitarsi al disopra degli alberi, le immense ali del suo aerotreno.

– Giungeranno troppo tardi – disse finalmente. – Lo “Sparviero” fra poco sarà qui e ci rapirà sotto gli occhi dei manciù e dell’equipaggio della giunca. Signor Rokoff, ridiscendiamo la corrente.

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