La caccia agli “jacks”

Di miglio in miglio che lo “Sparviero” si spingeva verso il sud, il deserto accennava a cambiare. La monotonia desolante di quelle sabbie che scintillavano per le masse di sale che contenevano, veniva rotta da qualche altura, da qualche gruppo enorme di rocce per lo più nere o da qualche minuscola oasi dove si vedevano saltellare in gran numero montoni selvatici, dei grandi cervi chiamati mara dai mongoli, dei caprioli dalle forme sottili ed eleganti e dei capretti muschiati, assai ricercati dai cacciatori, possedendo una specie di borsa contenente un liquido assai odoroso, simile a quello che danno gli zibetti dell’Africa.

Quelle oasi erano però piccole, e lo “Sparviero” in pochi minuti le attraversava per rientrare subito nel deserto.

Quando poi la sua ombra immensa si proiettava fra quelle magre piante, era una fuga generale di tutti gli animali. Antilopi, cervi, capretti si precipitavano all’impazzata in tutte le direzioni, fuggendo con fantastica rapidità, seguiti anche dai grossi avvoltoi dal collo spellato e schifoso e dalle arpie, specie d’aquile rapacissime, che fanno delle vere stragi fra i piccoli abitanti dello Sciamo.

Verso il tramonto, quando lo “Sparviero”, che non si era arrestato un solo istante, aveva già attraversato almeno un terzo del deserto, il capitano mostrò a Fedoro e a Rokoff una catena di altissime rocce, sulle quali si vedevano inerpicarsi degli animali assai villosi, che rassomigliavano vagamente ai buoi.

– Sapete che cosa sono? – chiese.

– Dei bufali?

– No, jacks selvatici.

– Ci avevate promesso di farceli cacciare.

– È quello che faremo domani mattina – rispose il capitano. – Abbiamo bisogno di rinnovare le nostre provviste, prima di affrontare gli altipiani del Tibet, che sono d’una aridità spaventosa, e anche di procurarci delle pellicce ben calde e del grasso. Farà molto freddo lassù.

– Non fuggiranno intanto gli jacks?

– Dove trovano pascoli si fermano e siccome il deserto non abbonda di vegetazione, non lasceranno quelle rupi.

– Dove ci fermeremo per passare la notte?

– Sulle sabbie, per metterci al riparo dal vento. Non sentite come soffia?

– È freddissimo, capitano. Sarebbe da preferirsi ora una macchina a vapore alla vostra aria liquida.

– Un brutto cambio in queste regioni che sono prive di grossi vegetali. Sugli altipiani non troveremo nemmeno un albero.

Essendo giunti quasi di fronte a quell’enorme accatastamento di rocce, il capitano diede il segnale della discesa.

Lo “Sparviero” poco dopo si adagiava sulle sabbie, in una profonda depressione del terreno, circondata da rupi e che pareva dovesse essere stato anticamente il fondo di qualche bacino, essendovi abbondanza di lastre di sale.

Quantunque riparati, il vento soffiava freddissimo, scendendo dalle non lontane catene nevose degli Allyn-tag, i quali segnano il confine fra il deserto e il Tibet.

I cinque aeronauti, dopo essersi accertati che non vi era alcuno in quei dintorni, cenarono alla lesta e si rinchiusero nel fuso d’alluminio, raddoppiando le coperte.

Non era ancora sorta l’alba, che già il capitano, Rokoff e Fedoro erano in piedi ansiosi di dare la caccia agli jacks che avevano veduto pascolare la sera innanzi.

Sapendo d’aver a che fare con animali pericolosi, armati di corna formidabili e dotati d’una forza non inferiore a quella dei bufali, si erano armati di carabine di grosso calibro e di lunghi coltelli da caccia, dei bowie-knife americani colla lama solidissima.

La giornata si annunciava bellissima, quantunque il freddo fosse notevolmente aumentato. Un’aria secca, che tagliava i volti e che screpolava le labbra, soffiava sempre dagli Allyn-tag, sollevando le sabbie del deserto in fitte cortine.

– Con una buona camminata ci scalderemo – disse Rokoff mettendosi in tasca alcuni biscotti e qualche scatola di carne conservata.

– E gli jacks vi faranno anche correre – disse il capitano. – Sono animali assai diffidenti, che non si lasciano avvicinare facilmente. Badate di non commettere imprudenze e di non sparare se non a colpo sicuro, perché, quando sono feriti, si rivoltano furiosamente.

La catena di rocce non era lontana che un quarto di miglio. Era formata da ammassi di rupi ripidissime, coperte da una magra vegetazione, composta per lo più di graminacee e di licheni, divise da minuscole vallette che salivano tortuosamente verso le cime.

Il capitano avendo scoperto un burrone che pareva meno aspro degli altri, fiancheggiato da qualche gruppetto di betulle nane, guidò i compagni attraverso quel passo che doveva condurre sui piccoli altipiani superiori.

– Che si trovino lassù gli jacks? – chiese Fedoro.

– Per lo più si tengono alti – rispose il capitano. – Mentre i nostri bufali preferiscono le bassure e soprattutto i terreni paludosi, i loro confratelli della Mongolia di rado abbandonano le cime delle montagne.

– Sono indomabili?

– Non del tutto; i tibetani li adoperano per trasportare le tende e le merci, quantunque siano sempre un po’ selvaggi.

– Non ne vedo però alcuno in questo burrone – osservò Rokoff, che era impaziente di misurarsi con quella grossa selvaggina.

– Ne troveremo, non dubitate – rispose il capitano. – Ho già scorto le loro tracce e anche molto argol.

– Che cos’è questo argol?

– Sterco disseccato degli jacks che i tibetani raccolgono preziosamente.

– Per cosa farne?

– Per bruciarlo, non avendo legname sugli altipiani.

– Che minestre profumate devono riuscire! – esclamò Rokoff.

– Non sono tanto sottili.

– Sicché sulle loro montagne manca perfino l’erba.

– Non vi sono altro che sassi.

– E non allevano bestiame?

– Sì, dei piccoli cavalli.

– E che cosa danno da mangiare a quegli animali, se non possono raccogliere fieno?

– Avete mai udito narrare che nell’Islanda vi siano delle praterie?

– No, signore. Mi hanno detto che in quella grande isola dell’Atlantico settentrionale non vi sono che vulcani e montagne di lava e di pomici.

– Eppure non vi è islandese che non abbia almeno una mezza dozzina, se non due, di cavalli. Qualche praticello, magrissimo, si trova anche su quei terreni tormentati dai vulcani, ma non basteranno a nutrire nemmeno dieci di quegli animali.

– E come vivono allora?

– Di teste di merluzzi e d’avanzi di pesce.

– Oh! Questa è grossa!

– E così anche quelli dei tibetani si sono abituati a nutrirsi di carni e, quello che è più sorprendente, di carne cruda.

– E non deperisce la razza?

– Al pari di quelli d’Islanda, i cavalli tibetani sono, a poco a poco, diventati piccolissimi.

– Silenzio – disse in quell’istante Fedoro. – Odo dei muggiti lassù.

Avevano allora quasi raggiunto l’estremità del burrone, che in quel luogo si stringeva tanto da rendere quasi impossibile il passaggio.

Da quell’apertura si udivano dei muggiti prolungati, accompagnati da colpi di zoccolo.

– Siamo vicini agli jacks – disse il capitano, armando la carabina. – Gettiamoci in mezzo a quelle rocce e avanziamo senza far rumore.

– Non udite questi rumori? – chiese Rokoff. – Si direbbe che quegli animali battagliano fra di loro.

– Meglio così; potremo sorprenderli più facilmente.

Superarono, con non lievi fatiche, un enorme masso che chiudeva parte della gola e gettatisi al suolo si misero a strisciare l’un dietro l’altro, procurando di tenersi sottovento.

Appena giunti allo sbocco del burrone si fermarono tutti e tre, appiattandosi dietro la sporgenza d’una rupe.

Dinanzi a loro si estendeva un minuscolo altipiano, di poche centinaia di passi d’estensione, limitato da una parte da un abisso, dal cui fondo salivano dei cupi muggiti, prodotti da qualche impetuoso torrente o da qualche cascata.

Su quello spiazzo una mandria di grossi ruminanti d’aspetto selvaggio, col pelo lunghissimo e la testa armata di lunghe corna, stava sdraiata, mentre due dei più grossi si assalivano furiosamente, cozzandosi le solide fronti e staccandosi grossi ciuffi di pelo.

Quei due campioni avevano quasi la statura dei bufali e dovevano anche possederne la forza.

Colla testa bassa, gli occhi iniettati di sangue, le code in aria, i fianchi palpitanti e le bocche coperte di schiuma sanguigna si guatavano un momento, poi si scagliavano l’un contro l’altro coll’impeto di due arieti o meglio di due catapulte, cercando di sfondarsi il petto a colpi di corna.

Sì l’uno che l’altro perdevano sangue in abbondanza da numerose ferite, eppure continuavano a caricarsi con maggior lena, decisi a uccidersi.

I loro compagni intanto ruminavano pacificamente, senza inquietarsi di quel duello che doveva finire colla morte di uno o dell’altro degli avversari, se non di tutti e due.

– Fate fuoco sulle femmine – sussurrò il capitano agli orecchi di Fedoro e di Rokoff. – I maschi hanno la carne troppo coriacea.

– Io ho scelto la mia – disse il cosacco.

– Ed io pure – aggiunse il russo.

– Fuoco!

I tre colpi di carabina non ne formarono che uno solo. Una femmina, colpita forse al cuore, cadde fulminata, le altre invece s’alzarono rapidamente, fuggendo al galoppo.

I due maschi, udendo quelle detonazioni che l’eco delle rupi centuplicava, si erano fermati guardandosi intorno.

Vedendo il fumo alzarsi dietro le rupi, dimenticando per un momento i loro rancori, si precipitarono verso quella parte, a testa bassa, mostrando le loro minacciose corna.

– Fuggite! – ebbe appena il tempo di gridare il capitano, aggrappandosi a una radice che pendeva da un crepaccio.

Rokoff con un salto balzò su una rupe che gli stava presso, scalandola precipitosamente, ma Fedoro non poté mettersi in salvo.

Mancandogli il tempo di caricare e vedendosi piombare addosso i due formidabili animali, si gettò da un lato onde evitare le loro corna, poi si slanciò a corsa disperata verso il piccolo altipiano, senza pensare che duecento passi più innanzi v’era l’abisso.

– No, da quella parte! – gridò il capitano, che si era accorto del pericolo. – Salvatevi su qualche roccia!

Mentre un jack si fermava sotto la rupe scalata dal cosacco, sforzandosi di salirla, l’altro si era slanciato sulle tracce del russo muggendo e facendo volare i sassi sotto gli zoccoli.

Il maledetto animale, quasi si fosse avveduto che dalla parte del precipizio Fedoro non poteva sfuggire, con un fulmineo giro lo aveva costretto a ripiegare verso l’abisso.

Il disgraziato cacciatore si era pure accorto che la morte lo minacciava dinanzi e di dietro. Cercò di tornare sui propri passi per raggiungere la gola, ma era troppo tardi.

Lo jack, sempre più inferocito, lo incalzava da presso.

– Fedoro – gridò Rokoff, il quale caricava frettolosamente la carabina. – Gettati al suolo!

Il capitano, che non era riuscito a raggiungere la cima della roccia, si trovava nell’assoluta impossibilità di tentare d’accorrere in aiuto di Fedoro. Costretto a tenersi aggrappato alla radice, si trovava lui stesso in grave pericolo, perché sotto di lui il secondo jack balzava come un indemoniato, sfiorandogli le suole degli stivali colle corna.

Fedoro, smarrito, si era arrestato sull’orlo della spaccatura. Era un abisso di venti metri e largo più di cento colle pareti tagliate a picco e con in fondo un torrentaccio che scrosciava cupamente fra le rocce.

– Sono perduto! – mormorò.

Lo jack caricava allora a testa bassa, pronto a precipitarlo nel baratro. Già non restavano che pochi metri, quando si udì la detonazione della carabina di Rokoff.

L’animale, colpito in qualche organo vitale s’impennò, rizzandosi sulle zampe posteriori, girò due volte su se stesso, poi stramazzò su un fianco.

– Fuggi, Fedoro! – gridò Rokoff.

Non vi era bisogno che lo incitasse.

Il russo, sfuggito miracolosamente a quel terribile salto che doveva ridurlo in una poltiglia sanguinosa, si era già messo a correre verso la gola, ricaricando la carabina.

– Salviamo ora loro – si era detto.

Il secondo jack, accortosi della presenza di quel nuovo avversario, si era lasciato scivolare dalla rupe, ma doveva far i conti con due fucili. Anche Rokoff non aveva perduto il suo tempo dopo quel colpo fortunato.

Si era appena slanciato, quando i due amici fecero fuoco a pochi secondi l’uno dall’altro.

Lo jack nondimeno continuò la sua corsa indemoniata, ma non già contro Fedoro. Correva lungo il precipizio, dirigendosi verso una gola che s’apriva all’estremità del piccolo altipiano e per la quale era fuggita la mandria.

– Badate! – gridò il capitano, che aveva potuto finalmente abbandonare la radice. – Odo i muggiti degli altri jacks! Presto, cerchiamo un rifugio!

– Qui! Qui! – disse Rokoff.

Fedoro e il capitano stavano per slanciarsi verso la rupe, quando videro ritornare a corsa sfrenata l’animale che aveva ricevuto poco prima i due colpi di carabina.

Non era però solo. Guidava la mandria, alla quale si erano uniti parecchi maschi che fino allora dovevano essersi tenuti nascosti dietro le rocce e che erano occupati a combattersi.

Quei venti o trenta animali passarono come un uragano attraverso la gola e scesero il burrone col fragore d’una valanga.

– Per tutti gli storioni del Volga! – esclamò Rokoff, che era riuscito ad issare il capitano e Fedoro sulla rupe. – Se ci sorprendevano sul loro passaggio, ci riducevano in briciole! Che siano discesi fino nel deserto?

– E lo “Sparviero”? – chiese Fedoro, impallidendo.

– Ho detto al macchinista di mantenere la macchina in funzione – rispose il capitano. – E poi non credo che gli jacks lascino queste rupi.

– Che li ritroviamo? – chiese Fedoro.

– Non mi sorprenderei; anzi, se troviamo un altro passaggio, seguiamolo. Non vorrei imbattermi ancora con quella mandria.

– E l’animale che abbiamo ucciso?

– Sceglieremo i pezzi migliori.

– Signor Rokof, avete le braccia che non tremano, voi. Ecco qui una ferita che i migliori cacciatori del Far-West americano vi invidierebbero certamente.

– Toccato al cuore?

– Sì, signor Rokoff.

– Si trattava di salvare Fedoro da una morte certa.

– E che morte! – esclamò il russo, gettando uno sguardo atterrito verso l’abisso. – Che salto! Più di venti metri con un torrente nel fondo! Rabbrividisco ancora pensando al pericolo corso.

– Dovete la vostra vita a quella palla fortunata – disse il capitano.

– Eppure io non avrei esitato a tentare il salto – disse Rokoff, che guardava il torrente. – L’acqua deve essere profondissima e me la sarei cavata con un semplice bagno.

– Voi cosacchi trovate tutto possibile – rispose Fedoro, ridendo. – So che per una scommessa qualunque non esitate a saltare da un bastione coi vostri cavalli e senza fiaccarvi il collo.

– Facciamo anche di peggio – disse Rokoff.

– Aiutatemi – disse il capitano.

Aveva estratto il bowie-knife e aveva cominciato a sventrare l’jack con un’abilità da far stupire i suoi compagni.

– Voi avete ammazzato ancora di questi animali? – chiese Rokoff.

– No, ma invece dei bisonti.

– Maneggiate il coltello meglio d’un cow-boy – disse Fedoro.

– Ho imparato da loro – rispose il capitano.

– Ah! Siete stato nel Far-West?

Il capitano, invece di rispondere, aprì la gola all’animale e con un colpo maestro strappò la lingua, dicendo:

– Ecco un boccone da re.

La depose sul muschio che cresceva lì presso e cominciò a disarticolare il corpaccio dell’jack spaccando ad una ad una le costole alle loro congiunzioni colla spina dorsale, mentre Rokoff e Fedoro s’impadronivano del fegato e del cuore.

Avevano già separato interamente l’animale, quando verso la gola udirono un fragore assordante.

– Prendete le carabine! – gridò il capitano ringuainando prontamente il bowie-knife. – Gli jaks tornano.

– Ancora! – esclamò Rokoff. – Se ci sorprendono qui siamo spacciati.

– Guadagniamo le rocce – disse Fedoro.

Stavano per slanciarsi attraverso il piccolo altipiano per cercare un rifugio, quando videro la mandria sbucare a corsa sfrenata.

I vendicativi animali, dopo aver percorso tutto il burrone, erano risaliti senza che i cacciatori se ne fossero accorti ed ora stavano per caricarli su quello spazio ristretto che pareva non avesse alcuna uscita.

Il capitano e i suoi due compagni, atterriti da quell’improvviso ritorno, si erano raggruppati nuovamente verso l’abisso, essendo loro mancato il tempo di salvarsi sulle rupi.

– Siamo perduti! – aveva esclamato il capitano.

Gli jacks, vedendoli, si erano fermati colle teste basse, mostrando le loro lunghe corna. Pareva che esitassero ad attaccare, forse tenuti in rispetto dalle tre carabine che li minacciavano.

– Non fate fuoco – disse il capitano, precipitosamente. – Cerchiamo di non irritarli.

– E se ci assalgono, dove ci salveremo noi? – chiese Fedoro, rabbrividendo. – Chi resisterà a simile carica?

– Verremo scagliati nell’abisso – disse Rokoff. – Cercate di saltare nel torrente, se vi sarete costretti, o vi sfracellerete sulle rocce.

Gli jacks non accennavano a muoversi, come se si divertissero delle angosce terribili dei disgraziati cacciatori.

Solamente i maschi erano passati dinanzi, disponendosi su una linea, come per proteggere le femmine.

Il capitano e i suoi compagni, pallidissimi, tenevano sempre le carabine puntate, quantunque non avessero molta speranza di fugare la mandria con tre sole palle.

Quella situazione tremenda durò due o tre minuti, che ai cacciatori parvero lunghi come ore, poi gli jacks, con un movimento fulmineo, si disposero su un mezzo cerchio, caricando alla disperata.

– Fuoco! – gridò il capitano.

Scaricarono precipitosamente le carabine. Un animale cadde, ma gli altri, maggiormente inferociti, non interruppero la corsa.

– Saltate! – gridò Rokoff.

Con un coraggio che doveva rasentare la follia, pel primo diede l’esempio. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere nel vuoto, roteando due o tre volte su se stesso.

Gli parve di sentirsi mancare il respiro, come una specie d’asfissia fulminante, poi provò un’atroce sensazione di freddo e udì un rombo assordante che gli parve gli spezzasse il cranio.

Era caduto in mezzo al torrente, inabissandosi in un’acqua così gelata che credette, di primo colpo, di morire assiderato.

Per sua buona sorte e come d’altronde aveva previsto, l’acqua era assai profonda, sicché, invece di sfracellarsi sulle rocce che dovevano coprire il letto, poté risalire a galla stordito sì, ma incolume.

Aveva appena aperto gli occhi che vide Fedoro e il capitano precipitare a dieci metri più sopra assieme a un enorme jack che non era stato capace di fermarsi a tempo sull’orlo dell’abisso.

Tutti e tre s’immersero, sollevando giganteschi sprazzi.

– Capitano! Fedoro! – gridò, mettendosi a nuotare vigorosamente per non venire trascinato via dalla corrente che era impetuosissima.

Prima a comparire fu la testa del capitano, poi anche Fedoro emerse agitando disperatamente le braccia.

– Che non sappia nuotare? – si chiese il cosacco.

Fendette la corrente e lo raggiunse nel momento in cui stava per scomparire di nuovo.

– Coraggio, amico! – gli gridò.

Sorreggendolo per un braccio, si spinse verso la riva, sulla quale stava arrampicandosi il capitano.

– Aiutatemi, signore! – gridò.

– A voi! – rispose il comandante.

Si era slacciata la lunga sciarpa di lana rossa che gli cingeva i fianchi e gliela aveva lanciata, tenendola per l’altro capo. Rokoff la prese al volo e si lasciò portare verso le rocce, sempre sorreggendo l’amico.

– Ferito? – chiese il capitano, vedendo Fedoro pallidissimo.

– No… No… è il freddo e anche l’emozione – rispose il russo – e poi non so nuotare… grazie Rokoff. Senza di te l’acqua mi avrebbe trascinato via. Che salto! Tremo come se avessi la febbre.

– E quel maledetto jack? – chiese Rokoff. – Credevo che vi piombasse addosso e vi schiacciasse.

– Si è messo in salvo sull’altra riva – rispose il capitano. – Mi pare però che si sia spezzate le gambe o fracassate le costole.

L’animale pareva infatti che non se la fosse cavata molto liscia in quel terribile capitombolo. Era riuscito a salire la riva, poi si era lasciato cadere al suolo muggendo lamentosamente e perdendo sangue dalla bocca.

– Muori dannato! – gridò Rokoff.

– Ed ora, che cosa facciamo? – chiese Fedoro. – Mi sembra di avere al posto del cuore un blocco di ghiaccio. Come era gelata quell’acqua!

– Cerchiamo un’uscita e torniamo allo “Sparviero” – disse il capitano. – Ne ho anch’io abbastanza di questa caccia.

– Uscire! – esclamò Rokoff. – Lo potremo noi? Guardate, signore, e ditemi come potremo fare a tornare lassù.

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