Una cannonata sull’hoang-ho

Attraversato l’altipiano, lo “Sparviero” che accelerava la sua corsa raggiungendo i quaranta chilometri all’ora, si era slanciato in un immenso vallone chiuso fra due lunghe catene di montagne tagliate quasi a picco e ingombro di una folta nebbia, che un vento impetuoso travolgeva burrascosamente.

Più che nebbie erano banchi di nuvole di spessore straordinario, a strati sovrapposti e di una bianchezza abbagliante, gravide però di pioggia.

Sulla valle l’acqua doveva cadere in gran copia, udendosi sotto l’aerotreno un crepitio incessante.

Lo “Sparviero”, che si manteneva a un’altezza di settecento metri, ben presto si trovò in mezzo ai banchi, tuffando gli aereonauti fra le masse vaporose ed ora uscendone, non avendo quegli strati dovunque un eguale spessore.

Non si deve credere che le nuvole formino sempre delle masse compatte, come appaiono agli sguardi delle persone che si trovano in terra. Sovente formano dei veri banchi, di lunghezza e di larghezza considerevole, separati da leggeri strati d’aria più o meno vasti che lasciano cadere la pioggia sugli strati inferiori, senza lasciarla cadere fino a terra.

Se ne trovano a tremilacinquecento metri d’altezza e a millecinquecento, e perfino a soli duecento metri dalla superficie della terra.

Lo “Sparviero”, dopo essere scivolato fra quei banchi, tornò a rivedere il sole, passando sopra un nuovo gruppo di montagne che si dirigevano verso il sud-ovest.

I villaggi ricominciavano a comparire, circondati da campi coltivati con gran cura e da risaie sconfinate che terminavano in mezzo a paludi. Essendosi lo “Sparviero” abbassato fino a duecento metri, gli aeronauti scorgevano sovente dei contadini, i quali, come in altri luoghi, vedendo quel gigantesco uccello solcare l’atmosfera, fuggivano a rompicollo e si gettavano nei solchi; coprendosi perfino colle erbe e colla terra per paura di venire divorati da quella bestia che dovevano scambiare sempre per un terrribile drago.

Intanto, panorami meravigliosi e sempre nuovi, si svolgevano dinanzi agli sguardi degli aereonauti.

Ora erano smaglianti praterie dove pascolavano miriadi di montoni; ora catene di colline coi fianchi coperti da foreste più che secolari e interrotte da valloni e da burroni dove scrosciavano o muggivano impetuosi corsi d’acqua; ora piantagioni superbe, divise in grandi quadri con cura meticolosa, dove crescevano gelsi, piante di cotone ed indaco; ora immense ortaglie che circondavano graziosi villaggi; di quando in quando qualche torre lanciava i suoi tetti arcuati e adorni di campanelli al di sopra d’un fortino perduto sulle creste di qualche altura.

Al sud, a una grande distanza, si vedeva giganteggiare sempre la grande muraglia, che seguiva le capricciose curve e le salite d’una catena di monti. Al nord invece, seminascosta dalla nebbia, appariva una pianura sconfinata, che scintillava vivamente sotto i raggi del sole, era la steppa od il deserto di Gobi, o meglio lo Sciamo, come lo chiamano i tartari.

A mezzodì un gran nastro d’argento si delineò verso l’ovest, tagliando tutto l’orizzonte.

– Il Fiume Giallo – disse il capitano, dopo averlo osservato attentamente con un buon cannocchiale. – Siamo sui confini dell’antico impero cinese; al di là vi è la Mongolia.

– Andremo a vederlo? – chiese Fedoro.

– Anzi, seguiremo per qualche tratto il suo corso, prima di slanciarci attraverso il deserto.

– E perché volete attraversarlo, mentre la nostra rotta per andare in Europa sarebbe il sud-ovest? – chiese Rokoff.

Il capitano guardò il cosacco per qualche minuto, ma non rispose, anzi si allontanò raggiungendo il macchinista che teneva la ruota del timone.

– Che strano uomo! – esclamò Rokoff. – Che abbia tutt’altra intenzione che di condurci in Europa? Comprendi qualche cosa tu Fedoro?

– No, Rokoff.

– Quale scopo può avere per condurci attraverso lo Sciamo?

– Non riesco a indovinarlo.

– Che voglia invece condurci in Siberia? –

– A fare che cosa?

– Ho pensato che quest’uomo potesse essere… indovina chi, Fedoro.

– Non saprei.

– Un agente segreto della polizia russa, incaricato di scoprire gli esiliati che fuggono dalle miniere siberiane.

– In tal caso, imbarcando noi sul suo “Sparviero”, avrebbe preso un granchio colossale – disse il russo, ridendo. – Io credo invece che sia uno scienziato.

– Appartenente a quale nazione? Vorrei sapere perché non ce lo dice – disse Rokoff.

– Forse un giorno ce lo dirà. D’altronde noi non possiamo lamentarci della sua ospitalità, quindi non c’importa di sapere se sia americano o russo o inglese o italiano… Italiano! Ha un accento così dolce che lo riterre per tale, Rokoff. Non te ne sei accorto?

– Infatti la sua pronuncia mi pare che non abbia la ruvidezza della lingua inglese, né tedesca, né…

– Signori, l’Hoang-ho – disse il capitano avvicinandosi bruscamente. – Ci terreste a una partita di caccia sui suoi isolotti o sulle sue rive? Si dice che i fagiani dorati ed argentati abbondino fra i canneti.

– Farei volentieri alcune fucilate, capitano – disse Rokoff, prontamente.

– Ho dei buonissimi fucili da caccia che metto a vostra disposizione. Quando giungeremo in un luogo deserto scenderemo.

L’Hoang-ho, o Fiume Giallo, si svolgeva dinanzi agli sguardi degli aeronauti, aprendosi il passo fra due rive coperte da giganteschi pini e da numerose capanne. Questo fiume, chiamato giallo perché le sue acque, scorrendo su un letto d’argilla giallastro ne assumono il colore, è uno dei più importanti della Cina, raggiungendo una lunghezza di ben tremilanovecentonovanta chilometri.

Nasce nella Mongolia – fra le aspre montagne del Kulkum, dove viene chiamato dagli indigeni Haro-mu-ren. Dopo immensi serpeggiamenti va a bagnare le terre delle provincie cinesi di Kan-Suhe, di Scen-Si e del Sian-Si, entra fra quelle dell’Ho-Nam e del Kiang-Su e va a scaricarsi nel Mar Giallo duecentoventi chilometri al nord dell’Yang-tse-Kiang, l’altro gigantesco fiume della Cina.

È un corso d’acqua rapidissimo, molto largo, irto di bassi fondi che ne rendono la navigazione difficile e sommamente pericolosa per le sue piene. Disastri enormi ha prodotto in tutti i tempi, subissando molte città ed ingoiando migliaia e migliaia di abitanti, nonostante le gigantesche dighe costruite dai primi imperatori cinesi e continuate fino ai nostri giorni.

Nel momento in cui lo “Sparviero” giungeva, numerosi pescatori si trovavano disseminati attorno agli isolotti, montati su sha-ting, specie di barche piatte, e alcune giunche dalle forme tozze, colle immense vele formate da giunchi intrecciati, solcavano il fiume.

Vedendo apparire quel mostro volante, che procedeva con velocità fulminea e con un rombo sonoro, uno spavento indicibile si era sparso fra i cinesi. Le giunche si affrettavano a dirigersi verso le rive, mentre i pescatori, pazzi di terrore, balzavano in acqua, abbandonando le loro barche alla corrente.

– Un drago! Un drago! – urlavano tutti.

Gli abitanti delle sponde, udendo quei clamori, si precipitavano fuori delle capanne, ma, appena scorto il mostro volante, s’affrettavano a rientrare, gridando e facendo gesti disperati.

Rokoff e Fedoro si divertivano immensamente del terrore dei cinesi e anche il capitano pareva che si compiacesse dell’effetto che produceva la sua macchina volante, la quale seguiva le capricciose curve del fiume, tenendosi a un’altezza di soli cento metri.

A un tratto però le loro risa si tramutarono improvvisamente in un’esclamazione di sorpresa e anche d’angoscia.

Lo “Sparviero” aveva superato una curva, quando d’un tratto un colpo di cannone rimbombò sulla riva destra, in mezzo ad un folto gruppo di pini seguito subito dal ben noto ronfo metallico d’un grosso proiettile.

Un fortino, nascosto fino allora dalle piante, si era improvvisamente delineato all’estremità d’un piccolo promontorio dominante il corso del fiume ed alcuni artiglieri, che occupavano una bastionata, avevano fatto fuoco contro il mostro, scaricando un grosso pezzo d’artiglieria.

La palla, di grosso calibro di certo, era passata pochi metri sopra il fuso, perdendosi poi fra le boscaglie della riva opposta. Un po’ più abbasso e forse la macchina sarebbe stata fracassata.

– In alto! In alto! – aveva gridato il capitano, slanciandosi verso il macchinista.

Rokoff e Fedoro avevano staccato rapidamente due fucili che si trovavano sospesi alla balaustrata armandoli precipitosamente.

In quell’istante un secondo sparo rimbombava all’estremità del bastione, dietro un terrapieno.

Altri soldati, dei manciù, avevano smascherato un secondo pezzo e credendo in buona fede d’aver a che fare con qualche mostro, avevano fatto fuoco. Un momento dopo l’ala di babordo, troncata a metà, quasi nel centro dell’armatura, si ripiegava bruscamente, spostando il fuso.

Il capitano aveva mandato un grido di furore. – Canaglie! Ci rovinano!

Rokoff e Fedoro avevano risposto con due colpi di fucile, abbattendo uno degli artiglieri.

Gli altri, vedendo cadere il loro compagno, si erano precipitati all’impazzata verso una casamatta, abbandonando il pezzo.

Fortunatamente, anche i manciù che si trovavano all’opposta estremità del bastione, ne avevano seguito l’esempio, rifugiandosi entro il fortino.

– Signore! – gridò Rokoff. – Cadiamo?

– No, – rispose il capitano, che aveva ricuperato prontamente il suo sangue freddo. – I piani inclinati ci sostengono e pel momento non v’è alcun pericolo. È un’avaria che ripareremo.

Il fuso infatti si manteneva all’altezza primitiva, però aveva rallentato la sua corsa e si era inclinato verso l’ala ferita.

Le eliche orizzontali e quella di rimorchio funzionavano con velocità vertiginosa sostenendo l’apparecchio, ma le ali non agivano più, per non guastare interamente quella che era stata colpita dal proiettile.

– Resisteremo? – chiese Rokoff che s’aspettava di vedere, da un momento all’altro, lo “Sparviero” precipitare nelle acque profonde e vorticose del fiume.

– Sì, – rispose il capitano che cercava di dare alle eliche la maggior rapidità possibile.

– Non approdiamo? – chiese Fedoro. – La riva destra è vicina.

– Non ho alcun desiderio di farmi assassinare dai manciù! Se ci vedessero scendere qui verrebbero a scovarci. Bisogna che ci allontaniamo fino a trovare qualche isola o qualche sponda deserta.

– E se cadiamo prima di giungervi? – chiese Rokoff, che non si sentiva affatto tranquillo.

– Il vento che soffia dietro di noi ci porta e agisce a meraviglia sui piani inclinati. Guardate: non discendiamo nemmeno d’un centimetro.

– Maledetti cinesi!…

– Ci hanno scambiato per demoni.

– E l’ala?

– L’accomoderemo – rispose il capitano. – Non si tratta che di fare una solida saldatura e una rilegatura all’asta, e io, in previsione di possibili accidenti, ho portato con me tutto il necessario per le riparazioni. Il mio macchinista s’incaricherà di guarire la nostra povera ala. Si vede ancora il fortino?

– No, signore, è nascosto da una curva del fiume – rispose Fedoro.

– E io scorgo dinanzi a due o tre miglia di distanza, un’isola che fa per noi. Sono deserte le rive?

– Non vedo che boschi di pini e canneti.

– Speriamo di calare inosservati.

Lo “Sparviero”, sempre sorretto dai suoi piani inclinati e rimorchiato dall’elica prodiera, s’avanzava lentamente sull’Hoang-ho, spinto anche dal vento che era, fortunatamente, favorevolissimo.

Era però sempre un po’ sbandato dal lato dell’ala spezzata, tuttavia pareva evitato il pericolo d’un capitombolo improvviso.

L’isola ingrandiva a vista d’occhio. Era un bel pezzo di terra, di forma allungata, situato proprio in mezzo al fiume, in un punto dove questo aveva una larghezza di oltre due chilometri. Folti canneti circondavano l’isolotto e sulle rive crescevano numerose piante, per la maggior parte pini, querce e giuggioli.

Numerosi uccelli acquatici, gru, oche, schiavi d’acqua, alcedi e marangoni svolazzavano in mezzo ai canneti, formando, colle loro grida rauche, un baccano assordante.

– Bell’isolotto, – disse Rokoff che lo guardava attentamente.

– E non vi è alcun abitante – disse Fedoro.

– Ne prenderemo possesso senza contrasti e spiegheremo la bandiera dello “Sparviero”, se ne ha una.

– L’ha, ma non si espone, almeno per ora – disse il capitano che lo aveva udito. – Ehi, macchinista, rallenta e lasciamoci cadere dolcemente. I piani inclinati basteranno.

L’isola, che aveva un circuito d’oltre un miglio, si prestava magnificamente alla discesa dello “Sparviero” poiché, mentre le rive erano coperte di folti alberi, l’interno invece era solamente ingombro di sterpi e di piccoli cespugli.

Arrestato il movimento turbinoso delle tre eliche, l’aerotreno che aveva già raggiunto la punta estrema dell’isolotto, cominciò ad abbassarsi lentamente, sorretto dai piani inclinati, i quali agivano come due immensi aquiloni.

Passò sopra i primi alberi sfiorandone le cime, poi calò dolcemente proprio in mezzo a quel brano di terra, coricandosi fra i cespugli.

Le due ali, con un mezzo giro dell’albero motore, si erano distese orizzontalmente, in modo da rimanere perfettamente nascoste a qualunque navigante che scendesse o salisse il fiume.

– Che cosa ne dite di questa discesa? – chiese il capitano con voce assai lieta.

– Che non poteva riuscire migliore – rispose Rokoff. – Potete andare superbo della vostra macchina, signore. Eppure io avrei giurato che saremmo precipitati in mezzo al fiume.

– Sì, se il mio “Sparviero” non fosse stato munito dei suoi piani inclinati – disse il capitano. – Andiamo a vedere l’avaria prodotta da quella maledetta palla.

Sbarcarono balzando fra gli sterpi, sotto i quali si udivano pigolare numerosi uccelli e si vedevano fuggire bande di piccoli rosicchianti, ed esaminarono l’ala.

Il proiettile aveva spezzato nettamente l’asta principale, a circa metà altezza, asportandone un pezzo lungo trenta centimetri e forando la seta, sicché le nervature superiori, non più sorrette, si erano ripiegate.

Era una mutilazione grave, ma non irreparabile.

– Quanto tempo ti è necessario? – chiese il capitano al macchinista.

– Non meno di dodici ore – disse l’interrogato.

– Rispondi della saldatura?

– Sarete soddisfatto. Abbiamo una buona scorta d’aste d’alluminio e la fucina.

– Ti possiamo essere utili?

– Farò tutto da me.

– Portami dei fucili da caccia.

Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse:

– Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po’ di carne fresca spero che l’accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli.

– Una passeggiata la faccio volentieri – rispose Rokoff. – E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni.

– Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto.

– Non abbiamo percorso molte miglia, capitano.

– Una mezza dozzina.

– Siamo ancora troppo vicini.

– Li consiglierei a non venire qui – disse il capitano. – Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

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