Avanzi d’animali antidiluviani

Vice’fìeld continuava sempre compatto, senza spaccature, ma accennava però a diminuire di spessore, poiché il battello il quale si manteneva a cento metri di profondità, non incontrava più alcun ostacolo e vedeva crescere la zona d’acqua superiore, segno evidente che l’immersione del colosso a poco a poco diminuiva.

S’incontravano però ancora miriadi di frammenti di ghiaccio, che una corrente scendente al sud trascinava verso i climi più miti, facendoli scivolare sotto il banco. Anche qualche pesce appariva nei pressi degli sportelli e così pure qualche foca e la presenza di questi anfibi indicava come il ghiaccio fosse già meno grosso.

Certo lo sgelo doveva essere cominciato anche in quelle alte latitudini, e doveva aver cominciato a sciogliere la gigantesca calotta di ghiaccio che stringeva il polo come entro una morsa.

Già si sentivano delle sorde detonazioni echeggiare di tratto in tratto in mezzo ai ghiacci e quello era un indizio certo dello scioglimento dei colossi polari.

Per altre sei ore il Taimyr continuò a divorare le miglia senza rinnovare il tentativo per aprirsi il passo attraverso il banco, poi fu bruscamente arrestato da un comando che il timoniere aveva rapidamente trasmesso agli uomini della macchina.

Dalla gabbia di prora aveva scorto una massa enorme, di colore oscuro, disegnarsi all’estremità del fascio luminoso proiettato dalla lampada elettrica ed ignorando cosa fosse, aveva comandato precipitosamente macchina indietro.

L’ingegnere, Orloff ed i due cacciatori che stavano cenando, sentendo il battello ad arrestarsi s’alzarono frettolosamente e si recarono nella gabbia.

– Cosa succede? – chiese l’ingegnere, al marinaio che stava al timone.

– Signore, – rispose questi, – la via ci è chiusa.

– Dai ghiacci?

– No, da una massa oscura che pare sorga dal fondo del mare.

– Un’isola forse?…

– O la costa groenlandese? – disse Orloff.

– Non abbiamo mantenuta una direzione costante?

– Sì, signor Nikirka, – rispose il secondo, – ma la costa può spingersi verso l’ovest.

– Ora lo vedremo: governate verso l’ovest.

Il battello virò di bordo avvicinandosi ad una costa che saliva verticalmente dal fondo del mare e liscia come una parete e si mise a seguirla, tenendosi a quattrocento metri di distanza.

Il campo di ghiaccio si univa a quella terra senza che vi si scorgesse alcuna fessura, però non doveva avere un grande spessore, poiché lasciava trapelare una pallida luce dovuta ai raggi del sole che lo illuminavano esternamente.

Per mezz’ora il Taimyr seguì la costa, poi questa si ripiegò bruscamente verso l’est ed il mare tornò libero.

– Forse è un’isola – disse l’ingegnere ad Orloff.

– Lo credo anch’io – rispose questi.

Un’ora più tardi un’altra terra apparve dinanzi la prora del battello, mentre il fondo marino si mostrava a soli pochi metri forse dieci o dodici, cosparso di certe specie d’alghe di color nero e molto sottili.

Il Taimyr la girò con estrema prudenza per tema di arenarsi su qualche bassofondo, ma più oltre ne trovò una terza mentre l’acqua continuava a scemare e la crosta di ghiaccio diventava sempre più sottile.

Pareva che in quel luogo si estendesse un piccolo arcipelago e che il mare accennasse a terminare in mezzo ad una lunga serie di bassifondi.

Il Taimyr si trovava imbarazzato a manovrare in mezzo a quei banchi coperti d’alghe, i quali potevano da un istante all’altro arrestarlo e forse per sempre.

– Bisogna rompere il ghiaccio – disse l’ingegnere, che cominciava a diventare inquieto.­ Dove credete che ci troviamo, signor Orloff?

– A duecento miglia dal polo e fors’anche meno, se i miei calcoli sono esatti. Ho tenuto rigorosamente conto delle miglia che abbiamo percorse.

– Sfondiamo la volta di ghiaccio ed andiamo a vedere dove possiamo trovare un passaggio.

– Basterà una leggera speronata. Lo sgelo ha minato il banco, il quale ormai non ha più d’un metro e mezzo o due di spessore.

– Approfittiamo finché abbiamo acqua bastante per assalirlo. Furono aperte le valvole dei serbatoi di poppa per spostare l’asse del Taimyr, poi il banco fu assalito. Bastò una sola speronata per produrre una grande squarciatura che aveva una lunghezza di sessanta o settanta metri.

Il battello, appena galleggiò libero, riprese il suo equilibrio essendo state messe in opera le pompe per ricacciare l’acqua dai serbatoi di poppa ed il boccaporto fu aperto.

L’ingegnere, Orloff ed i due inseparabili cacciatori salirono, salutando il sole, che splendeva superbamente in un cielo purissimo, facendo scintillare i campi di ghiaccio. Dinanzi al battello, a meno di mezzo chilometro dalla prora, un isolotto di forse due miglia d’estensione, irto di rocce e colle sponde basse, emergeva dal campo e tre altri se ne scorgevano a poppa, ma ad una distanza maggiore ed egualmente piccoli.

Lo sgelo aveva già denudate le sponde del loro rivestimento invernale, però nelle loro vicinanze si vedevano dei grandi ice-bergs che dovevano essersi arenati sui bassifondi. Verso l’est, a quindici o venti miglia, si profilava una costa che doveva essere assai alta e più oltre si vedeva una montagna giganteggiare sul luminoso orizzonte, ma ancora tutta coperta di neve.

Animali non se ne vedevano, però in alto e sul banco di ghiaccio vi erano bande numerosissime di uccelli, di urie, di lumme, di pernici di neve, di strolaghe, di oche bernide, di gazze marine e di auk.

– Che isola è quella? – chiese l’ebridano, indicando la più vicina.

– L’isola Mac’Doil – rispose l’ingegnere, sorridendo.

– L’isola Mac-Doil!… – esclamò l’ebridano. – Scherzate signore?… No.

– E le altre? – chiese Sandoè.

– La prima è l’isola Taimyr, la seconda Orloff e la terza Sandoè. Vi garba?…

– Ma io non ho mai saputo che vi fossero qui delle isole…

– Che portano i vostri nomi, quello di Orloff e del nostro battello, ma essendo queste isole da nessuno mai vedute prima d’ora, le chiameremo così. Le abbiamo scoperte noi e possiamo imporre loro i nomi che vogliamo.

– Grazie, signore – dissero i due cacciatori.

– E quella costa che sorge all’est, la chiameremo Terra di Nikirka – disse Orloff.

– Vi piace signore?

– Sia – rispose l’ingegnere. – Faremo uno schizzo di queste isole e di quella costa e lo riporteremo sulla nostra carta polare unitamente ai nostri nomi. Vedete acqua libera in nessun luogo signor Orloff?

– No, però la crosta di ghiaccio mi pare che diventi così sottile più oltre, da poter navigare a fior d’acqua.

– Allora cercheremo di guadagnare quell’isola. Sono curioso di visitarla.

Essendo il ghiaccio ancora troppo grosso dove era stato spezzato, il Taimyr tornò ad immergersi e navigò lentamente verso l’isola segnalata, girando attorno ai banchi coperti di alghe nere ed altifondi melmosi.

Un quarto d’ora dopo tornava a sfondare la crosta di ghiaccio ed essendo quello grosso solamente pochi pollici, si mantenne a fior d’acqua, speronandola poderosamente per aprirsi il passo.

Il ghiaccio si spezzava dovunque crepitando e rimbalzando in forma di lastroni, senza opporre una seria resistenza continuando a diminuire il suo spessore, specialmente in vicinanza dell’isola.

Alle tre pomeridiane il battello si arrestava in una piccola baia che terminava in una palude coperta di crostoni di ghiaccio e di pochi hummoks arenati e già in parte disciolti.

I due comandanti ed i due cacciatori armatisi di fucili ed accompagnati dal molosso presero terra, fugando colla loro presenza stormi di oche e di urie.

Lo sgelo era già cominciato su quell’isolotto. Alcuni tratti di terreno erano ormai sgombri di neve ed i licheni erano spuntati assieme ai piccoli salici, ai muschi ed alle sassifraghe. Nelle bassure si vedevano già dei piccoli laghetti sulle cui acque nuotavano parecchi uccelli marini e dei torrentelli i quali seguendo i pendii della costa, scorrevano verso il mare, mentre dalle rupi semisgelate scendevano rumoreggiando e scrosciando delle cascatelle. L’ingegnere ed i suoi compagni stavano per mettersi in cammino, essendo certi di poter scovare qualche selvaggina o sulle coste o nelle parti centrali dell’isolotto, che erano irte di rocce d’origine vulcanica, quando udirono Kamo latrare con furore.

– Che abbia trovato qualche foca o qualche tricheco? – chiese Sandoé.

– è probabile – rispose MacDoil.

– Avanziamoci in silenzio – disse l’ingegnere. – Un po’ di carne fresca la desidero. Armarono i fucili e girarono alcune rupi dietro le quali si era cacciato il molosso;

giunti in un terreno semi-inondato invece d’una foca o d’una morsa, videro semiaffondato in uno strato melmoso uno scheletro enorme, mostruoso, che di primo aspetto potevasi scambiare per una nave priva di fasciame, coi soli corbetti.

– Lampi! – esclamò Sandoé. – Cos’è?…

– Lo scheletro d’una balena, forse?… – chiese MacDoil.

– Una balena a terra!… – esclamò Orloff. – Che io sappia, i cetacei non hanno ancora imparato a camminare.

S’appressarono a quello scheletro guardandolo curiosamente. Era di dimensioni assolutamente straordinarie, poiché misurava almeno dodici metri in lunghezza e doveva avere una circonferenza di almeno dieci.

Il capo, pure di dimensioni enormi, era armato di due lunghissimi denti ricurvi,ì tre volte più grossi di quegli degli elefanti e molto più arcuati e che parevano d’avorio, mentre le ossa delle zampe, grosse come la coscia d’un uomo, misuravano almeno cinque metri.

– Lampi!… – esclamò Mac-Doil. – Se non fossi certo di essere lontano parecchie migliaia di miglia dall’Africa, direi che questo è lo scheletro d’un elefante colossale.

– Se non è lo scheletro d’un vero elefante, appartiene alla medesima specie, poiché questo è un mammouth, – rispose l’ingegnere.

– Che specie di bestia è?… – chiese Sandoé.

– Un animale, che somigliava agli elefanti, ma la cui mole raggiungeva il triplo di quelli che vivono ora fra le foreste dell’Asia e dell’Africa.

– Non vi sorprende signore, di trovare presso al polo un simile animale?…

– No, poiché anche nelle tundra, ossia negli immensi ghiacciai e nelle paludi della Siberia, si trovarono numerose ossa di questi animali. Anzi so che a Pietroburgo si conserva la testa d’un mammouth in ottimo stato.

– Erano animali polari?…

– Sembra invece che non lo fossero.

– come si trovano qui in mezzo ai ghiacci, mentre gli elefanti preferiscono i paesi caldi?

– Probabilmente perché nell’epoca in cui i mammouth vivevano, la terra non si era ancora raffreddata alle estremità del suo asse – rispose l’ingegnere. – Orsù, basta e mettiamoci in caccia. Ho scorto laggiù qualche cosa di biancastro che si muove e può essere un orso. Abbandonarono il gigantesco carcame e si misero a seguire le sponde dell’isola, essendo più certi di abbattere della selvaggina non allontanandosi le foche, le morse e gli orsi bianchi dal mare.

L’ingegnere non si era ingannato dicendo che scorgeva qualche cosa di bianco agitarsi presso i ghiacci della sponda. Pareva un piccolo anfibio, poiché si vedeva immergersi presso il margine del grande banco il quale presentava in quel luogo parecchie spaccature.

– Si direbbe una piccola foca – disse Mac-Doil, che aveva armato il fucile.

– So che i piccini d’alcune specie sono bianchi come la neve.

– Allora ci sarà anche la madre – disse l’ingegnere.

Tenendosi nascosti dietro le rocce ed agli hummoks, in pochi minuti giunsero a cento passi da quell’animale e videro che si trattava precisamente d’una piccola foca dal mantello perfettamente bianco, lunga appena sessanta centimetri.

Sandoè spianò prontamente l’arma e con una palla ben aggiustata la stese a terra senza vita. Stava per lanciarsi innanzi, quando si vide emergere dalle acque la madre e salire faticosamente la spiaggia, lanciando dei latrati rauchi e profondi che tradivano una viva irritazione.

– Corna di narvalo! – esclamò il cacciatore, stupito. – Che specie di foca è quella?…

La sorpresa di Sandoè era legittima, poiché quell’anfibio era diverso dalle altre foche, se non di corpo, certo la sua testa era molto strana.

Misurava due metri, lunghezza straordinaria per una foca, aveva il corpo grosso, la coda assai piatta, i piedi armati di unghie lunghe e ricurve ed il mantello setoloso, leggermente sollevato, di tinta bruna rossiccia a macchie ovali oscure ed il ventre grigiastro.

La sua testa poi era grossa, col muso pieno, ed aveva sul cranio una specie di berretto o di cresta rigonfia, lunga un venticinque centimetri ed alta altrettanto, che dava all’animale un aspetto stranissimo e minaccioso.

– Un neitersoak – disse Orloff. – State in guardia: questi anfibi sono coraggiosi e non indietreggiano dinanzi ai cacciatori.

– Una foca crestuta o dal berretto? – chiese l’ingegnere.

– Sì, signore.

– Sia anche indiavolata, io la ucciderò – disse MacDoil.

La foca, scorgendo i cacciatori e vedendo il suo piccino morto, immerso in una pozza di sangue, si era gettata innanzi, facendo sforzi furiosi per trascinarsi.

Kamo si era subito precipitato contro l’anfibio, ma aveva tosto ricevuto un colpo di testa così violento, da mandarlo a gambe levate.

Mac-Doil furioso di vedere il suo coraggioso cane tenuto in iscacco da una semplice foca mentre si cimentava coi formidabili orsi bianchi, si slanciò innanzi e fece fuoco a quaranta passi.

Il cacciatore non aveva mancato al colpo. La povera madre, colpita nel cranio, si era violentemente rizzata sulle pinne posteriori, poi era caduta presso il piccino dibattendosi fra le ultime strette dell’agonia, mentre la sua cresta si sgonfiava rapidamente ricadendole sul naso ma conservando una forma bizzarra che ricordava la carena d’una nave.

– Signore – disse Mac-Doil, che girava attorno alla preda. – Non ho mai veduto di queste foche.

– Sono piuttosto rare nelle isole americane del Nord e sono scarse anche sulle coste della Groenlandia e perciò poco conosciute – rispose l’ingegnere. – Nondimeno se ne uccidono ogni anno mille ed anche duemila.

– Hanno costumi diversi dalle altre?

– Non lo credo.

– No – disse Orloff. – Sono però più battagliere.

– A cosa serve quella cresta?

– A nulla . è una specie di membrana che si gonfia solamente quando l’anfibio è irritato.

– Potete tornare a bordo colla selvaggina – disse l’ingegnere ai cacciatori

– Venite signor Orloff, faremo il giro dell’isola; una passeggiata ci farà bene

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