Una caccia ai trichechi

Uno spettacolo strano attendeva i due cacciatori.

Una banda composta di un centinaio e più di animalacci di dimensioni veramente straordinarie, aveva circondato il battello, che si era arrestato, assumendo un contegno tutt’altro che rassicurante e riempiendo l’aria di rauchi muggiti, che talvolta sembravano veri ruggiti.

Era una turba di quei grossi anfibi che i cacciatori artici chiamano comunemente trichechi o cavalli marini e gli esquimesi awak. Quegli abitanti dei mari polari misurano generalmente quattro metri in lunghezza, ve n’erano però alcuni che toccavano anche i cinque, con una circonferenza di tre a quattro metri.

Questi mostri, che nella forma del corpo s’avvicinano alle foche, hanno la testa piccola, il muso corto ed ottuso, le labbra munite di grosse setole irte come quelle dei gatti, la pelle rugosa, sparsa di protuberanze prodotte per lo più dalle ferite che riportano ne’ combattimenti sanguinosissimi che hanno luogo fra loro stessi, e per lo più di tinta bruno grigia più o meno chiara. Usualmente vivono in branchi molto numerosi, tenendosi in vicinanza delle coste, sulle quali si ritirano per dormire o per riscaldarsi ai raggi del sole, ma non per questo si lasciano sorprendere, poiché dispongono le loro sentinelle incaricate di avvertirli al primo indizio di qualche pericolo.

La banda che aveva circondato il Taimyr doveva essere giunta dalle coste della Terra Vittoria, le quali si scorgevano vagamente dietro alle montagne di ghiaccio che la bloccavano, o forse si trovava in quel tratto di mare occupata a cercare i molluschi, le alghe ed i pesci che formano il principale nutrimento di quei grossi anfibi.

Essendo molto curiosi, come hanno constatato tutti i naviganti artici, erano subito accorsi per vedere con quale specie di cetaceo avevano da fare, sperando certo che fosse qualche carcame di balena da intaccare.

Vedendo comparire i due cacciatori, si allontanarono prudentemente di alcuni metri, non cessando però di guardarli coi loro piccoli e brillanti occhi e continuando a muggire. Alcuni vecchi maschi tuttavia, cercarono di mordere le lastre del battello coi loro enormi canini

che misurano una lunghezza di ottanta o novanta centimetri e che di solito pesano dai quattro ai cinque chilogrammi.
– Che animalacci! – esclamò Mac-Doil. – Ve ne sono alcuni che devono pesare una tonnellata.

– Ed anche di più – disse Orloff, che era pure comparso sulla piattaforma.

– è buona la loro carne?… Mi hanno detto che gli esquimesi la mangiano.

– È vero, ma è tigliosa ed ha un sapore che per noi non va, essendo impregnata d’olio che sa di pesce. La lingua però è eccellente e l’ho mangiata parecchie volte con molto appetito.

– Pure mi hanno detto che i trichechi si cacciano accanitamente.

– Sì, però rendono molto meno degli orsi bianchi. Si calcola che da un tricheco in media si ricavino, fra il grasso, i denti che sono d’avorio bellissimo e la pelle, circa diciotto dollari (90 lire).

– Non varrebbe la pena di ucciderli.

– Invece i cacciatori di trichechi non fanno cattivi affari, uccidendone un gran numero e senza correre alcun pericolo, quantunque questi animali siano eccessivamente vendicativi e si difendano ferocemente quando si trovano in acqua. Vi basti sapere che ogni anno si mandano sui mercati europei dai venticinque ai trentamila chilogrammi d’avorio.

– E quanto si pagano i denti?

– Otto lire al chilogrammo i più grossi e sei i più piccoli.

– È ancora un bel guadagno, senza contare poi le pelli e l’olio. Devono però fare delle stragi immense quei cacciatori.

– Tali che i trichechi continuano a scemare e che finiranno, in un tempo non molto lontano, collo scomparire.

Mentre chiacchieravano, due marinai erano saliti sulla piattaforma armati di ramponi, alle cui estremità erano state legate due solide funi, e si erano collocati presso la cancellata di babordo, aspettando il momento favorevole per fare un buon colpo.

La loro attesa non fu lunga. Le morse, che parevano spronate da una crescente curiosità, erano tornate a circondare il battello cercando di issarsi sulle roton-dità di prora e di poppa. I due ramponi, scagliati da due braccia vigorose, colpirono un grosso maschio armato di lunghi e grossi denti.

Sentendosi ferito, subito s’immerse emettendo un lungo muggito, ma essendo trattenuto dalle funi che i marinai non avevano abbandonate, ricomparve a galla mentre l’acqua si tingeva di rosso.

I due cacciatori si erano precipitati in soccorso dei marinai, temendo che la preda fuggisse, ma abbandonarono tosto le funi per afferrare dei ramponi che l’ingegnere aveva allora portati sulla piattaforma.

Tutti i trichechi, vedendo il loro compagno ferito, si erano scagliati contro il battello muggendo orribilmente, risoluti a vendicare il moribondo.

Maschi e femmine si affollavano confusamente attorno alla cancellata, battendo furiosamente l’acqua colle larghe pinne, agitando minacciosamente le zanne e facendo sforzi disperati per avventarsi contro gli uomini, per nulla spaventati dai latrati poderosi di Kamo.

Quell’orda faceva paura a vederla così irritata, e non avrebbe di certo risparmiati i cacciatori ed i marinai, se questi avessero montata una scialuppa invece di quel grande battello corazzato.

Alcuni maschi erano perfino riusciti a salire sulle parti superiori del Taimyr e si trascinavano sulle lastre metalliche, percuotendole rabbiosamente coi lunghi e robusti canini, credendo di sfondarle, mentre altri erano riusciti a sollevarsi fino alla cancellata che difendeva la piattaforma.

Mac-Doil e Sandoé avevano impugnati i ramponi e si disponevano a fare un macello di quei poveri animali, ma l’ingegnere li fermò, dicendo:

– È inutile ucciderli per poi perderli. Hanno già troppi nemici per concorrere anche noi alla loro distruzione e senza gran profitto per la nostra dispensa. Limitatevi a respingere quelli che potrebbero varcare la cancellata.

Intanto i due marinai, aiutati da Orloff, cercavano di rimorchiare il vecchio maschio sotto l’orlo della piattaforma, ma il grosso animale si dibatteva con sovrumana energia, quantunque già avesse perduto tanto sangue che l’acqua era tutta rossa intorno a lui.

Non doveva però durare a lungo, poiché i due ramponi avevano attraversato il grasso oleoso piantandosi profondamente nelle carni.

Quando l’ingegnere lo vide agli estremi, comandò di riprendere la marcia per sbarazzare il battello da quella moltitudine di avversari, che impedivano

di sezionare la preda, non potendo issare sulla piattaforma un peso così enorme.

I trichechi, vedendo il battello fuggire a tutta velocità, s’affrettarono ad abbandonarlo, tentando poi di seguirlo muggendo orribilmente e battendo l’acqua con estremo furore, sforzi inutili non potendo gareggiare con un così rapido camminatore.

Quando ogni pericolo cessò, i marinai ed i cacciatori varcarono la cancellata e sezionarono la preda, la quale pesava oltre un migliaio di chilogrammi.

La lingua fu messa da parte da Mac-Doil, il quale voleva metterla in sale, il grasso fu raccolto con cura e destinato a lubrificare le diverse parti della macchina e la pelle fu riservata a Kamo non potendo altrimenti utilizzarla pel momento.

Mentre i marinai ed i cacciatori s’affaccendavano attorno al tricheco, il Taimyr continuava la sua rapida corsa verso il sud-est, guidato da Orloff che aveva ripreso il suo posto nella gabbia di prora.

I ghiacci pur essendo ancora numerosi, lasciavano qua e là dei canali abbastanza vasti per permettere al battello di passare, e tosto il secondo ne approfittava per cacciarlo in mezzo a quei passi con un’audacia ed una sicurezza straordinaria.

Durante quella giornata però, il Taimyr dovette inabissarsi altre due volte per passare sotto due vastissimi campi di ghiaccio che scendevano verso il sud, come se si fossero staccati dalle spiagge dell’isola del Principe di Galles.

Anche alla sera il battello continuò la sua rotta, senza rallentare la sua velocità.

Nelle tre ore che il sole rimase sotto l’orizzonte, la potente lampada elettrica della gabbia di poppa sfolgorò i ghiacci coi suoi fasci luminosi, facendoli scintillare come enormi

diamanti.

Pareva che l’ingegnere avesse molta fretta di giungere nel luogo prefissosi e non voleva arrestarsi nemmeno alla notte, sebbene molti pericoli potessero minacciare il battello. La mattina del 27 maggio il Taimyr avvistava le coste orientali della Terra Vittoria e

prendeva la corsa verso quelle del Re Guglielmo, isola di estensione considerevole, che si trova rinserrata fra la lunga penisola di Boothia all’est, la penisola Adelaide al sud e lo stretto di Vittoria all’ovest.

Qualche cosa doveva tuttavia accadere in breve e dare ai due cacciatori qualche schiarimento su quella rotta inesplicabile verso le coste settentrionali del continente americano, poiché l’ingegnere ed Orloff parevano in preda ad una certa agitazione. Salivano di frequente sulla piattaforma per appuntare i cannocchiali verso l’est, esaminavano con viva attenzione le carte geografiche e parlavano a lungo insieme.

Verso il mezzodì furono veduti risalire sulla piattaforma e fare il punto con maggior cura del solito, mentre il Taimyr procedeva con una velocità di diciotto nodi ed otto decimi all’ora, rapidità mai ottenuta in avanti.

– Sta per accadere qualche avvenimento – disse Mac-Doil a Sandoè, che aveva seguite attentamente le diverse manovre dei due comandanti.

– Che il viaggio stia per terminare?…

– O per cominciare ora?… Non si regalano diecimila dollari per fare una semplice passeggiata fra i ghiacci.

– Che cosa vengono a cercare qui?

– Lo sapremo in breve, spero.

– Vedi nulla di straordinario tu?

– Non vedo che una costa coperta di ghiacci.

– Che cerchino degli uomini forse?…

– In questi luoghi? Non potrebbero trovare che degli orsi bianchi. Taci!…

Il secondo di bordo, che aveva finito allora di fare il punto, aveva detto all’ingegnere:

– Ci siamo.

– Lo credete?…

– Siamo a 69°05′ di latitudine e 98°23′ di longitudine meridiano di Greenwich.

– La corrente li ha trasportati per venti mesi.

– Ma in così lungo tempo non hanno percorso che venti miglia, così stava scritto sui due documenti trovati nei due cairn eretti sulla costa del Re Guglielmo, dal luogotenente Gore e dal signor Veaux.

– Allora possiamo trovarli investigando il fondo marino. Avete fatto gettare lo scandaglio?…

– Da mezz’ora.

– Ha dato?…

– Mille ed ottanta metri.

– Non credevo che questo canale avesse tale profondità.

– Voi sapete che il Taimyr può scendere ben più giù.

– Lo abbiamo provato e sappiamo quale sia la sua resistenza, signor Orloff. Però farà poco chiaro laggiù.

– La luce elettrica ci aiuterà meglio del sole, signor Nikirka.

– Quante ore saranno poi necessarie per giungere alla foce del Gran Pesce?…

– In trenta ore vi possiamo essere. Volete esplorare quel delta?…

– Desidererei incontrare degli esquimesi.

– Ne troveremo di certo, essendo per loro cominciata la stagione della pesca.

– Conto di trovare qualche ricordo e spero di poter fare piena luce sulla miseranda fine degli ultimi compagni di quello sventurato e forse…

– Cosa sperate?…

– Chi può affermare che siano tutti morti?…

– Sono già trascorsi diciannove anni.

– Qualcuno può essere stato tenuto come prigioniero o disperando di poter da solo attraversare gli immensi tenitori che lo separano dai coloni europei, può essersi fermato definitivamente, facendosi adottare da qualche tribù.

– Si può ammetterlo. Devo dare l’ordine d’immergerci?…

– Sì, signor Orloff. Sono impaziente di perlustrare il fondo del mare.

– Scendete – disse il secondo ai due cacciatori. – Andiamo a visitare il fondo marino.

– E lo potremo vedere? – chiese MacDoil.

– Nessuno v’impedisce di guardarlo a vostro agio.

– Andiamo, Sandoé. Credo che un simile spettacolo non possa da altri vedersi così facilmente.

Scesero nel salotto e si collocarono presso gli sportelli che erano già stati aperti, mentre i marinai s’affrettavano a chiudere il boccaporto.

– Hai udito, Mac-Doil? – chiese Sandoé.

– Sì – rispose l’ebridano.

– Sai di che cosa si tratta?…

– Non ancora, ma pare che si vada a cercare qualche cosa in fondo al mare.

– Ho udito parlare di morti…

– Ed io anche di vivi, scomparsi da diciannove anni. Che razza d’istoria sia questa, non lo so davvero, abbiamo però degli occhi ancora buoni e vedremo di che cosa si tratta.

In quel momento le eliche laterali si misero in movimento, imprimendo al battello un lieve dondolìo e l’ingegnere comparve nel salotto seguito da Orloff, mettendosi vicini ai due cacciatori.

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