Sotto i grandi banchi di ghiaccio

Durante il 9 ed il 10 giugno il Taimyr risalì costantemente verso il nord senza allontanarsi dalla costa groenlandese, tenendosi i ghiacci ordinariamente lontani dalle terre, ma ogni qual tratto era però costretto ad interrompere la sua marcia per evitare dei grandi banchi che accennavano ad accumularsi nella baia di Melville, e soprattutto intorno alle isole che fronteggiano quella parte della costa, chiamata oggi penisola di Hayes. L’11 però fu bruscamente fermato da una barriera di ghiaccio che si estendeva dinanzi ad una punta aguzza della costa groenlandese, dirigendosi verso l’ovest dove pareva che si delineasse all’orizzonte un’altra terra.

Era un ostacolo imponente ed impenetrabile, che avrebbe arrestata qualsiasi nave e che avrebbe reso vano qualunque tentativo di demolizione da parte degli uomini. Sembrava una costa, tanto era massiccia, tutta irta di ice-bergs, forse secolari, di punte, di guglie, di arcate ed aveva un tale spessore che non doveva essere inferiore ai cinquanta metri, compresa la parte immersa.

Sopra quell’enorme ostacolo, l’atmosfera scintillava d’una bianchezza strana e perfino il cielo, che era coperto di nubi gravide di neve, appariva madreperlaceo a grandi striature candidissime. Era l’ice-bìink, quel riflesso abbagliante che tramandano i grandi banchi di ghiacci e che talvolta è così intenso, da potersi distinguere anche fra i più fitti nebbioni.

– Siamo arrestati – disse Mac-Doil a Sandoè’.

– Allora ritorneremo. L’ebridano crollò il capo.

– Non lo credi?

– No, Sandoè.

– Ma dove vuoi che il battello passi.

– Sotto, per centomila foche.

– E se questo banco fosse così immenso da estendersi fino al polo come farebbe a provvedersi d’aria?

– Non lo so, ma ti dico che il nostro viaggio non è finito.

– Dove vuoi che ci conduca l’ingegnere?

– Dove?… Eh diavolo!… Dovremmo averlo ormai compreso. Mio caro Sandoè’, noi andiamo al polo e ci scommetterei la mia carabina contro un coltello da due penny. Fulmini!…

– Puoi aggiungere anche i tuoi corni di narvalo, i miei lampi e le mie foche, ma io ti dico che andiamo al polo.

L’isolano fece una smorfia e parve che s’immergesse in profondi pensieri.

– Ebbene? – chiese Mac-Doil, vedendo che non si decideva ad aprire le labbra.

– Pensi forse alla graziosa figlia del ricco pescatore?… Io, per mio conto, ho mandato un addio a papà Craig e mi rifaccio col gin del cuoco.

– Penso, amico Mac-Doil, che dal polo non si tornerà forse più mai e che vi lasceremo le ossa, la pelle ed anche i diecimila dollari.

– Potevi aggiungere anche le nostre armi e le nostre scarpe. Io, vedi, in compagnia di questi diavoli d’uomini, ho la convinzione di tornarmene indietro con le mie ossa, la mia pelle, i miei dollari ed anche il mio fucile.

– Ma cosa vuol andare a fare l’ingegnere al polo?

– Diavolo, vorrà vedere cosa si trova in quel luogo.

– Dimmi, Mac-Doil, che vi siano dei tesori al polo?… C’è tanta ostinazione nel cercare di raggiungerlo…

– Sì, un tesoro accumulato dagli orsi bianchi – rispose l’ebridano, ridendo.

– Vedrai che grossi diamanti… di ghiaccio!… Ti faranno venire la pelle d’oca anche sulla punta del naso o te lo faranno perdere se non lo coprirai per bene.

Toh!… Ecco il signor Nikirka e l’inseparabile suo compagno.

L’ingegnere ed Orloff salivano allora per osservare quella gigantesca parete di ghiaccio. La esaminarono accuratamente coi cannocchiali, cercando se vi era qualche passaggio, poi il primo disse:

– è giunto il momento di tentare la grande traversata.

– Credete che non ritroveremo più acqua libera? – chiese Orloff.

– Lo spero, ma chissà a quale distanza.

– In due giorni possiamo percorrere un tratto immenso.

– Sì, mantenendo una velocità di diciotto nodi all’ora – disse l’ingegnere.

– In quattrocentotrentadue miglia si potrà trovare qualche spaccatura, qualche crepaccio, qualche buco ove poter rinnovare la nostra provvista d’aria.

– Potremo resistere più di ventiquattro ore colle nostre riserve di ossigeno, signor

Orloff. Calcolo che possiamo percorrere seicento miglia senza aver bisogno di risalire a galla.

– Ma saremo ancora lontani?

– Duecento sole miglia, una inezia pel nostro Taimyr che procede così rapido.

– E se non trovassimo una squarciatura?… Se questo banco si prolungasse fino al polo?…

– Abbiamo le torpedini e cercheremo di farlo saltare in qualche punto debole.

– Signore, – chiese Mac-Doil, facendosi innanzi, – si va al polo, adunque?…

– Sì – rispose l’ingegnere. – Vi dispiace?

– No, signore. Sono curioso anch’io di vedere cosa si troverà laggiù.

– Ma potremo poi ritornare? – chiese Sandoè.

– E perché no?… Se troveremo la via per andarvi, la ritroveremo anche pel ritorno e forse rivedrete le vostre isole più presto che non lo crediate. Conto di

giungere nei mari d’Europa fra qualche mese, se tutto andrà bene.

– Te lo avevo detto io – disse Mac-Doil. – Ora vieni ed andiamo a fare un brindisi al polo col gin del cuoco.

L’ingegnere ed Orloff avevano pure abbandonata la piattaforma ed eseguivano una visita minuziosa del battello, prima di avventurarsi sotto quell’ice-field che forse non aveva confine

Esaminarono le lastre per assicurarsi della loro perfetta solidità, lo sperone, le tramezzate che dovevano servire di paratie stagne nel caso che si manifestasse qualche falla, la macchina, le pompe, le eliche e soprattutto i tubi di lancio delle torpedini, i cilindri d’ossigeno e le due manichelle fermate ai lati della piattaforma che dovevano rifornire d’aria il battello, se avessero potuto trovare un crepaccio o un buco qualunque aperto negli immensi campi.

Rinnovata la provvista d’acqua facendo fondere una quantità considerevole di neve, raccolta su di uno stream che andava alla deriva lungo le coste della Groenlandia, il boccaporto fu chiuso ed il battello s’immerse a trecento metri per passare sotto i grandi banchi.

– A quanto pare, stiamo per giuocare una partita pericolosa – disse Sandoè a Mac-Doil, che si era collocato presso lo sportello di babordo.

– Si sta giuocando la sorte di tutti – rispose l’ebridano.

– Che il Taimyr vada a sfasciarsi?

– Non è questo il pericolo che ci minaccia.

– E quale?

– L’asfissia, mio caro Sandoè. Pare che il battello non possa contenere che l’aria bastante per sole ventiquattro ore o poche di più ricorrendo ai serbatoi di ossigeno.

– Sicché se questo banco fosse immenso, interminabile?…

– Morremo tutti.

– Questo pericolo mi fa venire la pelle d’oca peggio del freddo polare, MacDoil!

– Ma volevi ricevere diecimila…

– Eh!… Lo so che ci pagano diecimila dollari, ma la pelle mi spiacerebbe lasciarla qui, poiché perderei anche la paga.

– Cercheremo di respirare solamente a metà, considerato che l’aria sta per diventare più preziosa dei dollari, e salveremo la pelle.

– E l’aria la consumeranno gli altri intanto. Respiriamo a pieni polmoni anzi,finché ve n’è in abbondanza. Ohe!… Che oscuro che fa qui! La luce, che poco prima era ancora limpida, s’era improvvisamente ottenebrata, essendosi il battello spinto sotto il grande banco.

Quel vecchio colosso doveva avere una crosta di neve enorme per intercettare completamente il riflesso dei raggi solari, però l’oscurità non era assoluta. Il ghiaccio rifletteva attraverso le onde un debole ice-blink, ma non sufficiente ad illuminare l’interno del battello.

La lampada elettrica fu subito accesa e proiettò sotto il campo un fascio di luce così limpida, da permettere di distinguere perfettamente il menomo ostacolo che si fosse trovato dinanzi la prora del Taimyr.

La celerità del battello subito si accrebbe fino a diciannove nodi ed alcuni decimi, la massima che poteva dare la macchina.

Sandoè, Mac-Doil e l’ingegnere si erano collocati agli sportelli, mentre Orloff aveva preso posto nella gabbia del timone, volendo dirigere egli stesso il battello. Nessun pesce si vedeva nuotare sotto l’ice’field, segno evidente che quelle acque dovevano essere così fredde da non permettere ai suoi abitanti un lungo soggiorno.

Mancavano perfino le foche e ciò significava che il ghiaccio dovevaavere uno spessore così enorme, da impedire a quegli anfibi di mantenere aperti i loro buchi o di issarsi fino alla superficie.

Il fondo di quell’immenso banco, che il battello quasi radeva, presentava un orribile caos, peggiore forse di quello che doveva trovarsi alla superficie. Ora erano punte aguzze che s’immergevano a grande profondità e che il Taimyr evitava, essendo perfettamente visibili fra la luce che sfolgorava la lampada elettrica; ora erano avvallamenti strani, o piramidi rovesciate, o squarciature immense dalle quali scendevano sprazzi di luce che si diffondevano sotto le acque, o rigonfiamenti giganteschi ma semisgretolati che la corrente, promossa dal rapido battello, bastava a far crollare o una selva di punte sottili e lunghissime che lo sperone decapitava con certi stridori, che si udivano perfino nel salotto dove stavano i due cacciatori e l’ingegnere.

Tutte quelle punte e quelle piramidi, sotto la luce della lampada elettrica, avevano dei bagliori splendidi, incomparabili. Ora mandavano baleni azzurrognoli, ora porporini o verdi pallidi o verdi smeraldo, o scintillavano come se fossero tappezzati di diamanti. Era una fantasmagoria di colori e di luci che faceva male agli occhi dei due cacciatori e dell’ingegnere, ma pur sempre splendida. Il Taimyr intanto precipitava la sua marcia toccando quasi i diciannove nodi e mezzo all’ora. Le eliche di poppa funzionavano rabbiosamente, mentre i colpi degli stantuffi risuonavano con maggior forza, rimbombando in tutte le cabine ed i salotti. Passava sotto il grande banco come una meteora abbagliante, sfondando coll’acuto sperone gli ostacoli che incontrava, facendo capitombolare fra quelle acque luminose punte di piramidi, massi di ghiaccio ed una pioggia di quei sottili e lunghissimi aghi. Talora, quando qualche ostacolo che pareva troppo resistente, appariva all’estremità del gran fascio di luce, deviava bruscamente, ma poi riprendeva tosto la rotta primitiva senza scartare d’una sola linea.

Il banco era diventato compatto e le fenditure che prima si erano scorte erano ormai sparite, anzi pareva che il suo spessore andasse aumentando, poiché più nessuna luce trapelava sotto di esso. Le acque però conservavano sempre un certo chiarore dovuto al riflesso di quelle masse di ghiaccio. Verso le dieci del mattino, dopo due ore di marcia rapidissima, il Taimyr incontrava ammassi di ghiacciuoli che si erano accumulati sotto il banco. Ve n’erano dei milioni, i quali volteggiavano in tutte le direzioni sotto la corrente prodotta dalle eliche e si sentivano stridere e scrosciare sulle lastre metalliche.

Splendido era l’effetto che produceva la luce elettrica sopra quei ghiacciuoli.

Pareva che il battello navigasse fra miriadi di diamanti galleggianti, che sprizzavano bagliori di tutte le tinte.

Alle undici, Orloff, che aveva terminato il suo quarto nella gabbia del timone, raggiunse l’ingegnere ed i due cacciatori i quali non avevano abbandonato le grandi lenti.

– Continua sempre? – gli chiese Nikirka.

– Sì – rispose il secondo. – Temo che questo non sia un banco ma una parte della colossale calotta di ghiaccio che circonda il polo.

– Lo temo anch’io – rispose l’ingegnere. – Avete scorto nessuna squarciatura?

– No, signore. È una massa compatta che sfiderà il nostro sperone e fors’anche le nostre torpedini.

– Credete che sulla nostra destra si prolunghi ancora la costa groenlandese?

– Sono certo che continua.

– Ed alla nostra sinistra?…

– Forse si prolunga la terra che noi abbiamo veduta ieri.

– Che il ghiaccio abbia minor spessore sotto le coste?

– Temo il contrario, signor Nikirka.

-Aspettiamo; chissà!…

Le ore trascorrevano, ma il banco non cessava, anzi la sua massa diventava più enorme costringendo il Taimyr ad inabissarsi sempre più, onde evitare le punte gigantesche che si estendevano sotto il colosso polare.

L’acqua, di miglio in miglio che il battello guadagnava verso il nord, pareva che diventasse più densa come se fosse prossima a gelare e s’ingombrava sempre più di ghiacci, i quali forse sfilavano sotto l’ice’field cercando un’uscita per tornare a galla.

Anche il freddo aumentava. I termometri delle cabine e del salotto indicavano già -17° centigradi, quantunque il battello si tenesse ad una profondità di centocinquanta a duecentocinquanta metri e qualche volta perfino a trecento.

Una viva inquietudine agitava l’ingegnere ed anche Orloff. Abbandonavano di frequente i vetri del salotto per consultare gli istrumenti; si recavano ogni quarto d’ora nella gabbia del timoniere per meglio osservare il fondo del campo di ghiaccio e s’interrogavano con una certa ansietà.

Perfino i cani parevano irrequieti, poiché di tratto in tratto risuonavano i latrati di Kamo ai quali facevano eco i guaiti lamentosi dei cani esquimesi.

Alle nove di sera Mac-Doil, che guardava sovente i termometri, avvertì una sensibile diminuzione di freddo.

– Abbiamo soli -15° centigradi – disse ad Orloff. – Che ciò indichi la fine del banco?…

– Ciò indicherà forse la fine della zona freddissima, ma credo che il banco non termini così presto – rispose il secondo.

– La fine della zona freddissima!… Ma se non siamo ancora al polo!…

– E cosa intendete di dire?…

– Che quando saremo giunti al polo, avremo ben più freddo di ora.

– V’ingannate poiché è una falsa credenza, che il polo debba essere il punto più freddo del globo, come è falsa di certo quella che esista al polo un mare completamente libero.

– L’avevo udito raccontare da tante persone istruite.

– Vi credo, ma dopo le ultime osservazioni fatte da navigatori polari degni di fede, pare che i luoghi più freddi non si trovino né al polo, né nelle sue vicinanze.

«I più grandi freddi finora notati, non sono stati trovati né nella baia di Baffin, né sulle coste della Groenlandia così prossima al polo, ma bensì sulle coste settentrionali della Siberia, a 79° di latitudine Nord e 120° di longitudine Est, dove i termometri segnano ogni anno 60° e perfino 67° sotto lo zero ed a 78° di latitudine Nord e 97° di longitudine Est, cioè al nord delle isole Parry, dove si sono notati 52°, 54° ed anche 55° sotto zero.»

– Allora si potrebbe sperare di trovare un mare libero attorno al polo.

– No, Mac-Doil. Attorno al polo si estende una calotta di ghiaccio massiccio che forse non si scioglie nemmeno nell’estate, e noi ne abbiamo ora la prova in questo banco che attraversiamo. Vi potranno essere forse dei canali, degli spazi liberi, non essendo mia convinzione, come non lo è pure di numerosi naviganti artici, che vi sia un clima rigido al pari di quello delle due regioni che vi ho citate, ma un vero mare libero no. Guardate: siamo già alla metà di giugno e non si vede qui ancora alcuna traccia di scioglimento dei ghiacci.

– Ma questo banco, che si spinga fino al polo?…

– Dio non lo voglia.

– Non avremo bastante aria per giungere fino al polo?

– Forse… vedremo – rispose Orloff, evasivamente.

Poi lasciandolo bruscamente si diresse nella gabbia del timone, dove già si trovava l’ingegnere.

Il Taimyr continuava a divorare le miglia, pure la volta impenetrabile dell’ice-field non accennava a cessare. Parecchie volte l’ingegnere aveva fatto spegnere la lampada elettrica sperando di scorgere in qualche parte un lembo d’acqua illuminata, ma invano. Lo strato di ghiaccio non aveva nessun crepaccio, nessun buco che permettesse il passaggio della luce esterna.

A mezzanotte ancora nulla, quantunque il Taimyr avesse percorso dal mattino quasi trecento miglia. Le inquietudini dei due comandanti e dell’equipaggio aumentavano, avendo notato che l’aria cominciava ad impoverirsi.

Alle una i due cacciatori e l’esquimese, non abituati all’aria viziata, respiravano con maggior frequenza, e senza riuscire a empire completamente i loro polmoni ed accusavano un principio di emicrania. L’asfissia lentamente si avanzava, nemico terribile che né l’ingegnere, né Orloff potevano combattere in modo alcuno. Alle due Nikirka ravvivò l’aria lanciando nel battello alcuni metri cubi d’ossigeno. Alle tre, vedendo che la vòlta di ghiaccio continuava, fu fatto un primo tentativo per sfondare la gigantesca prigione.

Il Taimyr fu immerso fino a quattrocento metri onde potesse prendere lo slancio, poi fu avventato contro il banco a tutta velocità.

L’urto fu terribile. Il battello rimbombò come se fosse scoppiata la macchina o una cassa di dinamite e le sue lastre metalliche scrosciarono come se si fossero spezzate o disarticolate.

I mobili del salotto e delle cabine si rovesciarono con indicibile fracasso, mentre gli uomini venivano sbalzati innanzi come fossero stati colli di mercanzia, quantunque avessero avuto la precauzione di aggrapparsi alle sbarre interne del battello.

Orloff e l’ingegnere, rialzatisi, si erano affrettati a correre nella gabbia di prora per vedere se la vòlta del colosso polare aveva ceduto sotto l’urto, ma una sgradita sorpresa li aspettava.

L’enorme massa di ghiaccio era stata bensì intaccata dall’acuto sperone del Taimyr, però nessun crepaccio era stato aperto. Il fuso gigante d’acciaio era stato vinto dal banco gigante della regione polare.

– Non si farà nulla – disse l’ingegnere, coi denti stretti. – Questo ice-field è inattaccabile.

– Tentiamo un’altra speronata?

– Non avrà un successo migliore, signor Orloff. Se il ghiaccio non ha ceduto dinanzi a simile urto, non si aprirà più mai.

– Pensate che fra tre ore quest’aria non sarà più respirabile. Tutta la vostra riserva d’ossigeno non basterà a ravvivarla.

– È vero – rispose l’ingegnere, con voce cupa. – Non avevamo calcolato che vi erano a bordo tre uomini di più ed i cani.

– Cosa pensate di fare? Riprendere la corsa?

– No, proviamo una torpedine. Se possiamo aprire un crepaccio, lanceremo le manichelle.

– Credo che sia il partito migliore.

– Venite, signor Orloff.

– Ma… lo scoppio non determinerà la caduta di qualche masso enorme?…

– Un masso, per quanto grande fosse, nessun danno potrebbe causare alla nostra corazza, trovandoci noi sommersi.

– È vero, signore.

– Seguitemi.

I due comandanti si recarono a prora e si misero tosto all’opera.

Da un riparto laterale del battello, che era pieno di segatura di legno e di bombace e rivestito d’un grosso strato di celluloide, estrassero un fuso lungo un metro e mezzo, fornito a poppa d’una piccola elica che doveva funzionare mediante un meccanismo d’orologio inventato dall’ingegnere. Era una specie di siluro con cinque chilogrammi di fulmicotone, quantità sufficiente per causare uno scoppio formidabile. Aiutati dai due cacciatori, la torpedine fu caricata poi cacciata nel tubo di lancio che fu subito chiuso. Tosto, mediante la semplice pressione d’un bottone, scomparve entro un’apposita scanalatura una lastra in forma di disco, e l’acqua entrò inondando lo scompartimento del tubo.

Un istante dopo si udì il timoniere della gabbia a gridare:

– La torpedine è uscita!…

– Indietro a tutta velocità! – comandò l’ingegnere.

Il battello virò di bordo quasi sul posto e tornò indietro, mentre la torpedine spinta innanzi dall’elica, s’allontanava in senso inverso, radendo la vòlta del banco.

– Quanti minuti durerà prima di scoppiare? – chiese Orloff.

– Cinque – rispose l’ingegnere, che aveva estratto l’orologio.

Erano tornati nella gabbia del timoniere mentre i due cacciatori si erano precipitati agli sportelli del salotto.

D’improvviso una sorda detonazione si ripercosse in lontananza ed un turbine di spuma si rovesciò sotto il banco, avanzandosi con una velocità fulminea.

Il Taimyr fu avvolto fra quell’onda spumeggiante e fu scosso violentemente da prora a poppa, mentre dalla base dell’ice-field precipitavano, attraverso gli strati acquei, degli enormi blocchi di ghiaccio.

– Buon segno – disse l’ingegnere ad Orloff.

Il fuso gigante, passata l’onda, erasi lanciato innanzi mentre la lampada veniva spenta. Appena le acque tornarono oscure, l’ingegnere ed il secondo che non avevano abbandonata la gabbia del timone, scorsero un riflesso biancastro che spiccava nettamente a circa sei o settecento metri. Era una macchia di forma irregolare,

che pareva prodotta da un raggio di sole riflettentesi attraverso gli strati acquei.

– La luce! – esclamò Orloff.

– Sì, la luce! – confermò l’ingegnere.

– Il campo ha ceduto.

– Sì, e fra poco respireremo dell’aria pura.

In due minuti il Taimyr era giunto là dove era scoppiata la torpedine. Il fulmicotone aveva prodotto dei guasti enormi nel grande banco. Un tratto immenso del colosso polare era stato screpolato, quasi sventrato, ma la parte superiore aveva però resistito. Un foro nondimeno erasi aperto, della circonferenza di un metro, e di là scendeva un raggio di sole scialbo, ma bastante per illuminare le acque.

– è troppo poco – disse Orloff. – Avrei desiderato un crepaccio che ci permettesse di salire sul banco.

– Basterà per rinnovare la nostra provvista d’aria, signor Orloff.

Salirono la scaletta che conduceva al boccaporto è fecero scattare due molle che dovevano comunicare coll’esterno e che un tampone di caucciù stringeva in modo, da impedire l’entrata della più piccola goccia d’acqua.

– Cosa fate signore? – chiese Mac-Doil, che li aveva seguiti.

– Mettiamo in libertà le manichelle incaricate di provvederci d’aria – rispose l’ingegnere.- E

non ci manderanno dell’acqua invece?

– No, poiché alla loro estremità sono fornite di valvole automatiche che non possono funzionare che al contatto dell’aria.

Tornarono nella gabbia e scorsero le due manichelle riunite presso il foro, mantenute a galla da un pezzo di sughero circolare.

Il battello ad un comando dell’ingegnere fece una mossa innanzi in modo da costringerle a trovarsi proprio sotto l’apertura, poi s’immerse lentamente di alcune diecine di metri, per mantenerle tese.

Poco dopo Mac-Doil e Sandoè, che si erano arrestati presso la scala, udirono un leggero sibilo che veniva da uno dei buchi comunicanti colle manichelle e sentirono che l’aria, già tanto impoverita, diventava rapidamente più respirabile.

– Che diavoli d’uomini! – esclamò l’ebridano, con ammirazione. – Hanno pensato anche al modo di procurarsi l’aria senza essere costretti a salire alla superficie. Mio caro Sandoè, comincio a credere che noi vedremo ben presto il polo e che ritorneremo tranquillamente senza perdere un solo dollaro.

– Anch’io Mac-Doil – rispose Sandoè. – Non ti nascondo però che ero molto inquieto vedendo che i miei polmoni non funzionavano più regolarmente.

– Ed io avevo la pelle d’oca.

– Credi tu che…

– Che cosa?… Taci!…

– Cosa c’è di nuovo?…

– Non odi?…

– Dove?…

– Lassù… da quel tubo che ci trasmette l’aria. Ascolta!… Ascolta, MacDoil. – Ohe!… Sandoè!… Sei pazzo?…

– No, per mille corna di narvalo!… Ascolta! Mac-Doil stette zitto, aguzzando gli orecchi.

Allora udì una voce umana scendere attraverso la manichella che conduceva l’aria e gridare per tre volte:

– Hook!… Ka!… Koah!… Hook!…

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