L’assalto degli orsi bianchi

Il 24 maggio il Taimyr avvistava le coste meridionali della Terra di Banck, nei pressi della punta Nelson.

Questa terra è una delle meno conosciute di tutte quelle che si trovano al nord limitarono a percorrerne le coste. Solamente Mac-Clure ardì inoltrarsi un po’ e potè constatare che non è altro che una immensa pianura coperta sempre d’un alto strato di neve e di ghiaccio, e quasi priva di vegetazione, non crescendovi che pochi muschi e pochi licheni.

Ha una lunghezza di oltre quattrocento chilometri ed una larghezza massima di duecentotrenta a duecentocinquanta, ma non si conosce ancora la sua superficie, la quale però deve essere considerevolissima. Si sa che verso il nord ha alcune baie capaci di riparare comodamente delle navi, ed una baia vastissima sulle coste occidentali chiamata di

Burnett, però non sono accessibili che poche settimane dell’anno, essendo sempre ingombre di ghiacci.

Il Taimyr rilevata la punta Nelson, si cacciò arditamente nello stretto del Principe di Galles, esplorato quindici anni prima da Mac-Clure, aperto fra la Terra sopraccennata e quella del Principe Alberto, una delle più grandi e pure delle meno conosciute, non essendo ancora state esplorate le sue sponde orientali che dovrebbero essere bagnate dal Mare di Melville.

Quel vasto canale era ingombro di ghiacci d’ogni forma e dimensione ed avrebbero infallantemente arrestata qualsiasi nave, non però il battello dell’ingegnere Nikirka. Si vedevano ondulare in tutte le direzioni enormi montagne di ghiaccio staccatesi

dai ghiacciai delle coste, alcune altissime assai e colle punte aguzze ed altre semidiroccate

e che parevano in procinto di sfasciarsi completamente o di capovolgersi; poi si scorgevano dei banchi di dimensioni considerevoli che la corrente polare trascinava attraverso lo

stretto; poi dei ghiacci minori palks, streams e hummoks che si urtavano, s’infrangevano e si rovesciavano confusamente gli uni addosso agli altri.

Di quando in quando due colossi s’incontravano ed allora, perduto l’equilibrio, si precipitavano uno contro l’altro con tale fracasso, che pareva scoppiassero

delle mine o tuonassero parecchi cannoni. Altre volte invece delle montagne, minate alla base dall’acqua che doveva essere meno fredda dell’aria, strapiombavano bruscamente, facendo fuggire gli uccelli marini che si erano annidati sulle loro cime e s’inabissavano con cupo fragore sollevando delle ondate mostruose e ritornavano poi a galla con un gran salto, mostrando altre punte ed altri angoli grondanti d’acqua.

Il Taimyr, malgrado quei numerosi ostacoli, s’avanzava rapidamente nell’ampio canale, senza moderare la sua velocità che toccava i diciotto nodi. Guizzava, per modo di dire, fra le montagne e quando trovava dinanzi a sé dei banchi li sfondava con possenti colpi di sperone, senza arretrare d’un solo passo. Era davvero un poderoso ariete, solido come un

blocco di granito, capace di assalire, e forse vantaggiosamente, anche un campo di ghiaccio di grandi dimensioni e di notevole spessore.

Mac-Doil e Sandoè che si divertivano ad assistere a quella lotta formidabile contro i primi colossi delle regioni artiche, non abbandonavano la piattaforma, anche perché speravano di potere sorprendere qualche grosso capo di selvaggina.

Furono però delusi, poiché pareva che le sponde della Terra del Principe Alberto che il Taimyr allora costeggiava, fossero quasi del tutto disabitate. Avevano bensì veduto alcune foche, tuttavia si erano mostrate così lontane da far perdere ogni speranza di poterle catturare.

Alla sera il battello si accostò ad un banco di ghiaccio che si staccava dalle spiagge della

Terra del Principe Alberto e per la prima volta si arrestò.

Temeva forse l’ingegnere di andare ad urtare contro qualche ice~berg malfermo, malgrado il battello disponesse della sua potente lampada elettrica o temeva invece che il canale si chiudesse bruscamente, non essendo ancora stato esplorato da alcuna nave?… Forse l’uno e l’altro.

Mac-Doil e Sandoé ne approfittarono per sgranchirsi un po’ le gambe, e per sparare alcune fucilate contro gli uccelli marini che nidificavano in grande numero su quelle sponde. Avevano già uccise parecchie lumme ed alcuni lestrini e stavano per ritornare

al battello, quando Kamo, che li aveva seguiti, manifestò improvvisamente una viva irrequietezza.

Volgeva il muso verso le piccole colline che sorgevano a poche centinaia di metri dalla costa, raggrinzava il naso come cercasse di raccogliere delle lontane emanazioni e faceva udire dei brontolìi minacciosi.

– Che ci sia qualche foca o qualche tricheco nei dintorni? – si chiese

Mac-Doil, girando all’intorno uno sguardo indagatore. – A dire il vero quegli anfibi non danno che dell’olio e delle buone pelli, ma non mi spiacerebbe rimorchiarne a bordo qualcuno.

– Non si lascerà prendere facilmente, a quest’ora. Il sole sta per abbassarsi e le foche si cacciano nei loro buchi per tornare in acqua – disse Sandoé.

– Lo cattureremo domani mattina, se il battello si arresterà ancora. Andiamo a coricarci, Sandoé.

Diedero un ultimo sguardo su quella desolata costa, le cui nevi ed i cui ghiacci assumevano delle strane tinte violacee sotto gli ultimi riflessi del sole prossimo al tramonto, e tornarono

al battello, il quale era stato ormeggiato presso la costa, mediante una gomena avvolta intorno alla sporgenza d’una rupe rivestita di ghiaccio.

Pareva che tutti si fossero già coricati, poiché un silenzio assoluto regnava nelle cabine e nel salotto. Anche la luce elettrica era stata spenta, forse per non attirare l’attenzione di pericolosi animali.

I due cacciatori guadagnarono la loro cabina e si issarono sulle loro soffici amache ben imbottite di pellicce, contando di fare una lunga dormita.

Sonnecchiavano forse da due ore, quando furono bruscamente svegliati dai latrati poderosi di Kamo, i quali echeggiavano con un fracasso indiavolato nel ventre del battello.

Pareva che l’enorme molosso se la prendesse con qualcuno, poiché latrava con furore e ringhiava ferocemente come se si preparasse a mettere in opera i suoi terribili denti.

– Cosa succede? – si chiese l’ebridano, che si era prontamente alzato e che si disponeva, quantunque a malincuore, ad abbandonare le calde pellicce.

– Mi pare che Kamo sia irritato – disse Sandoé.

– E molto – rispose Mac-Doil. – Si direbbe che è alle prese con qualcuno. In quell’istante si udì il molosso lanciare un urlo che pareva di dolore.

I due cacciatori non esitarono più. Persuasi ormai che qualche cosa di grave accadeva al di fuori, si lasciarono cadere dalle brande ed aperta la porta si slanciarono verso la scala, ma appena fatti pochi passi s’arrestarono, urtandosi l’un l’altro.

– Fulmini! – urlò Sandoé.

– E lampi! – tuonò MacDoil.

All’incerto chiarore dell’alba che scendeva dal boccaporto rimasto aperto, avevano veduta una massa enorme e biancastra scendere la scala che metteva sulla piattaforma. Entrambi l’avevano conosciuta:

– Un orso! – aveva esclamato Mac-Doil, che era dinanzi. – Ai fucili, Sandoè!… Avevano tosto operata una precipitosa ritirata chiudendo la porta a catenaccio,non ignorando con quale formidabile avversario avevano da fare.

Stavano cercando a tentoni le armi, quando si udì la voce d’un marinaio che gridava:

– Chi vive?…

– Non uscite – tuonò Mac-Doil. – Vi sono degli orsi bianchi al di fuori.

– Luce!… Luce!… Accendete le lampade – gridava intanto Sandoé, il quale non era capace di trovare il suo fucile e le sue munizioni.

– Olà!… Cosa succede?… – chiese l’ingegnere che aveva la cabina attigua a quella dei due cacciatori.

– Se vi preme la vita non aprite, signore – disse Mac-Doil. – Il battello è stato assalito dagli orsi bianchi.

– Sono molti?…

– Ne ho veduto uno, ma odo il mio cane latrare sulla piattaforma e temo che ve ne siano degli altri.

– Alla macchina! – gridò l’ingegnere. – Accendete le lampade elettriche.

I marinai dovevano già essersi recati a poppa, poiché un istante dopo le lampade si accesero, mentre si udivano le eliche mettersi in movimento.

I due cacciatori avevano ritrovati i loro fucili ed i loro coltelli. S’accostarono alla porta per udire se l’animalaccio veduto si trovava ancora ai piedi della scala, ma Kamo faceva un tale fracasso coi suoi latrati, da non permettere di ascoltare.

– Usciamo – disse Mac-Doil. – Sii calmo e non sparare che a colpo sicuro.

– Non temere – rispose Sandoé.

Fecero scorrere il catenaccio, ma prima ancora che potessero ritirarsi indietro per aprire la porta, questa fu violentemente scardinata ed un orso enorme si precipitò nella cabina emettendo una specie di sordo grugnito.

Quel feroce abitante del paese dei ghiacci e delle nevi, misurava almeno due metri di lunghezza e doveva pesare ottocento chilogrammi, a giudicarlo dalle sue forme massicce.

Era adunque un avversario veramente formidabile, possedendo tali animali non solo dei denti robustissimi e degli unghioni acuti, ma anche una forza veramente prodigiosa. Precipitatosi nella cabina, parve dapprima sorpreso di trovarsi dinanzi a due uomini; il suo stupore durò un solo istante, poiché con un balzo straordinario, che non si sarebbe potuto prevedere da un corpo così massiccio, si scagliò addosso a Sandoè con tale furia, da atterrarlo prima ancora che il cacciatore avesse potuto puntare l’arma.

Mac-Doil però, abituato a misurarsi coi giganti della regione nord-americana e che aveva già abbattuto un buon numero d’orsi grigi che sono ancor più grandi dei bianchi, non aveva perduto il suo sangue freddo.

Fece lestamente due passi indietro e scaricò nelle fauci aperte della fiera le due palle del suo fucile.

Le ferite dovevano essere mortali, poiché due proiettili avevano fracassate le ossa del collo, pure l’orso non cadde subito. Si rizzò sulle zampe posteriori mandando un nitrito simile a quello che emettono i muli, abbandonò Sandoè e si gettò fuori dalla cabina sperando forse di giungere sulla piattaforma e di balzare in acqua. Ai piedi della scala però s’imbattè in un altro terribile avversario.

Era il molosso del Tibet, il quale udendo tuonare il fucile e supponendo il padrone in pericolo, accorreva in suo aiuto.

L’enorme cane si scagliò con furore inaudito contro l’orso e lo azzannò ferocemente alla coscia destra, facendo scricchiolare le ossa sotto le poderose mascelle.

L’assalito, che perdeva sangue a torrenti dalla gola sfracellata, si lasciò cadere sulle zampe anteriori, sperando forse di schiacciare col proprio peso il cane; questi invece con un balzo si era sottratto al pericolo ed era tornato alla carica, mugolando come una tigre in furore. La lotta fu così rapida, che prima che Sandoè si fosse risollevato col fucile in mano, l’orso giaceva a terra colla gola lacerata e gli orecchi strappati, già in preda alle ultime convulsioni dell’agonia.

— Bravo, Kamo! – urlò Mac-Doil, che accorreva dopo d’aver ricaricata l’arma.

In quell’istante l’ingegnere ed Orloff, pure armati di carabine, si slanciavano fuori dalle loro cabine, mentre il Taimyr, spezzata la gomena che lo teneva legato alla costa, si metteva in marcia a tutta velocità.

— Ucciso? – chiese Nikirka.

— Sì, signore – rispose Mac-Doil. – L’avevo colpito con due palle, tuttavia pare

che questi animalacci abbiano la pelle ben dura, poiché viveva ancora e senza questo bravo cane sarebbe forse fuggito. Sandoè, sei ferito?…

— No, ma se tardavi un momento, quel birbaccione mi stritolava il cranio come fosse un semplice biscotto.

— Ehm!… – esclamò in quell’istante Orloff. – Mi pare di udire dei grugniti sulla piattaforma.

— Che vi siano degli altri orsi? – chiese l’ingegnere, con voce affatto tranquilla.

— Andiamo a vedere signori – disse l’ebridano.

— Basterà chiudere il boccaporto – rispose Nikirka.

Ad un suo cenno due marinai che erano pure accorsi armati di scuri, fecero atto di slanciarsi verso la scala, Kamo con un salto li prevenne.

In tre salti varcò i gradini e balzò sulla piattaforma dove si rimise ad abbaiare con furore.

– Fulmini! – esclamò Sandoè. – Abbiamo imbarcata una banda di orsi?

– Si divertono a fare un viaggio senza pagare il trasporto – disse MacDoil.

– Cerchiamo di cacciare in acqua quei disperati.

– Adagio, cacciatore – disse l’ingegnere. – Possono essere molti e sono animali pericolosissimi.

– Lo so, signore, pure bisognerà sbarazzare la piattaforma o scenderanno. Andiamo, Sandoè, o mi storpieranno il cane.

Si slanciarono entrambi sulla scala seguiti da Orloff, da Nikirka e dai due marinai e balzarono sulla piattaforma.

Tre orsi, riuniti verso prora, al di là della cancellata, tentavano di azzannare il coraggioso molosso, il quale cercava di varcare l’ostacolo che li divideva da loro.

Le tre belve parevano molto inquiete sentendo il battello fuggire e vedendo l’acqua scorrere spumeggiante attorno a loro, e non osavano abbandonarsi alle onde, quantunque siano tutti valentissimi nuotatori.

Vedendo però comparire quegli uomini armati, presero subito il loro partito. Trottarono verso l’estrema punta del battello e si lasciarono cadere in acqua, salutati da una scarica di carabine.

Uno, colpito probabilmente nel cranio, andò subito a picco come una massa di piombo; gli altri due tornarono a galla a duecento metri dalla poppa, e si misero a nuotare vigorosamente verso la costa che era lontana tre o quattro chilometri.

Essendo il loro peso individuale quasi corrispondente a quello dell’acqua, galleggiavano

a meraviglia e s’avanzavano verso la Terra del Principe Alberto con una velocità di almeno cinque chilometri all’ora.

-Buon viaggio!… – gridò dietro a loro Mac-Doil. – Vi augurerei di annegarvi, se non sapessi che siete troppo valenti nuotatori.

– Se fossero anche a cinquanta miglia dalla spiaggia, non sarebbero imbarazzati a raggiungerla – disse l’ingegnere.

– Una bell’audacia però ad assalirci – disse Orloff. – Un’altra volta ci guarderemo dal lasciare aperto il boccaporto.

– Dovevano essere assai affamati, – rispose l’ingegnere, – poiché ordinariamente sfuggono l’uomo.

– Io credo invece che abbiano scambiato il nostro battello pel carcame d’una balena.

– è probabile, signor Orloff.

– Comunque sia, la nostra dispensa si è considerevolmente arricchita di carne fresca – disse

Mac-Doil. – Si dice che anche la carne d’orso bianco sia eccellente!

– È vero, cacciatore – rispose Orloff.

– Mi hanno però detto che il fegato è velenoso.

– Non sempre, Mac-Doil. Alcuni marinai lo hanno mangiato impunemente, altri invece si ammalarono, ed altri ancora morirono in preda a dolori violenti ed

a diarree terribili. Gli esquimesi però lo danno sempre ai cani e noi faremo bene a gettarlo in mare onde non possa nuocere nemmeno al vostro valoroso Kamo.

– Ditemi, avete ucciso altri orsi bianchi? – chiese l’ingegnere a MacDoil.

– Mai, signore – risposero i due cacciatori.

– Pure so che le Compagnie delle pellicce mandano in Europa da mille a milleduecento pelli all’anno.

– È vero, – disse Mac-Doil, – sono i cacciatori delle coste settentrionali. Nelle nostre foreste non si uccidono che orsi neri ed orsi grigi.

– E ne mangiate le carni.

– Certo, signore.

– Allora affideremo a voi l’incarico di prepararci a pranzo uno zampone del vostro orso.

– Contate su di me, signore, che me ne intendo d’arrosti, è vero Sandoé?… Orsù, andiamo a scuoiare la preda.

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