Le ultime vittime delle regioni polari

Quell’orso doveva aver sofferto dei lunghissimi digiuni, essendo estremamente magro, però poteva fornire ancora un duecento e forse più chilogrammi di carne, e pei superstiti del Taimyr bastavano per continuare il viaggio fino alle coste dell’lslanda.

Rinvigoriti da quella scorpacciata di sangue, scorticarono l’animale adoperando due coltelli da tasca che i cacciatori ancora possedevano, e che fortunatamente avevano la lama solida e tagliente, e dopo un lungo lavoro riuscirono a spogliare le ossa ed a raccogliere anche alcuni chilogrammi di grasso, materia preziosissima necessaria per sciogliere la neve onde ottenere dell’acqua.

Il carcame fu abbandonato a Kamo, il quale potè finalmente calmare la fame che lo rodeva. Non potendo accendere il fuoco, essendo i pochi legnami galleggianti raccolti sul luogo del disastro, ancora troppo bagnati per poter ardere, i due cacciatori e l’esquimese si videro costretti a cibarsi di carne cruda, cibo ripugnante pei due primi, ma gradevolissimo pel terzo, essendo abituato a quell’alimento.

La loro fermata sul banco di ghiaccio fu di poche ore. La prudenza li consigliava di abbandonare in fretta quei paraggi freddissimi e così scarsi di risorse, specialmente allora che si trovavano sprovvisti di vesti, di coperte e quasi privi di fuoco.

Imbarcarono i loro viveri, tesero la pelle dell’orso su due remi incrociati facendola servire da vela, volendo approfittare del vento del nord che soffiava vivamente e ripresero la corsa verso il sud, filando fra grandi banchi di ghiaccio che andavano alla deriva verso i mari d’Europa.

Alla sera s’arrestarono presso le coste d’un isolotto deserto che distava una ventina di miglia dalle coste della Groenlandia, e dove si trovavano migliaia di uccelli marini.

L’esquimese, che era stato nominato cuoco e provveditore, fece una discreta raccolta di uova d’uccelli e di una specie di lichene che ben cucinato e ridotto in pasta viene avidamente mangiato dai groenlandesi, poi si stesero l’uno accanto all’altro nel fondo del canotto e copertisi colla pelle dell’orso, si addormentarono sotto la guardia del molosso.

Il 28 giugno1 riprendevano il largo. Il mare fortunatamente si manteneva tranquillo, ma il freddo era acutissimo ed i ghiacci diventavano numerosissimi in quel tratto di mare, minacciando d’imprigionarli.

Ice’bergs colossali, banchi, streams e hummoks andavano alla deriva urtandosi reciprocamente e sfracellandosi. Alcuni, perduto il loro centro di gravità, cadevano bruscamente e colle ondate che sollevavano rendevano pericoloso l’avanzarsi del canotto, il quale minacciava ad ogni istante di venire inghiottito.

Il primo luglio, dopo quattro giorni di navigazione penosissima, approdavano ad un’altra isola, di grandi dimensioni che formava una specie di semicerchio con una vastissima baia verso l’est. Sandoé opinava che fosse quella di Liverpool o una delle Sabine, ma Mac-Doil, con maggiori probabilità, data la forma di quella terra, credeva che fosse quella di Shannon che si trova dinanzi alla costa groenlandese chiamata oggi del Re Guglielmo.

Avendo le membra rattrappite pel freddo e per la immobilità a cui trovavansi condannati in quell’incomodo canotto, decisero d’arrestarsi alcuni giorni, anche perché speravano di poter catturare qualche foca che procurasse dell’olio per cucinar i viveri e per riscaldarsi.

Quella fermata però fu assolutamente infruttuosa, poiché quell’isola era abitata da soli uccelli marini ed anche assai diffidenti. Tuttavia poterono raccogliere una certa quantità di lichene che poteva fornire una discreta minestra.
nota: 1.Ci sono delle discordanze con le date segnalate in precedenza per un’evidente svista dell’autore.
Il 3 luglio riprendevano la ritirata sempre in mezzo ai ghiacci e con un freddo che doveva toccare i 20° centigradi sotto lo zero. Privi di fuoco come erano e di frequente spruzzati dalle onde, i disgraziati soffrivano immensamente, ma erano costretti a precipitare la fuga per non vedersi chiudere la via dai ghiacci galleggianti, i quali aumentavano sempre.

Il 5 il tempo cominciò a diventare cattivo. Il vento del nord soffiava con violenza, il mare diventava burrascoso e dalle coste della Groenlandia s’avanzavano delle dense nebbie. Correvano il pericolo di farsi fracassare dai ghiacci o di affondare fra quelle onde che minacciavano di riempire il canotto.

Decisero di ritirarsi su di un banco di ghiaccio e di attendere che l’uragano si sfogasse.

Il progetto fu tosto effettuato e si rifugiarono su di un ghiaccione che aveva uno spessore notevole ed una circonferenza di tre o quattrocento metri. Anche il canotto fu issato per impedire che le onde lo portassero via o l’affondassero. Per tre lunghi giorni i superstiti del Taimyr, sbattuti dalla tempesta, immersi in un nebbione fittissimo, semigelati dal vento rigidissimo del nord, errarono su quel mare sconvolto. Le loro sofferenze erano giunte a tale punto da desiderare la morte.

Il quarto giorno una tremenda disgrazia li colpiva, rendendo la loro situazione disperata. Kalutunak si era recato verso il margine del banco per vedere se il canotto aveva sofferto, ma giunto ad un certo punto s’accorse che una parte del ghiaccione era stata fracassata, forse dall’urto di qualche enorme iceberg. Non scorgendo più il canotto in alcuna direzione, s’affrettò a raggiungere i compagni e ad informarli della scomparsa del galleggiante.

Sandoé e Mac-Doil, quantunque fossero rattrappiti dal freddo, angosciati, spaventati, si misero a percorrere le coste del banco sperando di ritrovarlo, però le loro ricerche furono vane. Quella perdita li abbattè; si considerarono come morti, non possedendo ormai più alcun mezzo per compiere la ritirata verso il sud, e non avendo per somma sventura che pochi pezzi di carne le rimanenti provviste essendo rimaste nel canotto.

– È inutile ogni lotta – disse Sandoè, con voce sorda. – Era destino che nessuno di noi dovesse recare in Europa la notizia della scoperta del polo.

Mac-Doil non rispose. Pareva che anche l’energico ebridano, avesse perduto ogni speranza di guadagnare le coste dell’Islanda.

Solo Kalutunak forse sperava ancora. Abituato alla lotta diurna per l’esistenza, ai freddi ed a vivere fra i ghiacci, non vedeva la cosa grave come i suoi compagni.

Con un colpo di tosse richiamò l’attenzione dei due cacciatori, poi disse con voce tranquilla:

– Ho il mio rampone.

– E noi abbiamo quarantamila dollari che ci sono inutili quanto il tuo rampone

– disse Sandoè.

– Andrò a ramponare le foche – proruppe l’esquimese.

– E quali?… Non se ne vedono più.

– Le cercheremo.

– Non abbiamo più canotto.

– Ma i ghiacci galleggianti sono numerosi attorno a noi.

– E cosa vuoi dire? – chiese MacDoil.

– Che possiamo abbandonare questo banco e passare su altri maggiori.

– Il canotto non vi è più?…

– I ghiacci si urtano presto o tardi. Ecco lassù un grande banco che viene a toccare il nostro. Chi c’impedisce di abbandonare questo per l’altro?…

I due cacciatori si erano alzati. Un pack che doveva avere un circuito di un miglio e forse di più, s’apriva il passo fra gli altri ghiacci natanti e stava per investire il banco montato dai naufraghi. Sopra i suoi picchi e sopra gli icebeergs che si erano saldati ai suoi fianchi, si vedevano svolazzare bande di uccelli marini.

– Credo che Kalutunak abbia ragione – disse Mac-Doil. – Cerchiamo di raggiungere quel nuovo ghiaccio. Forse troveremo qualche foca o qualche morsa o per lo meno delle uova di uccelli marini.

Si caricarono della pelle dell’orso, unico loro riparo, dei documenti, del rampone e dei pochi pezzi di carne che ancora possedevano e si diressero verso la costa settentrionale. Il pack non era lontano che due o trecento passi e spinto dal vento che urtava contro gli ice’bergs e le piramidi, procedeva più rapido di tutti, fracassando, colla propria massa, i ghiacci minori che incontrava sul suo passaggio.

Un quarto d’ora dopo investiva il banco montato dai naufraghi, diroccandolo in gran parte con un urto poderoso. Mac-Doil ed i suoi compagni, dopo d’aver corso il pericolo di cadere nei crepacci apertisi in seguito alla collisione, furono lesti ad approdare sul ghiaccio gigante, il quale prometteva di resistere lungamente alla lenta sì, ma continua corrosione delle acque.

La fortuna parve arridere ai disgraziati superstiti del Taimyr, poiché poco dopo il loro approdo sul pack, poterono scorgere delle foche ed anche numerosi buchi aperti attraverso il campo.

Per non allarmarle ed obbligarle ad abbandonare i loro rifugi, si tennero nascosti in mezzo ad alcuni picchi di ghiaccio che potevano anche proteggerli contro i freddissimi soffi del vento polare.

– Penserà Kalutunak a catturarle – disse Sandoé. – Noi non potremmo far altro che spaventarle.

– Spero di prenderne alcune – rispose l’esquimese. – È necessario però che impedite a Kamo di allontanarsi.

– Resteremo accampati qui – disse Mac-Doil. – Ormai non potremo più abbandonare questo banco di ghiaccio che mi sembra il più grande ed il più solido di quanti ci circondano.

– Ma poi?… – chiese Sandoè. – Cosa accadrà di noi quando questo pack si scioglierà?…

– Ci vorrà del tempo perché le acque lo corrodano tutto e spero, prima di allora, di veder comparire all’orizzonte le coste settentrionali dell’Islanda o qualche nave. Dei balenieri vengono a pescare i cetacei sulle spiagge della Groenlandia e la buona stagione non è per anco terminata.

– E questo freddo che non cessa? Riusciremo a resistere? Siamo già ridotti in cattive condizioni.

– Costruiremo una capanna di ghiaccio, Sandoé. Il materiale non manca e Kalutunak è abile in simil lavori.

– La costruirò – disse l’esquimese.

– Se riesco ad uccidere delle foche, non soffriremom più il freddo.

– Mettiamoci al lavoro adunque – disse Sandoè, che tremava. – Io non posso più resistere. Il povero cacciatore diceva il vero. Meno agguerrito dell’ebridano, che era ormai da lunga pezza abituato al freddo clima dell’Alaska, si trovava in uno stato compassionevole.

Il vento polare aveva screpolata la pelle del suo viso la cui carne era stata messa a nudo in più parti; il suo naso aveva sofferto un principio di congelamento ed era diventato grosso e rosso come un peperone ed una tosse ostinata lo tormentava già da qualche giorno. Un’altra prova a quella temperatura che si manteneva crudissima, poteva essergli fatale.

L’erezione d’una capanna di ghiaccio fu adunque tosto cominciata. Kalutunak e Mac-Doil si misero ad ammonticchiare dei grossi pezzi di ghiaccio che saldavano gli uni agli altri colla neve, disponendoli in cerchio e continuarono, sempre più restringendo il giro, finché riuscirono a costruire una specie di cupoletta avente un diametro di tre metri ed un’altezza di due. Da una parte scavarono una specie di galleria lunga parecchi piedi, la quale terminava entro la capanna, rendendo meno rapida, in tal modo, la dispersione del calore. La pelle dell’orso fu stesa nell’interno ed i tre naufraghi poterono finalmente gustare un lungo sonno al riparo del vento polare e godere una temperatura relativamente mite.

L’indomani, messi in buon umore da quel riposo, decisero di porsi in caccia.

Avevano consumata tutta la carne dell’orso e desideravano ardentemente un pezzo di foca bene o male arrostita ed un po’ di luce, facendo assai oscuro nella capanna di ghiaccio essendo questa quasi tutta ricoperta di neve.

Avendo osservato che le foche si erano mostrate verso le coste settentrionali, si recarono da quel lato del pack, tenendo però il molosso pel collare onde non le spaventasse.

Mezz’ora dopo scoprivano sei di quegli anfibi che si trovavano sdraiati a cinquanta

passi dal mare. Erano delle kassigiah, animali che raggiungono ordinariamente un metro di lunghezza e che hanno la testa ovale, il muso corto ed il pelame grigio-giallognolo. Cosa strana però: le femmine, invece di essere più piccole, hanno uno sviluppo maggiore dei maschi.

I tre cacciatori, che si tenevano prudentemente sottovento, si divisero per impedir loro la ritirata verso il mare, poi si slanciarono innanzi emettendo alte grida e lasciando libero Kamo.

I sei anfibi, scorgendoli, si misero a strisciare sul campo e poco dopo cinque si lasciavano cadere nei loro buchi immergendosi in mare, ma il sesto fu azzannato a tempo dal molosso e strangolato.

Quell’anfibio era piccolo, essendo lungo appena ottanta centimetri, ma grasso. Poteva bastare per qualche settimana e fornire parecchi chilogrammi di materia oleosa.

I cacciatori, dopo d’aver bevuto il suo sangue, lo portarono trionfalmente nella loro capanna, lo scuoiarono, lo fecero a pezzi e raccolsero preziosamente il grasso.

Kalutunak fabbricò delle candele grossolane, ma erano troppo fumose per poter arrostirvi sopra un pezzo di carne, e d’altronde non possedevano altro recipiente che una scatola di metallo, conservata gelosamente per sciogliere il ghiaccio necessario a dissetarsi.

Si videro quindi costretti a cibarsi ancora di carne cruda, di quella carne oleosa, erastra, impregnata d’un sapore di rancido da rivoltare lo stomaco a qualunque ltra persona. La fame però era tale, che i cacciatori si chiamarono ben ortunati di poter avere quel cibo, che del resto era il più atto a combattere il reddo, essendo ricco di materie grasse.

Il secondo giorno, credendo che le foche si fossero tranquillizzate e volendo ngrossare le loro provviste, tornarono a visitare il pack ma con loro terrore non ne videro nmmeno una. Certo, non credendosi più sicure, avevano abbandonato l banco, cercando un rifugio più tranquillo su altri.

Il 9 luglio il tempo tornò a diventare cattivo. Il vento del nord ricominciava a soffiare ed il mare diventava minaccioso, battendo furiosamente i margini del pack. Anche le nebbie s’avanzavano, venendo da occidente.

I tre naufraghi furono costretti a tapparsi nella loro capannuccia, per non esporsi a quel freddo intenso prodotto dal vento polare.

Il banco, sollevato e sbattuto dalle onde, crepitava sinistramente come se dovesse da un momento all’altro aprirsi; correva però più rapido verso i mari d’Europa.

Il vento urtando contro gli ice-bergs e le piramidi di ghiaccio, lo spingeva verso il sud con notevole velocità.

Il 14 luglio, essendosi il tempo rasserenato, i naufraghi lasciarono la loro capanna e perlustrarono le spiagge sperando sempre di poter catturare qualche altro anfibio, però senza risultato.

Scorsero bensì, su di uno stream, un orso bianco che si lasciava trasportare dalla corrente ed anche una foca crestata, ma essendo sprovvisti del canotto e senz’armi da fuoco, dovettero accontentarsi di guardare malinconicamente quelle prede che avrebbero fornito loro delle copiose provviste.

Ritornarono alla capanna tristi, scoraggiati. La foca era quasi terminata, il grasso stava pure per cessare e per di più Sandoè era tanto debole da non potersi quasi più reggere. Il povero isolano era tormentato da una tosse ostinata e pareva anche minacciato dallo scorbuto, poiché la sua pelle andava coprendosi di macchie e le sue gengive sanguinavano. Mac-Doil cominciava a disperare ed anche l’esquimese aveva perduto la sua fede.

Il 15 la loro situazione non migliorò. Il mare si manteneva burrascoso, la nebbia avvolgeva il pack ed il freddo, invece di scemare, era sempre rigidissimo. L’esquimese, malgrado ciò, volle uscire per cercare d’impadronirsi di qualche foca. Aveva scoperti altri buchi verso le coste occidentali e non dubitava che fossero abitati.

Partì solo, portando con sé il rampone.

– Torna presto – gli disse MacDoil.

– Non dubitate – rispose egli. – Se mi udite gridare, accorrete ad aiutarmi.

Si cacciò nel corridoio e scomparve mentre al di fuori il vento ululava attraverso i picchi di ghiaccio ed il mare muggiva sinistramente.

Mac-Doil si era accovacciato accanto a Sandoè, il quale si era sdraiato sulla pelle dell’orso, cercando di soffocare la tosse che gli lacerava lo stomaco.

Kamo che si era collocato presso la galleria, si mostrava inquieto. Pareva che ascoltasse attentamente i rumori che venivano dal di fuori e di quando in quando emetteva dei sordi brontolìi.

Era trascorsa un’ora, quando il molosso fece atto di slanciarsi all’aperto.

– Che Kalutunak m’abbia chiamato? – chiese MacDoil.

– Non ho udito nulla – disse Sandoè.

– Pure Kamo mi sembra assai inquieto. Voglio andare a cercare l’esquimese.

– La tempesta continua al di fuori, MacDoil.

– L’affronterò.

– Copriti colla pelle dell’orso.

– No, povero amico. Servirà più a te che sei ammalato che a me. Vieni, Kamo.

Si cacciò nella galleria entro la quale ingolfavasi il vento con mille gemiti ed uscì.

La bufera imperversava con rabbia estrema. Il mare muggiva e scrosciava attorno al banco e la nebbia turbinava in mezzo ai picchi ed agli ice-bergs, mentre il vento spingeva innanzi a sé nembi di nevischio e sprazzi d’acqua marina.

Appena il molosso fiutò l’aria esterna, lanciò un latrato lamentevole che aveva qualche cosa di lugubre.

L’ebridano, superstizioso come tutti i suoi compatrioti, rabbrividì.

– Triste presagio – mormorò, crollando il capo. – Che una disgrazia sia accaduta anche all’esquimese?

Si provò a chiamarlo per nome con tutta la forza dei suoi polmoni; solamente le urla del ventaccio ed i muggiti del mare risposero. Allora una profonda inquietudine s’impadronì di lui.

– Cerchiamolo, Kamo – disse con suprema energia.

Entrambi s’avventurarono sul pack sfidando le nebbie e la neve, l’uno latrando e l’altro ripetendo le chiamate.

Il ghiaccio crepitava sotto i loro piedi, come se dovesse spezzarsi ed inghiottirli; il ventaccio li spingeva a destra o a manca o li atterrava e l’oscurità era profonda, pure continuavano ad avanzarsi raddoppiando le chiamate ed i latrati.

Ad un tratto il molosso si precipitò innanzi e s’arrestò sull’orlo d’un crepaccio. L’ebridano l’aveva seguito, facendo sforzi disperati per resistere alle raffiche che diventavano sempre più impetuose.

– Cerca, Kamo, cerca – disse con voce angosciata. Il cane non si mosse: latrava sordamente.

Solo allora Mac-Doil s’accorse che aveva appoggiate le zampe anteriori sul rampone che l’esquimese aveva abbandonato sull’orlo della fenditura.

Comprese tutto: il disgraziato Kalutunak, spinto forse dal vento, era stato precipitato in mare e coperto di pelli come si trovava, doveva essersi annegato.

Non vi era da ingannarsi, poiché non avrebbe di certo abbandonato colà il rampone che doveva servirgli a cacciare le foche.

Mac-Doil, dinanzi a quella lugubre scoperta, credette d’impazzire. Cosa sarebbe avvenuto di lui, con Sandoè gravemente ammalato, senza l’aiuto dell’esquimese, il solo che era capace di ramponare gli anfibi, quasi senza viveri, perduto su quel mare tempestoso e su di un banco di ghiaccio che poteva venire infranto dagli ice’bergs?…

Una cupa disperazione lo invase e si credette condannato a seguire ben presto i disgraziati comandanti del Taimyr ed i loro marinai.

Gli mancò il coraggio di tornare alla misera capanna di ghiaccio per recare al compagno il triste annuncio ed errò come un pazzo, per parecchie ore, in mezzo al nebbione, alla neve, agli spruzzi d’acqua.

Quando si decise a ritornare, trovò Sandoè coricato sulla pelle dell’orso, col capo nascosto fra le mani, in preda a furiosi ed incessanti colpi di tosse. Il povero isolano delle Far-Oer pareva agli estremi o per lo meno tanto aggravato da disperare della sua guarigione. Udendolo entrare, con uno sforzo supremo si rialzò e lo interrogò cogli sguardi.

– Mi ero ingannato – rispose Mac-Doil, lasciandosi cadere presso la galleria. Sandoè scosse il capo tristamente, poi fra un colpo di tosse ed un gemito, disse:

– Tu… mi nascondi… la verità… Kamo ha… latrato… come quando i cani… annunciano una… sventura.

– No, Sandoè.

– Lo leggo nei tuoi occhi… Mac-Doil… L’hai… cercato… per parecchie ore… Poi vedendo che l’ebridano non accennava ad aprire le labbra, continuò:

– È morto… è vero?…

– Sì – rispose Mac-Doil, con voce sorda. – Ma io sono vivo ancora, sono robusto Sandoè e lotterò a lungo. Io ti salverò.

Un pallido sorriso sfiorò le labbra del povero cacciatore.

– è tardi… – mormorò. – Il polo… porta… sventura… e fra poco… sarò… morto anch’io.

– No, t’inganni, Sandoè. Non disperare ancora; il vento spinge rapidamente il banco verso il sud e fra poco vedremo le coste dell’Islanda. Odi come soffia?… Corriamo come un veliero. Sandoè non rispose e tornò a ricadere sulla pelle dell’orso, mentre il cane faceva udire ancora una volta il suo lugubre latrato.

Quante ore trascorsero dopo?… Forse molte senza dubbio.

Quando Mac-Doil, che si era assopito presso il molosso, si svegliò, la candela che rischiarava la capanna di ghiaccio erasi spenta ed al di fuori ruggiva sempre il vento. Spaventato, chiamò Sandoè, ma non ricevette alcuna risposta. Strisciò verso il posto occupato dal compagno, ripetendo:

– Sandoè!… Sandoè!…

Mise le mani sopra il corpo dell’amico e sentì che ormai era freddo. Il povero cacciatore era morto e forse da parecchie ore.

Si ricordò solamente di essersi svegliato, come dopo un lugubre sogno, a bordo d’una nave baleniera, la Bomholm, che tornava dai mari della Groenlandia dopo la stagione della pesca.
Seppe solo che era stato raccolto a centosessanta miglia dalle coste orientali dell’Islanda, su di un piccolo banco di ghiaccio che stava per sciogliersi definitivamente, stracciato, semigelato, morente di fame, mentre mordeva rabbiosamente la borsa contenente i quarantamila dollari e le note del comandante del Teymyr. Il resto i lettori lo hanno già appreso dalla prefazione.

Cosa accadde dopo quella terribile notte?… Mac-Doil non me lo seppe mai dire, come non mi potè dire quanto tempo rimase su quel banco di ghiaccio che la tempesta trascinava verso i mari d’Europa.

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