I misteri del Polo

Il Polo Nord, quel terribile polo che aveva costato tante vittime umane alle nazioni europee ed americane; che aveva inghiottite tante navi, che aveva fatto piangere tante vedove, che aveva divorato tanti milioni, che aveva distrutte tante energie per tre lunghi secoli, era stato finalmente vinto.

La sua formidabile barriera di ghiacci che lo guardava gelosamente e contro la quale erano andate ad infrangersi miseramente tante spedizioni, era stata ormai violata, come non era più rimasta segreta la sua montagna che rappresentava uno dei due culmini del mondo. Il battello sottomarino tutto aveva vinto: i campi di ghiaccio, i freddi intensi, lo scorbuto, questa terribile malattia che pare imperi nelle regioni polari, i furori dell’Oceano Artico, i foschi nebbioni, tutto!…

Due mesi soli erano bastati, per quell’ammirabile fuso d’acciaio costruito dall’audace ingegnere finlandese, per abbattere tutti i formidabili ostacoli che avevano arrestate le navi dei più intrepidi naviganti dei due mondi, di Caboto, di Verazzano, di Hudson, di Baffin, di Barentz, di Fluntow, di Zorgdrager, di Phypps, di Davis, di Hall, di Knight, di Ross, di Parry, di Franklin, di Inglefield e di tanti e tanti altri avventuratisi fra i ghiacci polari.

Ah! Poteva bene essere orgoglioso l’audace ingegnere di quel successo meraviglioso, incredibile, come lo potevano essere i suoi bravi marinai che lo avevano secondato nell’impresa.

Il Taimyr dopo quel primo contatto con quella terra perduta si può dire, ai confini del mondo, aveva ripresa la marcia girando attorno alla montagna che s’innalzava bruscamente dal fondo del mare.

Pareva che l’ingegnere cercasse qualche punto dove sbarcare e tentare forse l’ascensione di quel cono, ma si avrebbe detto che quella terra non volesse essere contaminata da alcun piede umano, poiché non offriva approdi in alcun luogo. Era un vero cono alto forse duecentocinquanta metri, colle pareti perfettamente lisce, senza una screpolatura, senza una sporgenza qualsiasi. Era una roccia gigante impossibile a scalare che doveva conservare forse per sempre la sua cima vergine da ogni contatto cogli abitanti del globo. Pareva che perfino gli ultimi ghiacci tentassero di difenderla, poiché all’intorno si erano accumulati colossali ice’bergs, formando un’ultima, ma formidabile barriera.

Orloff e l’ingegnere, mentre il Taimyr compiva il giro del cono, scandagliavano il fondo, ma cosa strana: mentre fino allora avevano incontrati dei bassifondi, colà l’acqua doveva avere una profondità straordinaria, poiché le sonde di trecento braccia non toccavano. Senza dubbio in quel luogo doveva trovarsi un avvallamento enorme, una specie di bacino profondissimo.

– Non posso toccare la cima, ma almeno andremo a toccare il fondo – disse l’ingegnere ad

Orloff.

– Lo desiderate, signore?

– Sì, – rispose l’ingegnere, – ma dopo mezzogiorno.

– Perché? – chiese Sandoé.

– Per essere certo che noi siamo realmente al polo.

– Torneremo poi verso il sud?

– Sì, prima che il sole tocchi l’orizzonte, noi saremo lontani da qui.

– Rifaremo il cammino percorso? – chiese Orloff.

– No, se troveremo un altro passaggio fra questi banchi subacquei. Desidererei raggiungere i mari d’Europa girando le coste settentrionali della Groenlandia. Credete possibile questa ritirata verso il sud-est?…

– Mi sembra che verso l’est non vi siano né banchi, né isolotti – rispose Orloff che aveva puntato il cannocchiale in quella direzione.

– Meglio così; in venti giorni potremmo avvistare le coste dell’Islanda.

– E poi le Fàr-Óer? – chiese Sandoé, con viva emozione.

– Se vorrete rivederle – disse l’ingegnere.

– Grazie, signore.

– Andiamo a far colazione – disse Mac-Doil. – Odo il campanello del mio amico cuoco. Il cuoco aveva preparata una colazione squisita e copiosa come se avesse voluto che il padrone e gli ospiti festeggiassero degnamente il lieto avvenimento.

La dispensa era stata saccheggiata e così pure la riserva delle bottiglie. La minuta si componeva di prosciutti affumicati, di uova di oche bernide, che erano state raccolte due giorni innanzi sulle rive dell’isolotto visitato dai cacciatori, di kaviale di Russia, di bue muschiato in salsa piccante, di zampone d’orso arrostito, di pesci in aceto, di frutta secche e d’un pudding monumentale, poi di bottiglie del Reno, di Bordeaux, di birra e due di Champagne. Per ultimo fu servito un punch fiammeggiante.

Tutti, l’equipaggio compreso che aveva ricevuto il permesso di sedersi alla tavola dei comandanti, assalirono quelle diverse vivande con appetito invidiabile e soprattutti Mac- Doil a cui l’aria del polo conferiva assai, almeno così asseriva con tutta serietà.

Allo Champagne furono fatti numerosi brindisi all’ingegnere, ad Orloff, al Taimyr ed al Polo Nord. Quando s’alzarono era vicino il mezzogiorno. Orloff, l’ingegnere ed i due cacciatori salirono sulla piattaforma ed essendo il sole splendido, fu tosto fatto il punto.

– Signori – disse Nikirka, scoprendosi il capo. – Noi siamo al Polo Nord!…

– Sì – disse Orloff. – Siamo a 90° di latitudine Nord ed all’estremità del 60° parallelo. I tre urrah di rigore echeggiarono per la seconda volta su quell’estremo punto

del mondo, rugando i pochi uccelli, che più fortunati degli esploratori, volteggiavano sulla candida vetta della montagna.

Un istante dopo il boccaporto veniva chiuso ed il Taimyr si inabissava lentamente nell’Oceano Artico, per esplorarne il fondo.

Gli sportelli del salotto erano stati aperti e la lampada elettrica accesa, prevedendo che quel bacino sarebbe stato ben profondo, dopo gli scandagli fatti.

L’ingegnere, Orloff ed i due cacciatori si erano messi dinanzi alle grandi lenti sperando di vedere qualche abitatore di quel bacino, ma senza poter soddisfare la loro legittima curiosità poiché quelle acque parevano disabitate.

Quella mancanza assoluta di pesci parve sorprendesse vivamente l’ingegnere e la sua meraviglia dovette accrescersi nel constatare degli strani, inesplicabili fenomeni.

Di metro in metro che il battello s’immergeva, le bussole di bordo, come al polo magnetico, davano segni d’una viva irrequietezza. Oscillavano vivamente, poi compivano dei giri vertiginosi e le loro lancette s’inclinavano fino a toccare il fondo delle scatole metalliche. Cosa ancora più strana: perfino alcune calamite sospese a dei fili, che servivano a

calamitare gli aghi delle bussole, parevano che subissero una attrazione violentissima, poiché quantunque il battello s’inabissasse senza scosse, ondulavano dal nord al sud.

Da che cosa poteva derivare quell’attrazione potente che faceva impazzire gli aghi e che scuoteva perfino le calamite?… Né l’ingegnere, né Orloff erano capaci di trovare una spiegazione di quel singolare fenomeno.

Perfino il gigantesco fuso d’acciaio pareva che subisse un’attrazione verso il fondo dell’oceano, poiché scendeva con maggior rapidità, come se non trovasse alcun ostacolo nell’acqua.

– Cosa pensate voi di questo fenomeno sorprendente?

– chiese Orloff all’ingegnere.

– Non so cosa dirvi.

– Che nel fondo del mare vi siano delle enormi masse di calamità?…

– È probabile, ma dovrebbero essere d’una potenza straordinaria, poiché anche il Taimyr ne sente l’influenza.

E…

– Dite.

– Non provate alcuna cosa voi?…

– Sì, un’alterazione strana dei miei nervi.

– Sì, signor Nikirka. Da cosa credete che provenga?…

– Non lo saprei, ma si direbbe che quest’acqua che circonda il polo è straordinariamente satura di elettricità.

– L’avete notata stamane, all’aria libera, l’agitazione dei vostri nervi?

– No, signor Orloff.

– E nemmeno io. Che stia per succedere qualche fenomeno?…

– Chi può dirlo?… A quale profondità siamo?

– Ad ottocento metri.

– Fate spegnere la lampada elettrica.

– Perché signor Nikirka?…

– Lo saprete poi.

L’ordine fu tosto trasmesso nella sala delle macchine ed una profonda oscurità circondò il battello, il quale allora stava per toccare i mille metri.

D’improvviso fra le acque si vide balenare una strana luce ma che subito si spense. Pareva che un lampo, sorto dalle profondità del mare, avesse illuminati gli strati d’acqua, ed aveva infatti quella tinta livida, cadaverica, che tramandano i lampi prima che scoppi un uragano.

– Avete veduto? – chiese l’ingegnere ad Orloff.

– Sì – rispose questi, che era al colmo dello stupore.

– Signore – disse Sandoè, che era diventato pallido. – Scendiamo all’inferno noi?… Si direbbe che il Teymyr precipita verso gli abissi dell’oceano.

L’ingegnere non rispose. Un altro lampo aveva squarciato le tenebre facendo scintillare le acque, mentre delle lunghe strisce rosse pallide e verdi languide erano state vedute guizzare in varie direzioni, per poi spegnersi quasi subito.

– Signor Orloff – disse ad un tratto l’ingegnere. – Che sia da queste acque che s’innalzano le aurore boreali?…

Cosa dite voi?…

– Dico signore, – rispose il secondo che per la prima volta sembrava in preda ad un vivo terrore, – che noi siamo a mille e cinquanta metri di profondità, che il fondo non si vede ancora e che le nostre bussole, se continuiamo la discesa, si sfalseranno in modo da non poter più ottenere una direzione approssimativa.
– Volete dire che sarebbe meglio ritornare alla superficie del mare.

– Sì, signore.

– E lo desidero vivamente anch’io, per centomila foche! – disse MacDoil.

– Queste luci misteriose mi fanno paura, signor Nikirka.

L’ingegnere guardò le bussole. Parevano assolutamente impazzite. Giravano vertiginosamente, oscillavano e subivano delle scosse così repentine da credere che volessero sbalzare giù dalla punta che le sosteneva.

– Saliamo – disse. – Le bussole sono troppo preziose per perderle.

Le due eliche laterali furono arrestate, le pompe dei serbatoi si misero in opera ed il Taimyr si mise a risalire ma quasi a fatica, come se il suo slancio fosse neutralizzato da quella misteriosa attrazione.

Quando il boccaporto fu aperto ed i due comandanti ed i cacciatori uscirono sulla piattaforma, scorsero una enorme nuvola nera che si aggirava sulla vetta della montagna e che accennava ad allargarsi rapidamente, mentre tutto all’intorno l’orizzonte si copriva d’una densa nebbia la quale aveva di già oscurato il sole.

Una violenta perturbazione atmosferica pareva imminente. L’aria, come l’acqua che poco prima circondava il battello, era eccessivamente satura di elettricità e così secca che in pochi istanti aveva ridotto in polvere il tabacco che i due cacciatori tenevano nei loro borsellini.

Il mare aveva assunta una tinta plumbea, d’aspetto sinistro, ma nessun soffio d’aria per ora spirava. Anzi una calma perfetta regnava dovunque.

– Signor Nikirka – disse Orloff. – Temo che si prepari qualche uragano o qualche sorpresa che la prudenza c’insegna di evitare.

– Cosa volete dire?

– Fuggiamo, signore. Se un uragano scoppiasse qui, fra questi bassifondi, le onde potrebbero gettare il nostro Taimyr su qualche banco ed immobilizzarci per sempre.

– Sia, partiamo – rispose l’ingegnere che pareva pure inquieto. – Sono ancora impazzite le bussole?

Sempre.

– Potreste mantenere la rotta dell’est.

– Lo spero.

– Macchina avanti e scandaglio in mano.

Il Taimyr si mise in marcia verso l’est a piccola velocità, non sapendosi se in quella direzione l’acqua era sufficientemente profonda o se scemasse. Lo scandaglio diede però ben presto delle profondità straordinarie anche in quella direzione, poiché una sola volta potè toccare il fondo a trecentosessanta braccia.

Non scorgendosi alcuna terra e continuando l’acqua ad essere profondissima, il battello riprese la sua rapida marcia di quindici o sedici nodi.

Mentre s’allontanava, l’ingegnere, appoggiato alla cancellata di poppa, continuava a tenere gli sguardi fissi sulla montagna che a poco a poco pareva si abbassasse e che sfumasse.

La gigantesca nuvola nera che aveva ormai invaso tutto l’orizzonte congiungendosi colla nebbia, formava sopra di essa come una immensa cappa offuscando, colla sua tetra tinta, il candore delle nevi.

La bandiera, lasciata piantonata sui fianchi del cono gigante, era di già scomparsa sotto l’orizzonte.

La marcia precipitava. Pareva che il Taimyr fosse impaziente di allontanarsi da quelle regioni e che temesse di subire un’altra volta quella misteriosa attrazione che aveva spaventato perfino l’audace compagno dell’ingegnere.

La luce scompariva rapidamente come se fosse per piombare, su quella regione dove il sole per sei mesi non tramontava, la lunga e cupa notte polare. Si sarebbe detto che l’astro diurno era scomparso sotto l’orizzonte, poiché più nessun raggio di luce trapelava fra gli strappi della fosca nube.

Le acque erano sempre immobili, ma diventavano color dell’inchiostro ed assumevano un aspetto sempre più pauroso.

Un superstizioso terrore agitava gli animi degli audaci scopritori del polo, e tutti, fors’anche lo stesso ingegnere, avrebbero desiderato in quel momento trovarsi mille miglia più al sud. Alle nove di sera il Taimyr incontrava i primi ghiacci galleggianti, l’avanguardia della gigantesca barriera degli ice-fields. Erano grandi ice-bergs che cappeggiavano lentamente e che pareva navigassero verso l’est, trasportati forse da qualche corrente marina.

Alle dieci, quando maggiore era l’oscurità e più acuta la tensione elettrica, alcune fiammelle azzurre comparvero sullo sperone del battello, balzando e scorrendo lungo la parte emergente del grande fuso e saltellando perfino sulla gabbia del timoniere. Quasi nel medesimo istante verso il nord, in direzione della montagna, parve che il mare ed il cielo avvampassero. Una luce vivida s’alzava percorrendo, con un fremito, le nuvole addensate negli spazi celesti, con ondeggiamenti biancastri, azzurrini, rossi o verdi-pallidi, formando come una mezza cupola immensa.

Nel punto centrale di quella splendida arcata spiegantesi in fuori, salivano senza posa fasci luminosi che si sdoppiavano, che si triplicavano, formando come una specie di ventaglio e che poi si scioglievano in una pioggia sanguigna, mentre altre lingue salivano colla veemenza dei razzi, riflettendo bagliori d’oro.

Per alcuni minuti fu un continuo succedersi di raggi; poi tutto quell’ammasso di luce parve che impazzisse. Quelle lingue immani oscillavano come se fossero percosse da un vento impetuoso, si fondevano colle vicine, cangiavano forma e tinte, si scioglievano, si disperdevano in una pioggia d’oro. Era una splendida ridda di luci meravigliose, abbaglianti, gialle, rosse, porporine, verdi, argentee, azzurrognole.

A poco a poco però quelle oscillazioni cessarono, le svariate tinte scomparvero sotto una invasione di luce intensamente rossa la quale alzandosi verso le nubi formò un’immensa cupola di fuoco, in mezzo alla quale spiccava la montagna polare.

Il mare pareva che fosse diventato di sangue ed i ghiacci galleggianti parevano trasformati in enormi massi di lave incandescenti.

– Chissà – disse l’ingegnere, che ritto alla cancellata di poppa, ammirava quel superbo fenomeno. – Chissà che le forze magnetiche ed elettriche non irrompano dalle misteriose profondità di questo mare per formare queste aurore boreali.

Quanti segreti nasconde ancora questo polo, che forse più mai nessuno altro essere umano riuscirà a rivedere.

– E chissà quale tempesta ci annuncia questa aurora boreale – aggiunse il secondo, che gli stava accanto.

– È vero, signor Orloff, e speriamo che non ci sia fatale.

– Pel nostro valoroso Taimyr!… Non credetelo, signore.

– Chi può dire cosa potrà accadere?… Io non lo so, signor Orloff, ma ho dei tristi presentimenti.

Voi?…

– Sì io: ho paura che il polo porti sventura agli uomini.

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