Prefazione

Ero ritornato da una gita intrapresa col signor Logrand sulla Quinsegna, una delle più alte montagne del Canavese, la cui vetta sorpassa i duemiladuecento metri e dove, di lassù, si può spaziare lo sguardo su quasi tutto il Piemonte e sulla gigantesca catena delle Alpi occidentali.

Sfinito da una marcia di nove ore, attraverso a burroni ripidissimi, fra gole profonde, su per rupi dove bisogna arrampicarsi come i gatti, poiché nemmeno le più agili capre sarebbero state capaci di superarle, anelavo di trovarmi a Cuorgnè e di riposarmi.

Appena entrato nella mia casettina, ricevuto dalle grida gioconde del mio Nadir e della mia Fathima, due bricconcelli che non lasciavano tranquillo il papà nemmeno quando scrivevo, mi venne incontro mia moglie, dicendomi con una cert’aria di mistero:

– L’hai incontrato?

La guardai un po’ sorpreso; ma immaginandomi tosto che fosse giunto qualche amico, le risposi:

– Non ho veduto alcuno. Sono venuto dalla parte dell’Orco1 e non ho incontrato che dei contadini.

– è uscito or ora. Ed era?…

– un signore che dall’accento e dal suo modo di vestire mi parve uno straniero. Ha lasciato il suo biglietto di visita; lo conosci?

Presi il cartoncino che mi porgeva e lessi questo nome: Harry Mac Doil.

– Harry Mac-Doil!… – esclamai, al colmo della sorpresa. – Chi sarà costui?…

– Non lo conosci? – chiese mia moglie.

Non risposi: interrogavo la mia memoria, sperando di aver udito ancora quel nome o di aver incontrato in qualche regione del globo l’uomo che lo portava, ma senza alcun risultato. Nemmeno nelle città marittime scozzesi che avevo visitato nella mia gioventù, lo avevo mai udito una sola volta e di questo era certissimo.

– No – le dissi poi. – Non lo conosco.

Mia moglie mi guardò, con una sorpresa che doveva essere eguale alla mia.

– Ma… allora, cosa vorrà quell’uomo? – chiese.

– Ritornerà? – domandai.

– Alle due sarà qui.

– Benissimo, – risposi, – sapremo presto chi sarà ed il motivo che conduce qui quello scozzese, poiché dal suo nome lo giudico tale.

– Hai appena il tempo di cambiarti: sono già le due meno pochi minuti.

Mi aveva già preparato un vestito che mi affrettai ad indossare, sapendo che gl’inglesi, d’ordinario, sono puntuali come cronometri. Intanto continuavo a torturarmi il cervello

facendo mille supposizioni bizzarre su quella visita inaspettata e su quel signor Mac-Doil, che dalle brumose regioni della Scozia, era venuto a scovarmi fra le montagne del Canavese. Quale motivo doveva averlo guidato in Italia?… Cosa sarebbe venuto a chiedermi od a raccontarmi?

Mi ero appena seduto dinanzi al mio tavolino da lavoro, guardando distrattamente una carta geografica della Scozia, quando udii tintinnare il campanello.

Immaginandomi che fosse lo sconosciuto, andai in persona ad aprire e mi trovai dinanzi ad un uomo di statura un po’ superiore alla media, vestito di quel grosso panno azzurro cupo che portano usualmente gli uomini di mare, con un berretto di panno uguale adorno di due nastri e simile per forma a quello usato dai soldati scozzesi, ed il braccio sinistro avvolto in uno sciallo frangiato, a grandi scacchi rossi e strisce nere incrociate.

– Il cavalier Salgari? – mi chiese bruscamente, storpiando le parole e massacrando il mio nome.

– Sono io – risposi, invitandolo ad entrare con un cenno della mano.

– Io sono Harry MacDoil.

M’inchinai senza nulla rispondere ed introdottolo nel mio stanzino da lavoro, lo pregai di accomodarsi.

Restammo alcuni istanti in silenzio, guardandoci reciprocamente e colla più viva curiosità. Quello straniero poteva avere sessantanni e fors’anche di più, ma teneva il busto diritto come un giovanotto. I suoi capelli erano perfettamente bianchi e così pure la sua barba che

era tagliata all’americana; la sua pelle era rossastra ma qua e là marezzata di macchie brune; il suo naso regolare, le sue labbra strette appena visibili e che mostravano una dentatura ancora solida; i suoi occhi poi, erano d’una tinta indefinibile, fra l’acciaio, il grigio e l’azzurro, vivissimi ed avevano non so quale lampo strano.

La corporatura dinotava che quell’uomo doveva essere stato d’una robustezza eccezionale:

spalle larghissime, petto ampio, membra grosse ed indubbiamente muscolose. Quando mi ebbe ben guardato, mi chiese a bruciapelo:

– Credete voi, cavaliere, che si possa andare al Polo Nord?

Lascio immaginare a voi quale fu la mia sorpresa a quella strana domanda. Attendevo che mi dicesse quale era lo scopo della sua visita, da dove veniva, chi era, come mi aveva trovato fra le montagne del Canavese ed invece mi chiedeva se era possibile andare al polo!…

Credo di essere rimasto qualche minuto in silenzio, prima di rispondere:

– Ma… forse!…

– Cosa ne dite, della spedizione organizzata dal signor Andrée?

– Penso che il signor Andrée ed i suoi due compagni, i signori Strindberg e Fraenkel hanno dato prova d’una audacia straordinaria, degna dell’ammirazione del mondo.

– Credete alla riuscita dell’impresa?…

– Hum!… Ecco: io mi sono molto interessato di quell’ardito tentativo e su qualche giornale, fino dall’anno scorso, ho sollevato dei dubbi sul buon esito di esso, in causa delle correnti aeree che specialmente nell’estate soffiano quasi costantemente dal nord al sud. Il ritorno dell’Andrée dallo Spitzberg dell’anno scorso, mi ha dato ragione; ma quest’anno ha potuto trovare, per combinazione, una corrente favorevole e come sapete è partito per le regioni polari l’11 luglio, a mezzogiorno.

– Sì, quattordici giorni or sono – mi rispose il signor Mac-Doil, ma come parlando fra se stesso.

Stette qualche istante pensieroso, poi continuò:

– Secondo voi, potrà giungere al polo?

– Ho i miei dubbi e temo molto che possa rivedere l’Europa.

– Pure Andrée ha dato sue notizie.

– è vero. L’equipaggio della barca da pesca Alken, navigante presso il capo Nord dello

Spitzberg, ha raccolto un piccione viaggiatore lanciato da Andrée il 13 luglio, a 15°5′ di

longitudine Est e 52°2′ di latitudine Nord, annunciante che tutto andava bene e che il pallone marciava verso il settentrione, ma poi più nulla.

– Ditemi, signore – esclamò ad un tratto il mio visitatore. – Avete mai udito raccontare che un uomo sia giunto al Polo Nord?…

-Mai.

– Voi avete pratica delle questioni polari e ho letto alcuni vostri lavori: Al polo Australe in velocipede, nel Paese dei ghiacci, i Pescatori di balene, e so che avete passata sul mare buona parte della vostra gioventù.

Guardai lo sconosciuto con uno stupore così vivo, che egli se ne accorse e sorrise.

– Scusate, – gli dissi, – voi siete?…

– Un isolano delle Ebridi.

– E venite?…

– Dalla riviera Ligure – mi rispose, sempre sorridendo.

– E chi vi ha indirizzato qui?…

– Uno dei vostri amici: il signor Spiotti.

– Ora comprendo. Siete stabilito in riviera?…

– Da alcuni mesi. Il clima delle Ebridi è freddissimo all’inverno e la mia salute se ne andava rapidamente. Sembro robusto, ma non lo sono più – disse Mac-Doil, con una certa amarezza.

Si arrestò per alcuni istanti, come si fosse immerso in profondi pensieri, poi vedendo che io tacevo, continuò con voce lenta, misurata.

– Terribili emozioni hanno guastate le mie fibre, che un tempo erano così solide. L’umidità dell’America Russa non è adatta per tutti ed i gelidi soffi del vento polare guastano le persone che non sono ben riparate; ed io, del freddo, ne ho preso troppo… Oh! Sì, troppo!… Sospirò a lungo passandosi una mano sulla fronte, poi guardandomi fisso fisso, come se volesse scrutarmi l’anima, mi chiese bruscamente e con una strana intonazione:

– Ditemi, credete voi che io sia pazzo?

A quella domanda inaspettata, confesso che rimasi di stucco, guardando con occhi attoniti lo straniero. Già da dieci minuti cadevo di sorpresa in sorpresa non sapendo ancora chi era quel signor Mac-Doil, né cosa desiderava da me e perché mi parlava così insistentemente del polo; quella interrogazione finiva per scombussolarmi.

Non risolvendomi a rispondere, ripetè con una certa ansietà:

– Ditemi, mi credete pazzo?…

– No – risposi.

Ed infatti quell’uomo poteva sembrarmi un originale, un eccentrico, ma non un pazzo, quantunque i suoi sguardi avessero, come dissi, qualche cosa di strano.

Egli respirò come gli si fosse levato un gran peso che gravitavagli sul petto e mormorò:

– Grazie.

Depose su di una sedia vicina lo sciallo che aveva sempre tenuto sul braccio, ìndi riprese:

– Dicono, che quando i marinai del Bomkolm mi raccolsero sul banco di ghiaccio, morente di fame, seminudo malgrado il freddo e che mi condussero alle Fàr-Oer, io ero pazzo. Può essere che le lunghe privazioni, gli orrori di quella immensa traversata in mezzo ai campi di ghiaccio del polo, avessero sconvolto il mio cervello, ma che la spedizione sia stata creata dalla mia pazzia no, non è vero!… Ho salvate miracolosamente le mie note di viaggio ed un documento del capitano Nikirka ed io ve lo porto, per provarvi che vi sono stati degli uomini

che hanno veduto quel polo, che ora le nazioni europee cercano di raggiungere colle navi e coi palloni.

La mia sorpresa si cangiava ormai in una vivissima curiosità ed avevo ascoltato avidamente quell’ebridano. Sentivo per istinto che stavo per apprendere qualche terribile istoria d’avventure; che stavo per afferrare il soggetto per un futuro lavoro ed avrei voluto che

Mac-Doil avesse continuato a parlare per un bel pezzo ancora, ma egli si era arrestato, come se volesse indovinare quale effetto avevano prodotto in me le sue ultime parole. Ed un profondo effetto, ve lo confesso, l’avevano prodotto su di me, udendo che egli mi recava delle note per provarmi che degli uomini erano riusciti a raggiungere il polo, quell’estremo punto della terra così tenacemente cercato

per oltre tre secoli da tutte le nazioni marinaresche dell’Europa e dell’America, e che ha già costato tante vittime umane.

– Degli uomini sono stati al polo!… – esclamai, con viva emozione. – Voi dite questo, signor

MacDoil?

– Sì – mi rispose egli.

– Ma chi?… Io.

Voi!…

– E vi reco le prove.

– E le date a me?

– Sì, perché voi potete scrivere un altro lavoro polare che desterà, lo spero, un vivo interesse e che forse spingerà altri audaci naviganti a ritentare la spedizione.

– Ma perché a me, invece che ai vostri compatrioti?

– Perché in Inghilterra mi tratterebbero da pazzo.

– Ma se dite che avete le prove di essere stato al polo? Mac-Doil alzò le spalle, poi disse:

– Preferisco voi ad altri: guardate.

Si era sbottonato la giacca e da un vecchio portafoglio aveva estratta una carta gialliccia, sulla quale stavano scritte alcune righe d’una calligrafia grossa, ma per me indecifrabile. Pure, dopo di averla guardata attentamente, rilevai qualche parola.

– è slavo ma… non tutto – dissi.

– È scritta in finlandese – mi rispose Mac-Doil. – Volete che ve la traduca?…

– Il finlandese è una lingua affatto nuova per me.

– Ascoltatemi:
«27 Luglio 1864.

«Se il mio battello il Taimyr, non dovesse più mai ritornare alla superficie e rimanere in eterno adagiato sulle sabbie dell’Oceano Polare, come ne ho il triste

presentimento, incarico Harry Mac-Doil ed il suo compagno Gustavo San

doé, cacciatori della Compagnia Russo-Americana, di recare in Europa la notizia della scoperta del polo, da me compiuta.

«Ing. OLAO NlKIRKA «89°20′ di lat. N. 24°9′ di long.»
M’alzai di scatto, impotente di frenarmi, esclamando:

– Voi siete stato al polo!…

Mac-Doil mi guardò, poi corrugando la fronte e facendo un gesto di sfiducia, disse con voce triste:

– Anche voi adunque, mi credete pazzo?

– No!… Non vi credo pazzo, ma vorrei chiedervi mille cose, mille spiegazioni… e giacché siete venuto qui, me le darete.

– Sono venuto per questo.

– Una domanda, innanzi a tutto.

– Parlate.

– Ma chi siete voi?…

– Ve lo dico subito, purché abbiate la pazienza di ascoltarmi.

– Un’altra domanda.

– Parlate pure.

– Non avete recata in Europa la notizia della grande scoperta?… In Russia ed in Inghilterra non avete narrato il grande avvenimento?

-Sì.

– E non vi hanno creduto?

– Peggio ancora, mi hanno riso sul viso e mi hanno trattato da pazzo.

– Ma il documento che voi possedete?…

– Non vollero leggerlo.

– Ma questo Olao Nikirka?… Non era conosciuto da alcuno, in Finlandia?…

– Sì, a Nistad sua città natale, dove ha ancora alcuni parenti, ma quando mi presentai a loro mi trattarono come un sognatore, dicendomi che il capitano Nikirka erasi annegato da parecchi anni, senza mai aver veduto un banco di ghiaccio. Seppi più tardi che il

disgraziato scopritore aveva lasciata una sostanza vistosa e che i parenti si erano affrettati a dividersi.

– Ma il governo russo?

– I funzionari del governo ai quali mi rivolsi mi trattarono come un allucinato. Comprenderete che io non godevo la fama d’un Nordensjòld, né d’un Andrée, né d’un Payer, né d’un Nansen, né d’un Nares, né d’un Leight Smith.

– è vero, – diss’io – e vi siete rivolto a me.

– Sì, ma per puro caso. Se non avessi conosciuto i vostri lavori polari, forse la grande scoperta sarebbe morta con me.

– Ed io vi ringrazio, signor Mac-Doil, che abbiate pensato a me.

– Scriverete questo nuovo lavoro? – mi chiese l’ebridano, mentre i suoi occhi s’illuminavano d’un vivo lampo.

– Sì, lo scriverò, ma bisogna che io sappia molte cose e cioè che mi raccontiate tutto ciò che è accaduto alla spedizione, volendo mantenermi, più che mi sarà possibile, nel campo del vero.

Mac-Doil frugò nella tasca interna della sua giacca ed estrasse un grosso fascio di carte, pure ingiallite e coperte di macchie d’umidità.

– Sono le note di viaggio, del signor Nikirka, scritte in lingua francese – mi

disse. – L’acqua, le nevi, il gelo le hanno un po’ guastate, ma sono ancora leggibili. Le esaminerete poi vi darò tutte le spiegazioni che desiderate.

– Grazie, signor Mac-Doil – risposi io, impossessandomi avidamente di quei preziosi documenti. – Ditemi ora, sono molti anni che abitate alle Ebridi?…

– Le avevo lasciate che ero molto giovane, per cercare fortuna nel Nuovo Mondo. Rimasi parecchi anni fra i cacciatori della Compagnia Russo-Americana dello stretto di Behering e non le rividi che nel 1865, ossia dopo il mio ritorno dalla spedizione polare. Le ho rilasciate cinque mesi or sono per cercare un clima più mite, poiché la mia robustezza se ne va rapidamente, e se il caso non mi avesse fatto incontrare il signor Spiotti, a quest’ora sarei

già ad Alessandria d’Egitto o al Cairo.

– Contate di ripartire presto?

– Questa sera per Torino, ma fra due giórni verrò a rivedervi e vi darò tutte le notizie che vi saranno necessarie.

Erano le quattro pomeridiane e fra pochi minuti il treno doveva partire. Vuotammo

una bottiglia, gli presentai mia moglie che si era introdotta furtivamente nel mio salotto da lavoro, poi ci lasciammo.

Vegliai l’intera notte leggendo e decifrando le note lasciatemi da MacDoil. Taluni foglietti erano stati guastati dall’umidità, ma colla pazienza riuscii a spiegarli, aiutato in questo lungo e faticoso lavoro da mia moglie.

Al mattino mi ero fatto un concetto quasi esatto delle straordinarie avventure toccate all’ebridano ed ai suoi compagni di viaggio ed avevo raccolto, con somma cura, tutte le preziose notizie intorno alla gelida regione polare.

Mi mancavano però dei dettagli che mi erano molto necessari e che non trovavo su quelle note scritte alla rinfusa, in mezzo a tremendi pericoli e molto concisamente, ma Mac-Doil doveva fornirmeli.

Attesi con impazienza, facile ad immaginarsi, il ritorno dell’ebridano, il quale mantenne fedelmente la parola.

Il 28 luglio ebbi con lui un lunghissimo colloquio che durò quasi un giorno intero, volendo conoscere i più minuti particolari.

– Ci rivedremo? – gli chiesi, prima di lasciarci.

– Attendo il vostro lavoro al Cairo, ma spero l’anno venturo di venirvi a ritrovare, se il male che lentamente mi rode mi lascerà in vita.

Ci salutammo, ma con una certa tristezza. Rivedrò ancora quell’uomo straordinario, l’unico sopravvivente che possa dire, con legittimo orgoglio, che ha posato i piedi sulle nevi immacolate del polo boreale, su quel punto estremo del globo che ha già costato alla scienza tante vittime e nelle cui acque che lo circondano finiscono di sfasciarsi le navi di tanti audaci esploratori dei due mondi?… Io lo dubito, ma in questo momento in cui il lavoro da lui ispiratomi viene lanciato al pubblico egli è ancora vivo al Cairo, quantunque la sua ultima

lettera mi faccia comprendere che ormai il suo male non gli lascia più alcuna speranza di rivedermi.
E. Salgari

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