Una caccia all’orso

Il banco che minacciava di chiudere il passo al Taimyr era il più grande che fino allora avevano incontrato i naviganti del battello, poiché doveva misurare una lunghezza di almeno venti miglia ed una larghezza di dodici o quattordici.

Doveva formare l’avanguardia degli ice-fields o campi senza limiti che si estendono al di là dell’80° parallelo e che sembra si spingano fino al polo, essendosi ormai perduta la speranza che lassù, sotto la stella polare, si estenda quel famoso mare libero ammesso da taluni naviganti e da taluni scienziati senza però averlo mai veduto.

Quel colosso pareva che sorreggesse una città rovinata da qualche tremendo cataclisma. Si vedevano ammassi di piramidi tronche o completamente diroccate, ammassi di rottami enormi, torri che parevano dovessero crollare al primo urto o alla prima stretta delle pressioni, arcate spezzate a metà, bastioni sfondati e cupole strane semirovesciate.

Sui suoi fianchi, enormi ice-bergs si erano già saldati e pareva che volessero, colle loro masse mostruose, difenderlo contro qualsiasi attacco o servire di baluardo contro qualsiasi urto.

Una luce accecante, che pareva impregnasse perfino l’aria sovrastante, s’alzava sopra il banco, facendo doppiamente risaltare la tinta azzurro-cupa del mare che lo circondava.

Il Taimyr, guidato da Orloff che si era collocato nella gabbia di prora, si era cacciato in un vasto canale aperto attraverso al colosso e che pareva dovesse prolungarsi per parecchie miglia.

Quell’immane squarciatura, prodotta forse dalle irresistibili pressioni dei ghiacci, non era però diritta, serpeggiando capricciosamente ed era ingombra di frammenti di hummoks e di streams, i quali tendevano ad unirsi per chiudere il passo, ma lo sperone del Taimyr non trovava alcuna difficoltà a spezzarli nuovamente.

Le rive del canale erano popolate solamente da volatili ed abbondavano soprattutto gli eider o edredon, uccelli preziosissimi ed assai ricercati da tutti i cacciatori norvegiani ed islandesi.

Questi volatili, che s’incontrano solamente nelle regioni nordiche molto fredde, somigliano alle nostre anitre; hanno il dorso, il ventre ed il collo bianco giallastro ed il capo adorno di splendide penne verdi a riflessi d’oro. Sono del pari acquatici, ma cibandosi di vermiciattoli e di pesci, la loro carne acquista un sapore non troppo delizioso pe’ nostri palati.

Nondimeno sono accanitamente perseguitati in tutte le regioni settentrionali,non già per ucciderli, ma per privare i loro nidi delle piume che i poveri volatili si strappano dal ventre per tenere calde le uova.

Quelle piume, che sono d’una morbidezza unica, d’una leggerezza ed elasticità straordinaria, formano un articolo di grande commercio, essendo adoperate per la fabbricazione dei guanciali e dei copripiedi di lusso.

Pagandosi carissime, tutti gli anni numerose bande di cacciatori vanno visitando le spiagge settentrionali della Norvegia, dell’Islanda e quelle della Groenlandia per fare la raccolta. Scoperti i nidi s’affrettano a saccheggiarli, cercando però di non guastare leuova, né di privarli completamente di quella calda piuma, poi tornano qualche tempo dopo per ripetere il ladrocinio, né smettono finché la povera femmina, priva ormai di tutte le penne del petto, non incarichi il compagno di riguarnire il nido. Essendo però le penne dei maschi più grossolane e meno pregiate, vengono finalmente lasciati in pace.

Non si creda tuttavia che sia cosa facile giungere a quei nidi, situati per lo più in mezzo a dirupi quasi impossibili a scalarsi; ogni anno parecchi cacciatori pagano la loro arditezza colla vita. Alcuni cacciatori preferiscono uccidere quei volatili, anziché tentare i rischi di quelle ascensioni e, cosa davvero strana, le penne conservano egualmente la loro elasticità e morbidezza, e perciò dagli esquimesi le piume degli eider vengono chiamate pelurie viventi. Mac-Doil e Sandoé che le credevano in buona fede anitre, avrebbero voluto sbarcare per prendere i preziosi volatili a fucilate, ma il Teymyr continuava ad inoltrarsi nel canale a grande velocità, senza accennare ad arrestarsi, come se l’ingegnere avesse fretta di trovarsi fuori da quel passo, il quale poteva restringersi sotto le pressioni che dovevano esercitare gli ice-bergs accumulati lungo i margini.

Forse non erano infondati i suoi timori, poiché il banco non sembrava calmo. Di tratto in tratto i due cacciatori, che si mantenevano sulla piattaforma non ostante il freddo fosse assai acuto, segnando già il termometro -14°, lo udivano crepitare e tuonare rumorosamente e vedevano crollare delle piramidi e delle guglie, o sfasciarsi qualche arcata o qualche bastione.

Talora invece franava un tratto delle sponde e si aprivano dei crepacci profondi, attraverso i quali schizzava subito fuori l’acqua del mare.

A mezzodì, quando l’ingegnere comparve sulla piattaforma per fare il punto, i due cacciatori scorsero parecchie foche che stavano coricate presso i loro buchi aperti nel campo di ghiaccio. Si voltavano e rivoltavano indolentemente scaldandosi al sole e non si muovevano scorgendo il battello, essendo assai pigre quando i raggi hanno un po’ di tepore. L’ingegnere, fatto il punto, s’era messo a guardarle con viva curiosità, in compagnia di Orloff il quale era pure salito.

– Ditemi, – chiese ad un tratto, volgendosi al secondo, – avete mai osservati i buchi che le foche si aprono attraverso i banchi?…

– Sì e più volte – rispose Orloff.

– E vero che li aprono soffregando il naso contro il ghiaccio?…

– è una diceria inesatta, signor Nikirka, poiché il naso delle foche non è caldo, tutt’altro e se anche lo fosse non so come farebbero a sciogliere del ghiaccio che ha uno spessore di cinque, otto, dieci metri e fors’anche di più.

– Allora come li aprono? Coi denti o colle pinne no di certo.

– Cominciano a farlo quando il ghiaccio è ancora debole, e mantengono il foro aperto passando e ripassando continuamente.

– È vero – disse MacDoil.

– Sono proprio necessari quei buchi alle foche?

– Sì, – rispose Orloff, – poiché le foche non possono rimanere a lungo senza respirare. Si calcola che la loro massima immersione non superi i quindici minuti.

– Allora fra due o tre minuti una di quelle foche cadrà fra le zampe del suo nemico.

– Cosa intendete di dire?…

– Guardate laggiù, presso quella guglia che si innalza a sei o settecento passi da

questa sponda; non vedete una massa biancastra coricata presso uno di quei buchi e che pare immobile?…

– è un orso bianco! – esclamò Mac-Doil, balzando in piedi.

– E che spia una foca – disse Sandoé.

– Sì – rispose l’ingegnere. – Signor Orloff, fate arrestare il battello ed andiamo a cacciare quel ghiottone.

Il Taimyr fu accostato al margine del grande banco ed i due comandanti, Sandoé e Mac- Doil armati di fucili e di coltellacci e Kalutunak munito d’una fiocina, salirono la sponda, celandosi dietro ai massi di ghiaccio.

L’orso, un vecchio maschio a giudicarlo dalla pelliccia che cominciava a diventare giallognola e di proporzioni gigantesche, misurando oltre due metri di lunghezza, era tanto occupato nello spiare la foca, da non accorgersi della vicinanza dei cacciatori, quantunque simili fiere abbiano un odorato fino ed una vista assai acuta.

Sdraiato sul ghiaccio, col muso sull’orlo del buco aperto dall’anfibio ed una zampa alzata per essere più pronto ad impadronirsi della preda, conservava una immobilità assoluta e si sarebbe potuto confonderlo per qualche hummok rovesciato.

I cinque uomini si misero a strisciare fra i massi di ghiaccio, l’un dietro l’altro, per giungere a buon tiro, e nel più profondo silenzio.

Erano già giunti a soli cento passi e si preparavano a dividersi per circondare il feroce carnivoro, quando lo videro abbassare bruscamente la zampa che teneva alzata, poi estrarre, con una fulminea scossa, una massa nerastra che si agitava nel buco.

Era una grossa foca kadolik, la quale si dibatteva disperatamente, mandando dei latrati acuti e facendo sforzi disperati per isfuggire agli artigli del suo nemico.

Il vecchio orso però non se la lasciava sfuggire e, cingendola colle zampe anteriori, cercava di soffocarla contro la villosa pelliccia e di spezzarle la colonna vertebrale con una poderosa stretta.

– Buono! – disse Mac-Doil. – Prenderemo l’uno e l’altra!

La fiera aveva udita la voce del cacciatore. S’alzò di scatto senza però abbandonare la povera foca che era già agonizzante, e lanciò intorno uno sguardo inquieto, facendo poi udire un sordo nitrito.

Quasi nel medesimo istante l’ingegnere ed Orloff scaricavano i loro fucili.

Colpito di certo, l’orso cadde, però subito si rialzò preparandosi a sostenere la lotta ed a difendere la propria preda.

Vedendo i cacciatori, parve che stimasse miglior partito a battere in ritirata e cominciò ad indietreggiare mostrando i lunghi denti ingialliti e mugolando; Kamo che aveva seguito il suo padrone, in quel momento gli piombò addosso, azzannandolo per di dietro.

– Bravo Kamo – urlò l’ebridano. – Tieni fermo un momento e te lo mando al diavolo. Il cacciatore era balzato innanzi ed aveva scaricato il fucile a soli quindici passi di distanza, ma, forse per la prima volta in vita sua, mancò il colpo.

Sandoè fu pronto a scaricare il proprio fucile, e nemmeno quella palla fu bastante per abbattere il carnivoro, anzi lo rese più furibondo.

Liberatosi del molosso con una scossa furiosa, piombò addosso all’ebridano con tale rapidità, da impedirgli di ricaricare l’arma.

– Fuggite!… – gridarono l’ingegnere ed Orloff.

– No, signori – rispose MacDoil.

Aveva abbandonato il fucile che non gli era più d’alcuna utilità ed aveva impugnato il coltello, ma Kalutunak in pochi slanci gli si era gettato dinanzi.

Il bravo e coraggioso esquimese, già abituato a lottare con simili animali, immerse nel petto dell’orso più di mezza fiocina, passandolo da parte a parte.

Dall’urto ricevuto fu atterrato, però ormai non correva più alcun pericolo, poiché l’animalaccio era pure caduto su di un fianco e stava spirando sotto i morsi del molosso.

– Per centomila orsi! – esclamò Mac-Doil, rialzando l’esquimese. – Hai la mano pronta, mio caro, e ricompenserò il tuo coraggio che mi ha forse salvato la pelle, preparandoti colle mie mani uno zampone arrostito come non ne hai mai assaggiato. Se sei sempre così lesto, noi ammazzeremo un bel numero di simili bestie, se continuiamo il viaggio.

– Non finirà così presto ed avrete tempo d’ammazzarne molti – disse l’ingegnere che li aveva raggiunti.

– Non mi rincresce andar lontano, signore – rispose l’ebridano.

– Sei ferito, Kalutunak?

– No, padrone – rispose l’esquimese.

– Aveva la pelle dura quest’orso – disse Orloff. – È vero che talvolta fuggono con parecchie palle nel corpo.

– A bordo – comandò l’ingegnere. – Vedo scendere della nebbia e non vorrei che ci sorprendesse in mezzo a questo banco.

L’esquimese, i due cacciatori e due marinai che erano accorsi trascinarono l’orso e la foca fino al margine del banco e li fecero cadere sulla piattaforma, poi ripresero frettolosamente il largo, mentre Mac-Doil si metteva a scuoiarli per regalare a Kalutunak lo zampone arrostito.

Il nebbione segnalato dall’ingegnere continuava intanto ad avanzarsi, avvolgendo i ghiacci ed il canale aperto fra il banco, il quale cominciava a restringersi come se accennasse a finire ingombrandosi di hummoks e di streams, costringendo in tal guisa il Taimyr a lavorare di sperone.

Anche la temperatura si abbassava bruscamente annunciando una burrasca di neve o la vicinanza di grandi campi. In meno di tre ore era scesa di -4°, segnando ora-18°.

Alle sei pomeridiane il nebbione aveva avvolto tutto il banco ed era diventato così denso, che Mac-Doil, dalla piattaforma, non riusciva a scorgere la prora del battello.

L’ingegnere, temendo che il Taimyr andasse ad urtare contro le sponde o contro qualche iceberg, causando lo sfasciarsi dei ghiacci, fece chiudere il boccaporto e comandò d’immergersi fino a cento metri, profondità sufficiente per attraversare il campo senza pericolo di toccarlo.

Essendo l’oscurità profonda anche a quella poca distanza dalla superficie, intercettando il nebbione la luce, fu accesa la lampada elettrica ed il battello guizzò sotto il banco proiettando dinanzi a sé il suo splendido fascio luminoso.

Tutta la notte navigò sotto i ghiacci tenendo la prora all’est, immergendosi talora a trecento metri per evitare le basi di alcune enormi montagne di ghiaccio; poi alle dieci del mattino risalì alla superficie per rifornirsi d’aria più respirabile.

Appena riaperto il boccaporto, i due cacciatori ed Orloff si erano affrettati a salire malgrado il freddo intenso che regnava all’aperto, ed essendosi alzato il nebbione, scorsero a meno di cinque o sei miglia un’alta costa dominata da una grande montagna coperta di neve, la cui vetta doveva innalzarsi oltre i mille metri.

– Una terra? – chiesero i due cacciatori.

– Sì – rispose l’ingegnere che li aveva raggiunti. – Siamo dinanzi alla Groenlandia.

– Allora troveremo degli uomini.

L’ingegnere ed Orloff non risposero. Avevano puntato i loro cannocchiali verso la costa e la osservavano con vivo interesse.

– Vedete quella casetta che sembra costruita di tavole imbiancate, situata su quel promontorio? – chiese Nikirka.

– Sì, – rispose Orloff, – e vedo più oltre una diecina di casupole.

– Che stazione credete che sia?… Mi sembra impossibile trovare una borgata ad una latitudine così alta.

– Dall’alta montagna che sorge dietro la costa, io credo che ci troviamo dinanzi al fiord di

Aukpadlartok, il quale si trova nella baia di Melville che ora abbiamo attraversata.

– Allora quella borgatella sarebbe Kresarsoak.

– Sì, signor Nikirka, l’ultima stazione dei possedimenti danesi della Groenlandia.

– Siete sbarcato mai laggiù?

– Sì, una volta e scommetterei che il governatore è ancora Filippo.

– Chi è questo Filippo?

– Il più famoso cacciatore della Groenlandia,1 un bell’uomo biondo, di origine danese e che è venuto qui per fare fortuna, conducendo seco sua moglie ed i suoi sette figli. Ho cacciato un giorno l’orso bianco in compagnia di Cristiano, il suo primogenito.

– Vi sono molti esquimesi?

– Una quarantina fra uomini, donne e ragazzi, barbari affatto e che vivono di pesca e di caccia.

– Una ben brutta dimora, sotto questo clima.

– Lo credo, signore. Sono gli abitanti più prossimi al polo non distando che ottocentosessanta miglia.

– Se io fossi uno di loro fuggirei altrettante miglia più al sud – disse MacDoil.

– Qui l’inverno deve durare almeno nove mesi.

– Eppure si trovano contenti, poiché se non lo fossero, nessuno impedirebbe loro di rifugiarsi ad Upernawick o a Discko – disse l’ingegnere. – Orsù, riprendiamo la corsa.

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