Una corsa sotto il mare

Lo scompartimento destinato a salotto da pranzo, era situato verso poppa, al di sotto della gabbia della luce elettrica che serviva di giorno, quando il battello navigava a fior d’acqua od a poca profondità, da lucernario.

Era una bella e comoda cabina di sei metri quadrati, colle pareti foderate di legno, il pavimento coperto d’un fitto tappeto di grosso feltro ed ammobiliata con perfetta eleganza. Vi erano all’intorno degli scaffali di mogano di stile dello scorso secolo, coi vetri dipinti; dei soffici divani che in caso di necessità potevano trasformarsi in letti; delle poltroncine di velluto rosso e nel mezzo una tavola già imbandita e sopra la quale era stata fissata una lampadina elettrica.

Non mancava una stufa, oggetto indispensabile per chi affronta i rigori delle regioni polari, fornita d’un tubo assai ricurvo per ritardare la dispersione del.calore, ma che doveva certamente usarsi solo allorquando il battello navigava alla superficie, essendo la temperatura dell’acqua, ad una profondità anche lieve, abbastanza dolce per fare a meno di fuoco.

Il comandante si era già seduto e pareva che aspettasse solamente il suo secondo ed i due cacciatori per assalire le vivande.

– Avete terminata la vostra visita? – chiese, vedendoli entrare.

– Sì signore, – rispose Mac-Doil, – e devo dirvi che sono ancora stupito di

quanto ho veduto e che lo sarò per molto tempo ancora. Il vostro battello è una meraviglia.

– Ne ho piacere, – rispose l’ingegnere, – ma la vostra sorpresa crescerà, quando vedrete il mio Taimyr manovrare sotto le onde.

– Lo credo, signore – rispose Sandoé.

– Accomodatevi e mangiate liberamente. Avete dormito trentadue ore senza interruzione e dovete essere affamati.

– Infatti signore, mi sembra che il mio stomaco sia perfettamente vuoto – disse MacDoil. La colazione, contro l’aspettativa dei due cacciatori, era copiosa, segno evidente che il proprietario del battello amava la buona tavola.

Si componeva di acciughe, tonno, merluzzi freschi che parevano pescati di recente, d’un appetitoso pezzo di delfino giovane arrostito e che fu trovato delicato quanto la carne di vitello, d’una zuppa di pemmican mista a verdura conservata, di kaviale di Russia e di eccellente vino attinto da una botte di dimensioni non comuni, nascosta in un angolo del salotto, sotto una tenda.

Terminato il pasto, servito da un marinaio, un pezzo di giovanotto biondo che doveva essere robusto quanto un giovane toro, il comandante offrì ai due cacciatori delle pipe e del tabacco, poi, dopo d’aver dato uno sguardo ad una bussola sospesa all’angolo d’uno

scaffale, disse:

– Ci prepariamo a scendere. Fumando, potrete contemplare, senza incomodarvi, delle scene che molti desiderebbero vedere.

S’accostò ad un tubo di bronzo che doveva comunicare colla sala delle macchine, gridando:

– A cento metri!…

– Fulmini!… – borbottò Sandoé, diventando pallido.

– Ti senti tremare le gambe? – gli chiese l’ebridano.

– Lo confesso, MacDoil.

– Ed anch’io non mi sento del tutto tranquillo, ma ho fiducia in questo battello e nei suoi comandanti.

Quasi nel medesimo istante, udirono sopra la loro testa un fragore simile a quello che produce una enorme lastra di metallo trascinata su di una via lastricata.

— Cos’è? – chiese Sandoè, rabbrividendo.

— Il boccaporto che viene chiuso – rispose Orloff.

Pochi istanti dopo udirono verso prora e verso poppa degli acuti gorgoglìi e sui fianchi del battello dei cupi ronzìi.

— È l’acqua che entra nei serbatoi mentre le eliche verticali si mettono in azione

– disse il secondo, prevenendo la domanda dei due cacciatori.

Il Taimyr cominciava allora ad immergersi lentamente, con un rollìo marcato, mentre la luce che scendeva dalla gabbia del fanale elettrico a poco a poco scemava, diventando verdastra dapprima, poi azzurrognola un po’ opaca, ma non tanto da impedire di scorgere distintamente tutti i mobili anche i più piccoli e gli oggetti racchiusi nel salotto.

Mac-Doil e Sandoé, aggrappati alla tavola, un po’ pallidi e con un certo batticuore, guardavano l’ingegnere il quale teneva gli sguardi fissi sul dinamometro, la cui lancetta si spostava lentamente di metro in metro a misura che il battello scendeva. Pareva che entrambi fossero vivamente impressionati e che una inquietudine acuta li avesse presi, pensando che stavano inabissandosi sotto le onde del mare.

Ad un tratto il rollìo del battello cessò ed il ronzìo delle eliche laterali non si fece più udire, ma si udirono tosto gli stantuffi delle eliche di poppa funzionare con grande rapidità.

— Cento metri – disse l’ingegnere.

Orloff s’appressò alla parete di tribordo prima, poi a quella di babordo, fece scorrere due grosse piastre d’acciaio e tosto una luce un po’ tetra, quasi opaca, ma che aveva talora dei riflessi strani, quasi madreperlacei, si diffuse nel salotto.

— Guardate il mare – disse il secondo, spingendo innanzi i due cacciatori.

Aveva scoperte due delle grandi lenti che erano incastrate nei fianchi del battello ed attraverso a quei grossi vetri appariva il mare, d’una tinta azzurro-cupa perfettamente visibile, brillando sopra di esso, in tutto il suo splendore, l’astro diurno i cui raggi si riflettevano ancora, quantunque molto sbiaditi, anche a quella ragguardevole profondità.

Mac-Doil e Sandoé, spinti dalla più viva curiosità, si erano precipitati verso la lente di babordo, appoggiando gli occhi al vetro.

L’acqua del mare pareva che fuggisse dinanzi a loro in rapide ondulazioni che tosto si dileguavano, cangiando di tratto in tratto tinta. Ora appariva striata di verde smeraldo, ora di azzurro cupo. Talora invece un gran fiotto di spuma biancastra passava rapida dinanzi al vetro, provocato dall’acuto sperone del battello e si perdeva tosto verso poppa.

– Il mare!… – esclamò ad un tratto Mac-Doil, rompendo il silenzio che regnava nel salotto.

– E noi ci troviamo cento metri sotto la superficie!… Per centornila foche!… Ma come ci si vede a simile profondità?…

– Credevate forse che a cento metri vi fosse notte perfetta? – chiese Orloff.

– Ci si vede molto più giù, mio caro cacciatore.

– Avevo udito raccontare da persone che si dicevano istruitissime, che sotto le onde non ci si vedeva oltre i trenta o quaranta metri.

– Oh!… Vi sono tanti scienziati che ancora lo credono – disse l’ingegnere. – Si ammette anche oggidì che i raggi solari non possano oltrepassare una profondità relativamente breve.

«Vi mostrerò, fra qualche giorno, come anche a seicento metri di profondità vi sia ancora abbastanza luce per poterci scorgere e senza bisogno di accendere le nostre lampade elettriche.

«È strana che simile credenza perduri ancora, mentre i naviganti hanno avuto delle prove palpabili che in fondo all’oceano vivono degli esseri muniti d’occhi, come i pesci che nuotano alla superficie. Forse che la natura li avrebbe forniti di quegli organi per puro capriccio?… E non hanno pensato, gli scienziati, che quegli organi, non adoperandoli si sarebbero in breve atrofizzati ed avrebbero finito collo sparire?…»

– È vero, signor Nikirka, – disse Orloff, – ma si basavano su di un fatto.

– E quale?

– Che fra gli esseri pescati a grande profondità, ne avevano trovati alcuni privi d’occhi.

– Privi d’occhi?… Erano ben certi che lo fossero, innanzi a tutto?… Forse perché non scorgevano quei punti faccettati e colorati di nero che si trovano nei crostacei pescati in fondo al mare?…

«Se avessero meglio osservati quei pretesi esseri ciechi, avrebbero di certo trovati i loro occhi o qualche organo simile nascosti sotto la pelle e sensibili alla luce. «Anche le talpe hanno gli occhi così ben celati da non poterli vedere, ma pure li posseggono; anche i vermi adoperati per la pesca sembrano privi d’occhi, ma si è osservato che accostando quegli insetti ad un lume, lo fuggivano più rapidamente che potevano; dunque sanno distinguere la luce per mezzo di qualche organo sensibile che funziona come gli occhi.»

– Credete che ci si veda anche a mille o duemila metri di profondità? – chiese

Mac-Doil, che ascoltava attentamente i due comandanti.

– Fino a mille sì, ma più oltre regna quasi una perfetta oscurità – rispose l’ingegnere.

– Può però essere oscurità pei nostri occhi, ma forse essere una specie di crepuscolo per quelli degli abitanti sottomarini.

– Dei pesci! – gridò in quell’istante Sandoé. – Guarda, Mac-Doil, guarda quanti!… L’ebridano s’era precipitato verso il vetro.

Il battello, che filava con una velocità di quindici a sedici nodi all’ora, aveva fatto l’incontro d’un branco di merluzzi diretti verso il sud.

Quei pesci voracissimi, disturbati nella loro caccia dalla improvvisa comparsa

del gigantesco fuso e spaventati dalle eliche che mordevano l’acqua, si sbandavano in tutte le direzioni, taluni però pazzi di terrore, venivano a cozzare contro il vetro, credendolo forse un passaggio libero.

Mostravano per un istante i loro corpi svelti, i loro musi grossi ed ottusi forniti inferiormente di barbagli carnosi di forma conica e le loro scagliette scintillanti, verdi­

giallastre sopra a striature oscure e bianco-argentee sotto, poi sparivano con fantastica rapidità o immergendosi o salendo precipitosamente verso la superficie.

Ben presto però il battello ebbe superata quella grossa banda, la quale si dirigeva forse verso qualche seno della costa americana, e si ritrovò fra le acque libere, navigando verso lo stretto di Behering.

Di tratto in tratto tuttavia altri pesci si vedevano apparire un istante presso il vetro, attirati forse dalla curiosità di riconoscere da vicino quel mostro di nuova specie, ma erano radi, essendo quei mari freddi scarsi di abitanti.

Qualche volta erano dei gruppi di meduse in forma di ombrelli più o meno grandi forniti inferiormente di tentacoli, naviganti fra due acque e di tinte delicate che variavano dal biancastro trasparente all’azzurro pallidissimo; o qualche coppia di delfini delle specie dei neomeris melos, lunghi poco più d’un metro, col muso corto, la testa sferoidale, il corpo privo di pinna dorsale e la pelle nerastra; o dei banchi di cefalopodi mastrephes che s’incontrano in gran numero nei mari settentrionali della Cina e del Giappone e vengono accanitamente

ricercati, facendosene in quei paesi un consumo enorme; o delle festolarie d’una bella tinta rosso-bruna vivace e qualche isitus fulgido, pesce lungo appena trenta centimetri che di sera lancia una luce verdognola di bellissimo effetto.

Anche una foca apparve per alcuni istanti fra i fiotti di spuma sollevati dalla prora, e che subito s’immerse, dopo d’aver lanciato uno sguardo spaventato attraverso il vetro dello sportello.

Era uno di quegli anfibi che gli abitanti nordici chiamano kassigiah ed anche tupaia, lungo un metro, colla testa ovale, il muso corto, gli occhi grandi, oscuri,intelligentissimi, le labbra adorne di baffi setolosi rigidissimi ed il pelame grigio-giallognolo, con macchie irregolari bruno-scure.

Mac-Doil e Sandoè, sempre più stupiti, non perdevano di vista uno solo di quegli abitanti del mare di Behering e prorompevano in grida d’ammirazione, che ben presto si tramutarono in grida di sorpresa, quando il battello piombò nel bel mezzo d’una vera truppa di lontre marine.

Erano almeno una trentina, le une più belle delle altre, bruno-nere alcune, bruno-grigie le altre, che nuotavano in mezzo ad un banco di alghe dove cercavano certamente il loro cibo. Scomparvero subito risalendo precipitosamente alla superficie; i due cacciatori però avevano avuto il tempo di scorgerle ed istintivamente avevano fatto una mossa come se cercassero i loro fucili.

– Per centomila trichechi! – esclamò Mac-Doil. – Che splendida banda!… Ecco sette od ottomila dollari perduti!…

– O che andranno a finire nelle tasche degli altri – aggiunse Sandoé.

– Mi sorprende l’incontro d’un numero così grosso di lontre – disse l’ingegnere.

– Si dice che non vivano in gruppi.

– È vero signori, – disse Mac-Doil, – tuttavia ne indovino il motivo. Forse alla superficie si fa una grande battuta dagli abitanti delle coste.

– In quale modo?…

– Con battelli.

– Forse che si prendono colle fiocine?

– No, signor Nikirka. Quando si sa dove le lontre si radunano per pascolare fra le alghe, vari battelli circondano quel luogo e gettano delle reti lunghe sei metri, colle maglie molto larghe, poi a poco a poco stringono il cerchio.

«Le lontre, spaventate, si riuniscono finché cadono nelle reti senza nemmeno cercare di passarvi per di sotto, manovra che non le salverebbe di certo però, essendovi sulle barche dei valenti cacciatori. Per lo più queste pesche s’intraprendono quando il mare e burrascosissimo. Le lontre allora, disturbate dalle onde, cercano rifugio nei bassifondi e

presso gli scogli e si vanno a snidarle colà e sovente molte barche vengono inghiottite dalle acque assieme ai cacciatori.»
– Ecco un avvertimento che viene a tempo – disse l’ingegnere.

– Perché, signore?

– Perché se i cacciatori pescano, significa che noi siamo sopra un bassofondo. Le alghe me lo avevano già fatto sospettare, quantunque talvolta questi vegetali marini abbiano delle lunghezze straordinarie.

S’accostò al tubo di bronzo, gridando:

– A fior d’acqua!…

Poi volgendosi verso i due cacciatori:

– Badate all’inclinazione, voi.

Un istante dopo si udirono come dei fischi repressi, prodotti senza dubbio dalle pompe che cacciavano fuori, a gran forza, l’acqua racchiusa nei serbatoi di prora e di poppa ed il Taimyr s’innalzò rapidamente, spostando il suo asse verso l’alto.

S’udì un sordo muggito che pareva prodotto dal ricadere della parte proviera del fuso che per la prima era emersa e la luce tornò a farsi limpida nel salotto, scendendo dalla gabbia del fanale elettrico.

– Siamo a galla – disse l’ingegnere. – Se volete respirare una boccata d’aria vivificante, potete salire sulla piattaforma.

– Seguitemi – disse Orloff.

Il boccaporto era stato subito riaperto ed i due cacciatori, seguiti dal secondo, si erano affrettati a salire.

Il battello navigava a fior d’acqua, solo emergendo la piattaforma e le due gabbie,

in una delle quali, attraverso le grosse lenti, si scorgeva il timoniere ritto dinanzi alla ruota. Il mare era tranquillo ed il sole, che declinava verso le lontane coste dell’Asia, illuminandolo di traverso, lo tingeva di riflessi che talora avevano dei bagliori sanguigni. Verso l’est, un’alta costa si disegnava sull’orizzonte, frastagliata capricciosamente da profonde insenature; verso il sud dei punti neri, appena visibili, parevano immobili ed indicavano un gruppo di barche, forse delle boómkie occupate a cacciare le lontre poco prima scorte dai due cacciatori; verso il nord e l’ovest non si vedeva invece alcuna terra. Solamente ad una grande distanza apparivano a intervalli dei punti biancastri, forse le vele di qualche nave baleniera in rotta per lo stretto di Behering.

In alto invece, pochi uccelli volteggianti attorno al battello: erano alcune coppie di sterne, di sule, di ardee bianche e di rondoni marini, volatili comunissimi in quel mare e che s’incontrano anche ad una grande distanza dalle coste.

– Dove siamo? – chiese Mac-Doil ad Orloff, il quale aveva appuntato un cannocchiale verso la costa.

– Dinanzi alla baia di Norton – rispose questi.

– Lontani dallo stretto di Behering?…

– Ben poco, Mac-Doil. Domani navigheremo nell’Oceano Artico.

– E poi?…

– Saliremo al nord.

– E scenderemo ancora sotto le onde?…

– Ci trovate gusto?…

– Ora sì, signor Orloff.

– E non avete più timore?… No.

– Ne faremo fin troppe delle immersioni e Dio ci guardi che non ci siano fatali.

– Cosa volete dire, signor Orloff?

Il secondo non rispose, ma sorrise misteriosamente, crollando il capo a più riprese.

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