La liberazione di Surama

Sandokan si trovò in una splendida stanza da letto, di stile greco-orientale, adorna di ricchissimi divani di seta bianca, ricamati in oro, di tappeti turchi e persiani e di ampie tende di seta azzurra cadenti dinanzi alle finestre. Solo il letto, massiccio, con intarsi di madreperla e che si trovava proprio nel mezzo, ed alcuni mobili leggeri, erano di provenienza indiana.

Surama, vedendo entrare Sandokan, gli si slanciò contro trattenendo, come abbiamo detto, a mala pena un grido. Il maggiordomo del favorito le aveva fatto indossare un’ampia sari di seta rosea, con un grand’orlo azzurro, che faceva doppiamente risaltare la bruna bellezza della giovane assamese.

– Chiudi bene la porta, – le disse subito Sandokan sotto-voce. – Nessuno deve sorprendermi nella tua stanza.

– Ma come tu, signore, sei qui?

– Taci ora: la porta. –

Surama abbassò i due ganci, assicurandola solidamente.

– Nessuno potrà ora entrare senza il mio permesso – disse tornando verso Sandokan. – Ed ora parla signore: Yanez?

– Non inquietarti per lui, Surama, – rispose Sandokan invitandola a sedersi sul divano, che si trovava più vicino al corridoio che conduceva nel suo bugigattolo. – Pel momento non corre alcun pericolo e credo che non abbia mai goduto tanta salute come ora.

– E Tremal-Naik?

– In questo momento sta cenando di certo e senza troppe apprensioni.

– Ma tu…

– Aspetta un po’: sappi che sono qui in qualità di ospite e non già di prigioniero. Ora rispondimi a quanto ti chiederò.

Innanzi a tutto verrà nessuno a disturbarci?

– Per ora no. Abbiamo un paio d’ore di libertà.

– Non mi occorre tanto tempo. Ti hanno usato dei maltrattamenti?

– No, signore, tutt’altro.

– Ti hanno interrogata?

– Non ancora, tuttavia vi è nel mio cervello un ricordo confuso.

– Quale?

– Posso aver sognato.

– Spiegami codesto sogno, Surama – disse Sandokan.

– Mi sembra d’aver veduto degli uomini intorno al mio letto e di aver udito degli strani discorsi e poi mi sembra che mi abbiano dato da bere qualche cosa, come un liquore fortissimo e molto amaro. Qualche cosa di vero può essere avvenuto poiché quando mi sono svegliata, in questo letto, avevo il cervello offuscato e le membra mi tremavano come se avessi bevuto del bâng.

– Cos’è?

– Una mistura d’oppio. –

La fronte di Sandokan si corrugò.

– Sei ben certa, Surama, che non sia stato un sogno?

– Non te lo saprei dire con piena sicurezza, – rispose la bella assamese. – Quel tremito però non mi parve naturale.

– Ecco dove sta il pericolo. Voi indiani possedete delle droghe misteriose che esaltano le persone e che le costringono a parlare. Tremal-Naik m’ha parlato un giorno d’una certa youma.

– Non devono aver adoperata quella pianta, perché produce una febbre intensissima, che dura parecchie ore. No, se è vero che mi hanno dato da bere qualche cosa, deve trattarsi d’altro.

– Pensa bene, fanciulla, perché se tu hai parlato puoi aver compromesso non solo me e te, bensì anche Yanez.

– E se, come t’ho detto, fosse stato un sogno?

– Il tuo cervello, se fosse stato un sogno, non sarebbe rimasto offuscato.

– Anche questo è vero.

– Se vi fosse qualche mezzo per poter sapere quello che hai detto! – mormorò Sandokan. – Chissà, forse Tremal-Naik può trovarlo; egli conosce molti narcotici.

– Io sono pronta a bere tutto quello che vorrai, Sandokan.

– Di questa faccenda ci occuperemo più tardi.

– E tu come hai saputo che io ero stata rapita? – chiese Surama.

– Ho preso quel cane di fakiro e l’ho costretto a confessare. È il favorito del rajah che t’ha fatta rapire, probabilmente per vendicarsi di quel colpo di scimitarra. Anche questo è affare che poco interessa pel momento. È un giuoco che io gli restituirò questa notte istessa.

Tutto è ormai pronto per la tua evasione. Dove mettono le tue finestre?

– Sulla varanga del secondo piano.

– Hai paura ad affidarti a una fune ben solida?

– Io sono pronta a fare tutto quello che vorrai.

– Si dorme presto in questa casa?

– Alle undici tutti i lumi sono spenti, – rispose Surama.

– A mezzanotte sii pronta. Dorme nessuna serva qui?

– So che ve ne sono due nella camera attigua.

– Vengono da te prima di coricarsi?

– Sì, per accompagnarmi a letto.

– Hai qualche bottiglia di liquore da offrire loro?

– Anche del vino europeo: il chitmudgar non mi lascia mancare nulla. –

Sandokan si frugò nella fascia ed estrasse una scatola di metallo contenente parecchi tubetti a vari colori. Ne prese uno, lo esaminò attentamente, poi lo porse a Surama dicendole:

– La polvere che sta qui dentro, la scioglierai in una bottiglia, o di liquore o di vino, e poi offrirai a ciascuna delle due donne un bicchierino di quella mistura, non di più.

Il narcotico è potente e assorbito in dose superiore, potrebbe far dormire per sempre chi lo prende.

Ora un’altra domanda e poi ti lascerò sola.

– Parla signore, – disse Surama nascondendosi in seno il tubetto.

– Credi tu che i montanari di tuo padre si siano scordati di te?

– Se mi presentassi a loro e dicessi che io sono Surama, la piccola figlia del famoso guerriero, sono più che certa che prenderebbero le armi per aiutare te e Yanez in questa difficile impresa.

Pensi tu forse di condurmi fra di loro?

– Ciò può essere necessario per metterti al sicuro, – rispose la Tigre della Malesia. – Un elefante quanto potrebbe impiegare per giungere fra quelle montagne?

– Non più di cinque giorni.

– Ne so abbastanza. Addio, Surama, e sii pronta per la mezzanotte. –

Strinse la mano alla futura principessa dell’Assam e tornò in punta di piedi nella sua stanzetta.

– Tutto va a gonfie vele, – mormorò. – Se non sopravverranno degli incidenti, domani noi saremo nella jungla di Benar e perfettamente al sicuro.

Poi vedremo che cosa ci converrà fare. –

Si sdraiò sul suo lettuccio mettendo su uno sgabello una bottiglia di arak, accese la pipa ed attese tranquillamente che giungesse il momento di agire e che il giovane sudra si presentasse.

La mezzanotte non era lontana, quando un leggero colpo battuto alla porta lo fece scendere dal letto.

– Deve essere lui, – mormorò. – Ecco un bravo ragazzo che farà una discreta fortuna. –

Aprì senza far rumore e si vide dinanzi il servo del maggiordomo.

– Dunque – gli chiese Sandokan.

– Dormono tutti.

– Sono tutti spenti i lumi?

– Sì, sahib.

– Hai veduto nessuno a passeggiare sulla piazza?

– Un gruppo d’uomini.

– Sono i miei amici. Prendi la fune.

– È qui, sahib.

– Seguimi e non aver paura. Da questo momento tu sei ai miei servigi.

– Grazie, padrone. –

Sandokan aprì la porta che metteva nel corridoio e bussò replicatamente a quella della stanza di Surama che fu subito aperta.

La giovane assamese aveva abbassato il lucignolo della lampada per far credere che dormiva e si era gettata sulla testa una larga fascia di seta, che la nascondeva quasi tutta.

– Eccomi, signore – disse a Sandokan. – Sono pronta a scendere.

– Le tue serve?

– Dormono profondamente.

– Hanno bevuto il narcotico?

– Da più di un’ora.

– Prima di domani sera non si sveglieranno, – disse Sandokan. – Siamo quindi sicuri di non essere disturbati da parte loro. –

Aprì una finestra e passò sulla varanga accostandosi silenziosamente al parapetto.

Quantunque l’oscurità fosse fitta, scorse subito alcune ombre umane sfilare silenziosamente dinanzi al palazzo del favorito.

– Devono essere Tremal-Naik, Kammamuri e i miei malesi, – mormorò. – Speriamo che tutto vada bene. –

Svolse la corda, legò un capo ad una colonna di legno della varanga e gettò l’altro nel vuoto, mandando nel medesimo tempo un leggero sibilo che imitava perfettamente quello del terribilissimo cobra-capello.

Un segnale identico rispose poco dopo.

– È lui – disse Sandokan. – All’opera! –

Tornò verso la finestra, prese fra le sue braccia Surama e s’avviò verso la fune dicendo al sudra:

– Scendi pel primo tu.

– Sì, padrone.

– E fa’ presto. –

Il giovanotto varcò il parapetto e scomparve.

– Tu incrocia le tue mani attorno al mio collo, – disse poscia Sandokan alla bella assamese, – e dammi la tua fascia di seta, onde ti leghi a me.

– Non sarebbe necessario, – rispose la principessa. – Le mie braccia sono robuste.

– Non si sa mai quello che può accadere. –

Prese la sciarpa, strinse Surama contro il proprio dorso, poi a sua volta montò sul parapetto, non senza essersi prima cacciato fra i denti il kriss malese.

– Stringi forte, – disse. – Non mi strangolerai colle tue piccole mani. –

Afferrò la corda e si mise a scendere. Vecchio marinaio, non si trovava certo imbarazzato a compiere quella manovra, tanto più che possedeva una muscolatura da sfidare l’acciaio.

In pochi istanti raggiunse la veranda inferiore. Disgraziatamente urtò coi piedi contro l’orlo della leggera tettoia che la copriva, facendo cadere un pezzo di grondaia.

Una sola imprecazione gli sfuggì suo malgrado. Quel pezzo di latta o di zinco che fosse, nel precipitare sulle pietre della piazza, produsse molto rumore. Sandokan puntò i piedi contro il riparo e si lasciò scivolare verticalmente, senza badare se si scorticava o no le mani.

Non distava dal suolo che pochi metri quando dalla varanga udì una voce a urlare:

– All’armi! La prigioniera fugge! –

Poi rintronò un colpo di pistola.

La palla fortunatamente non aveva colpito né Sandokan, né Surama.

Uomini, servi e guardie, si erano precipitati sulla varanga urlando a squarciagola:

– Ferma! Ferma! –

Due, avendo trovata la fune stesa dinanzi alla galleria, vi si aggrapparono lasciandosi scorrere fino a terra, ma già Sandokan che reggeva sempre Surama, si trovava al sicuro fra i suoi fedeli malesi.

Tremal-Naik vedendo poi quei due venire avanti con dei tarwar in mano, armò rapidamente le due pistole che aveva nella fascia e scaricò uno dietro l’altro, senza troppa fretta, quattro colpi che li fece cadere l’uno sull’altro.

– Via! – gridò Sandokan dopo aver sciolto il piccolo sari che legava Surama, e d’aver presa questa fra le braccia. – Al palazzo!-

La porta del bengalow del favorito, si era aperta e dieci o dodici uomini muniti d’armi da fuoco e da taglio e ancora semi-nudi, si erano scagliati dietro ai fuggiaschi, urlando senza posa:

– All’armi! All’armi! –

Sandokan correva come un cervo, fiancheggiato da Tremal-Naik e da Kammamuri e protetto alle spalle dai malesi.

La caccia era cominciata furiosa, implacabile; ma quantunque gli indù godano generalmente la fama di essere corridori instancabili, avevano trovato nei loro avversari dei campioni degni dei loro garretti.

Di quando in quando qualche colpo di fuoco echeggiava, facendo accorrere alle finestre gli abitanti delle vicine case. Ora veniva sparato dagli inseguitori ed ora dai fuggiaschi, senza gravi perdite né da una parte né dall’altra non potendo, in quella corsa disordinata, prendere la mira.

Nondimeno una viva inquietudine cominciava a tormentare Sandokan. Quelle grida e quegli spari facevano accorrere ad ogni istante altre persone ed il drappello dei servi del greco s’ingrossava rapidamente.

Sarebbero riusciti a salvarsi nel palazzo senza essere stati scorti? Lo stesso pensiero doveva essere sorto anche nel cervello di Tremal-Naik, poiché senza cessare di correre, chiese a Sandokan:

– Non verremo noi assediati?

– Prima di voltare l’angolo dell’ultima via, faremo una scarica. È assolutamente necessario che non ci vedano entrare nel palazzo.

Forza alle gambe! Cerchiamo di distanziarli. –

Avevano percorso sette od otto vie, senza incontrare fortunatamente nessuna guardia notturna. Con uno sforzo supremo raggiunsero l’angolo del palazzo vantaggiando a un tempo di duecento e più passi.

– Fate fronte! – gridò Sandokan ai malesi. – Caricate! Fuoco di bordata prima! –

Le terribili tigri di Mompracem, niente spaventate di trovarsi di fronte a cinquanta o sessanta avversari, puntarono le carabine facendo una scarica, poi estratte le scimitarre caricarono furiosamente con urla selvagge.

Vedendo cadere parecchi dei loro, gl’indù volsero le spalle senza aspettare l’attacco impetuoso, irresistibile, dei malesi.

– Kammamuri, fa’ aprire la porta del palazzo prima che quei furfanti ritornino!

– È già aperta, signore! – gridò Bindar.

– A me, malesi! –

I pirati che si erano slanciati dietro ai fuggiaschi ululando come bestie feroci, si ripiegarono di corsa e si gettarono dentro l’ampio peristilio del palazzo di Surama, chiudendo e barricando precipitosamente la porta.

– Spero che nessuno ci abbia veduti, – disse Sandokan deponendo a terra Surama e aspirando poscia una lunga sorsata d’aria.

– Grazie, Sandokan, – disse la giovane. – A te ed al sahib bianco devo ormai troppe volte la mia vita.

– Lascia queste cose e andiamo a vedere che cosa succede. Intanto fa’ armare tutta la tua gente.

Temo che vi sarà battaglia questa notte. –

Salì la gradinata insieme con Tremal-Naik e con Kammamuri e si affacciò ad una finestra del secondo piano.

– Saccaroa! – esclamò. – Ci hanno ritrovati! Qui corriamo il pericolo di venire presi! Ah! Per Maometto, preparerò loro un bel tiro, prima che giungano i soldati del rajah!

– Che cosa vuoi fare? – chiese Tremal-Naik.

– Surama! – gridò invece Sandokan.

La giovane assamese saliva in quel momento la scala.

– Che cosa desideri signore? – chiese avvicinandosi rapidamente.

– La tua casa è isolata mi pare.

– Sì.

– Che cosa vi è di dietro?

– Una piccola pagoda.

– Isolata anche quella?

– No, si appoggia ad un gruppo di palazzi e di bengalow.

– È larga la via che divide la tua casa dalla pagoda?

– Una diecina di metri.

– Fa’ portare subito delle funi, tutte quelle che puoi trovare. Ci raggiungerai sul tetto.

Bindar! –

L’indiano che era sulla varanga vicina fu pronto ad accorrere.

– Eccomi, padrone – disse.

– Da’ ordine ai miei malesi ed ai servi di tenere in iscacco gli assalitori per alcuni minuti. Che non facciano economia di polvere né di palle. Va’ e comanda il fuoco.

E ora, Tremal-Naik, vieni con me e con Kammamuri. –

Salirono una seconda gradinata raggiungendo l’ultimo piano e trovato un abbaino, passarono sul tetto che era quasi piatto, non avendo che due leggere inclinazioni.

– Non mi aspettavo tanta fortuna, – mormorò Sandokan. – Andiamo a vedere quella via e quella pagoda. –

Mentre s’avanzavano carponi, dinanzi al palazzo echeggiavano clamori assordanti. Gli assedianti dovevano essere cresciuti di numero a giudicarlo dal fracasso che facevano.

Il fuoco però non era ancora cominciato né da una parte né dall’altra. Bindar non aveva forse giudicato prudente cominciare pel primo le ostilità, per non irritare maggiormente gli avversari.

Sandokan ed i suoi due compagni in pochi momenti attraversarono il tetto, raggiungendo il margine opposto.

Una via larga, nove o dieci metri, separava il palazzo da una vecchia pagoda di modeste proporzioni, la quale era sormontata da una specie di terrazzo, irto di antenne di ferro che sorreggevano dei piccoli elefanti dorati che funzionavano forse da mostraventi.

– È alta quanto questa casa, – disse Sandokan.

– Che cosa vuoi tentare? – chiese Tremal-Naik.

– Di passare su quel terrazzo, – rispose la Tigre della Malesia.

Il bengalese lo guardò con spavento.

– Chi potrà saltare attraverso questa via?

– Tutti.

– Ma come?

– Tu sai ancora adoperare il laccio?

Un vecchio thug non dimentica facilmente il suo mestiere.

– Non ti capisco.

– Non si tratta che di gettare una buona corda al di sopra d’una di quelle antenne e di formare poi un ponte volante con un paio di gomene.

– Ah! Padrone, lascia fare a me allora, – disse Kammamuri. – Sono stato un anno prigioniero dei thugs di Rajmangal e ho appreso a servirmi del laccio a meraviglia.

Non sarà che un semplice giuoco.

– E poi dove scapperemo noi? – chiese Tremal-Naik.

– Vi sono delle case dietro la pagoda che attraverseremo facilmente, passando sui tetti. In qualche luogo scenderemo.

– E non ci daranno la caccia?

– Io eleverò fra noi e gli assedianti una tale barriera da togliere loro ogni idea d’inseguirci.

– Tu sei un uomo meraviglioso, Sandokan.

– Non sono stato forse un pirata? – rispose la Tigre della Malesia. – Nella mia lunga carriera ne ho provate delle avventure e ne ho… –

Una scarica di carabine gli tagliò la frase. I malesi ed i servi del palazzo avevano aperto il fuoco, per impedire agli assedianti di abbattere la porta e d’invadere le stanze del pianterreno.

– Se la resistenza dura dieci minuti noi siamo salvi, – disse Sandokan.

Si volse udendo delle tegole a muoversi, Surama s’avanzava con precauzione andando carponi sul tetto, accompagnata da due servi e da un malese, che portavano corde di seta, strappate probabilmente dai tendaggi, e grosse corde di canape tolte dalle varanghe.

– Chi è che ha aperto il fuoco? – chiese Sandokan aiutando la brava ragazza ad alzarsi.

– I tuoi uomini.

– Vi sono dei seikki fra gli assalitori?

– Una dozzina e avevano subito attaccata la porta.

– Kammamuri scegliti la corda e bada che sia solida perché tu dovrai passare su quella.

– Lascia fare a me, padrone; – rispose il maharatto.

Si gettò sulle funi che erano state deposte dinanzi a lui e prese un cordone di seta, lungo una quindicina di metri e grosso come un dito, osservandolo attentamente in tutta la sua lunghezza.

– Ecco quello che fa per me, – disse poi. – Può sorreggere anche due uomini. –

Fece rapidamente un nodo scorsoio, si spinse verso il margine del tetto, lo fece volteggiare tre o quattro volte intorno alla propria testa come fanno i gauchos della pampa argentina e lo lanciò.

La corda ben aperta alla sua estremità, in causa di quel rapido movimento rotatorio, cadde su una delle aste di ferro e vi scivolò dentro.

– Ecco fatto, – disse Kammamuri volgendosi verso Sandokan. – Tenete forte il cordone.

– Guarda prima se vi è gente nella via.

– Non mi pare, padrone. D’altronde l’oscurità è fitta e nessuno ci vedrà. –

Sandokan e Tremal-Naik si gettarono sulle tegole afferrando strettamente il cordone, subito imitati dai due servi e dal malese.

– Coraggio amico, – disse il pirata.

– Ne ho da vendere, – rispose il maharatto sorridendo. – E poi non soffro le vertigini. –

Si appese al cordone, incrociandovi sopra, per maggior precauzione, le gambe e s’avanzò audacemente al di sopra della via, senza nemmeno pensare che poteva da un istante all’altro cadere da un’altezza di diciotto o venti metri e sfracellarsi sul lastricato.

Sandokan e Tremal-Naik seguivano con viva emozione e non senza rabbrividire quella traversata, dal cui buon esito dipendeva la salvezza di tutti.

Vi fu un momento terribile, quando il coraggioso maharatto giunse a metà della distanza che divideva il palazzo dalla pagoda. Il cordone quantunque tirato a tutta forza dai cinque uomini, aveva descritto un arco accentuatissimo, crepitando sinistramente sotto il peso non indifferente di Kammamuri.

– Fermati un istante! – gridò precipitosamente Sandokan.

Il maharatto che doveva pure aver udito quel crepitìo che poteva annunciare una imminente rottura, ubbidì subito.

Fortunatamente la corda non aveva ceduto, né aveva dato alcun altro suono. A quanto pareva, i fili di seta si erano solamente allungati senza spezzarsi.

– Vuoi provare? – chiese finalmente Sandokan.

– Aspettavo il tuo ordine, – rispose Kammamuri con voce perfettamente calma.

– Va’, amico, – disse Tremal-Naik.

Il maharatto riprese la sua marcia aerea, procedendo però con precauzione e giunse ben presto sul terrazzo della pagoda, mandando un gran sospiro di soddisfazione.

– Le funi, padrone! – gridò subito.

Sandokan aveva già scelto le più grosse e le più solide. Le annodò facilmente. Le due funi, annodate l’una sopra l’altra, all’altezza d’un metro e mezzo e assicurate a due aste di ferro, potevano permettere il passaggio senza correre troppi pericoli.

– Tremal-Naik, – disse Sandokan; – occupati di far passare le persone. Surama hai paura?

– No, signore.

– Passa per la prima.

– E tu? – chiese Tremal-Naik.

– Vado a coprire la ritirata e preparare la barriera che impedirà agli assedianti di darci la caccia. –

Riattraversò il tetto e ridiscese negli appartamenti.

La battaglia fra gli indù, i malesi ed i servi del palazzo infuriava, facendo accorrere da tutte le vicine vie nuovi combattenti.

I malesi nascosti dietro i parapetti delle varanghe che avevano coperti con materassi, cuscini e pagliericci, sparavano furiosamente facendo indietreggiare, ad ogni scarica, gli assalitori e mandandone molti a terra morti o feriti.

La folla però, che era pure armata di ottime carabine e di pistole, rispondeva non meno vigorosamente e anche dalle case fronteggianti il palazzo di Surama si sparava contro la varanga, mettendo in serio pericolo i difensori.

Sandokan si era precipitato fra i suoi uomini, gridando:

– Riparate subito sul tetto! Fra pochi minuti il palazzo sarà in fiamme! Prima le donne ed i servi, ultimi voi per coprire la ritirata. –

Ciò detto strappò una torcia che illuminava la varanga e diede fuoco alle stuoie di coccottiero, quindi si slanciò attraverso le splendide stanze che formavano l’appartamento riservato di Surama, incendiando i cortinaggi di seta delle finestre, le coperte dei letti, i tappeti, i leggeri mobili laccati.

– Ci diano la caccia ora, – disse quando vide le fiamme avvampare e le stanze riempirsi di fumo. – Cinquantamila rupie non valgono un dito di Surama. –

Ritornò sulla varanga inseguito dalle colonne di fumo per accertarsi che non vi era più nessuno.

Indiani e malesi, dopo d’aver fatta un’ultima scarica, erano precipitosamente fuggiti; e le stuoie, le colonne di legno e persino il pavimento, avvampavano con rapidità prodigiosa lanciando intorno bagliori sinistri.

– Questo palazzo brucerà come un pezzo d’esca, – mormorò Sandokan. – È tempo di metterci in salvo. –

Raggiunse l’abbaino e balzò sul tetto. La ritirata era cominciata in buon ordine; uomini e donne attraversavano rapidamente il ponte volante reggendosi sulle due funi, mentre i malesi, curvi sui margini del tetto, consumavano le loro ultime munizioni e scagliavano nella via, sulle teste degli assedianti, ammassi di tegole.

Sul terrazzo della pagoda le persone si accumulavano, prendendo subito la via dei tetti, sotto la guida di Tremal-Naik, di Kammamuri e di Bindar.

Quando Sandokan vide finalmente il ponte volante libero, vi fece passare i malesi, poi troncò con un colpo di coltello le due funi che erano state legate attorno al comignolo d’un camino, onde gli assedianti, nel caso che la casa non bruciasse interamente, non potessero accorgersi da qual parte gli assediati fossero fuggiti.

– Ora un esercizio da buon marinaio, – mormorò Sandokan.

Prima di eseguirlo lanciò intorno un rapido sguardo. Dagli abbaini uscivano nuvoli di fumo e getti di scintille e nella sottostante via si udivano i clamori feroci della folla.

– Entrate e dateci la caccia, – mormorò il pirata con un sorriso ironico.

Afferrò una delle due funi, si spinse fino sull’orlo del tetto e senz’altro si slanciò andando a battere i piedi contro il cornicione della pagoda che sorreggeva il terrazzo.

Nessun altro uomo, che non avesse posseduta l’agilità e la forza straordinaria di Sandokan, avrebbe potuto tentare una simile volata senza fracassarsi per lo meno le gambe.

Il pirata però che doveva possedere una muscolatura d’acciaio, non provò che un po’ di stordimento, prodotto dal violentissimo contraccolpo.

Stette un momento fermo per rimettersi un po’, quindi cominciò a issarsi a forza di pugno finché raggiunse il terrazzo.

Sui tetti delle vicine case i servi e le donne fuggivano rapidamente, fiancheggiati dai malesi. Surama camminava alla testa, sorretta da Tremal-Naik e da Kammamuri.

Sandokan, pur camminando con una certa precauzione, in pochi istanti li raggiunse.

– Finalmente! – esclamò il bengalese, – cominciava a diventare inquieto non vedendoti comparire.

– Io ho l’abitudine di giungere sempre, – rispose la Tigre della Malesia.

– Ed il mio palazzo? – chiese Surama.

– Brucia allegramente.

– È un patrimonio che se ne va in fumo.

– E che la Tigre della Malesia pagherà – rispose Sandokan alzando le spalle.

– Ci inseguono? – chiese Tremal-Naik.

– Attraverso le fiamme? Si provino a mettere i loro piedi entro quella fornace.

Io già non ti seguirei di certo.

– Ma dove finiremo noi?

– Aspetta che troviamo una via che c’impedisca di andare più innanzi, amico Tremal-Naik.

Ho già fatto il mio piano.

– E quando la Tigre della Malesia ne ha uno nel cervello, si può essere certi che riuscirà pienamente, – aggiunse Kammamuri.

– Può darsi, – rispose Sandokan. – Non fate troppo rumore e non guastate troppe tegole. In questo momento non potrei risarcire i danneggiati. –

La ritirata si affrettava sempre in buon ordine, passando da un terrazzo all’altro. Gli uomini aiutavano sempre le donne a scavalcare i parapetti, che talvolta erano così alti da costringere i malesi a formare delle piramidi umane, per meglio favorire le scalate.

Verso il palazzo si udivano sempre urla e spari e si scorgevano le prime lingue di fuoco sfuggire attraverso gli abbaini.

Nelle case di fronte e di dietro, di quando in quando, partivano delle grida altissime:

– Al fuoco! Al fuoco! –

I fuggiaschi che temevano di essere sorpresi, si affrettavano. Se le fiamme s’alzavano, qualcuno poteva scorgerli e dare l’allarme, e questo, Sandokan assolutamente non lo desiderava.

– Presto! presto! – diceva.

Ad un tratto gli uomini che si trovavano all’avanguardia, si ripiegarono verso il terrazzo che avevano appena allora superato.

– Che cosa c’è? – chiese Sandokan.

– Non si può più andare innanzi, – disse Bindar che guidava quel drappello. – Abbiamo una via dinanzi e tanto larga che non la potremo sorpassare.

– Vedi nessun abbaino?

– Ce ne sono due sotto il terrazzo.

– Di che cosa ti lagni dunque amico, quando abbiamo delle scale per scendere nella via? Fa’ sfondare quegli abbaini e andiamo a fare una visita agli abitanti di questa casa. Sarà troppo mattutina, ma la colpa non è nostra. –

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