La scomparsa di Surama

Erano trascorsi solamente quattro giorni dal duello fra Yanez e Teotokris, quando un pomeriggio, nell’ora in cui gli indiani, dopo la solita dormita, lasciano le loro stanze per recarsi a respirare una boccata d’aria sulle terrazze, si presentava al palazzo di Surama un bruttissimo individuo dinanzi al quale però tutti s’inchinavano come se fosse stato un altissimo personaggio od un essere più venerato ancora dei sacerdoti bramini.

Si trattava d’un fakiro appartenente alla rispettabilissima classe dei gussain, ossia dei mendicanti religiosi d’una setta tantrica.

Il suo aspetto era ben lungi dall’ispirare una qualche simpatia, anzi nemmeno un po’ di compassione. Un europeo sarebbe certamente scappato nauseato.

Il suo viso era cinto da una barba lunghissima, incolta e che terminava in una specie di pizzo arricciato come la coda d’un maiale che gli scendeva fino ai piedi.

Sulle gote e sulla fronte aveva strani tatuaggi rossi, figuranti come tanti minuscoli tridenti ed i suoi capelli erano riuniti sul cranio in modo da formare come una mitra.

Il corpo, spaventosamente scarno, era quasi interamente nudo, non avendo che una striscia di stoffa giallastra attorno ai fianchi. Aveva però sul petto e sulle cosce un gran numero di macchie grigiastre fatte certamente con sterco di vaccina bruciato.

Quello che lo rendeva però più spaventoso era il braccio destro, completamente anchilosato ed incartapecorito, che ormai non poteva più piegarsi e che stringeva fra la mano ben chiusa entro una guaina di cuoio una pianticella di mirto sacro.

Quantunque l’aspetto di quel disgraziato fosse spaventevole, anzi addirittura ripugnante, come abbiamo detto, tutti s’inchinavano sul suo passaggio e s’affrettavano a fargli largo.

Nell’India un fakiro, a qualunque setta appartenga, è sempre venerato. Da noi desterebbe solamente un po’ d’ammirazione per la sua forza d’animo di rimanere per interi anni con un braccio sempre alzato finché l’articolazione si atrofizzi e immerso in una contemplazione stupida, che nessuna emozione anche profondissima può trarre, come nessun pericolo.

Può bruciare una pagoda, anche una città, ma il fakiro non farà un passo per evitare le fiamme se è assorto nella sua contemplazione. D’altronde che cosa rappresenta la morte per quei fanatici? La fine delle loro pene e i godimenti supremi del cailasson, ossia del paradiso indiano.

I due servi che vegliavano dinanzi al portone del palazzo, masticando del betel per ingannare meglio il tempo, vedendo il fakiro salire i quattro gradini si erano affrettati a muovergli incontro, chiedendogli premurosamente che cosa desiderasse.

– Io so, – disse il fakiro, – che una persona ha gettato su questa casa una cattiva occhiata e vengo a proporre alla tua padrona di toglierla onde non le tocchi qualche grave disgrazia. –

I due servi si erano guardati l’un l’altro con spavento, poiché gli indiani temono immensamente gli effetti del mal occhio.

– Ne sei ben sicuro gussain? – chiese uno dei due servi.

– Io stavo seduto poco fa sui gradini di quella pagoda, quando vidi un vecchio fermarsi a poca distanza di qui e fare dei segni misteriosi.

Te lo dico io: ha lanciato il mal occhio contro questo palazzo e anche contro tutti coloro che lo abitano e tu sai quali conseguenze fatali può produrre.

– Non sai chi è quel vecchio?

– Prima d’ora non l’ho mai veduto – rispose il fakiro. – Deve essere però un nemico della tua padrona.

– Attendimi un istante gussain. –

Il servo si allontanò velocemente, mentre l’altro teneva compagnia al fakiro il quale si era intanto seduto sull’ultimo gradino, tenendo sempre alto il suo orribile braccio anchilosato e disseccato. Qualche minuto dopo il primo servo ritornava con un viso sgomentato dicendo:

– Entra subito gussain e giacché hai il potere togli subito alla mia padrona ed a noi l’occhiata scagliata da quel vecchio.

– Sono pronto, – rispose il fakiro.

– Allora entra. –

Il gussain entrò nel palazzo a passi lenti, salendo lo scalone che conduceva negli appartamenti di Surama.

La principessa lo aspettava sul pianerottolo. Indiana anch’ella, aveva paura della terribile occhiata.

– Signora, – disse il fakiro, – la tua casa è stata maledetta, ma io ho il potere di distruggere il mal occhio.

– Ed io saprò ricompensarti, – rispose la giovane indiana.

– Hai un bacino?

– Sì.

– Io ho la tinta rossa. Fammelo portare. –

Surama fece un cenno ad una delle sue serve e tosto un bacino d’argento fu portato.

– Dammi anche un pezzo di tela – disse il fakiro.

Surama si levò la fascia di finissimo percallo a righe bianche e azzurre che le serrava i fianchi e gliela porse.

– Dell’acqua ora, – disse il fakiro.

Una serva portò una bottiglia di cristallo rosso, racchiusa fino a metà da una incrostazione di lapislazzuli.

Il fakiro empì il bacino, vi versò dentro una polvere rossastra, poi servendosi della mano sinistra, lo fece passare per tre volte dinanzi al viso di Surama; servi e serve si erano aggruppati dietro alla padrona.

Solo i quattro malesi che Yanez aveva messo a disposizione di Surama onde vegliassero su di lei, non subirono quella strana cerimonia, essendosi probabilmente accorto che non erano indiani, cosa d’altronde facilissima data la tinta olivastro-oscuro della loro pelle.

Ciò fatto il fakiro prese la fascia di Surama coi denti e la lacerò in due pezzi, gettando con forza l’uno a destra e l’altro a sinistra.

– È fatto, – disse a Surama. – Tu signora sei liberata dall’occhiata di quel sinistro vecchio e non correrai più alcun pericolo.

– Che cosa vuoi pel tuo disturbo? – chiese la giovane.

– Che mi lasci un po’ riposare, – rispose il fakiro. – Sono molte notti che non dormo e che non mi nutrisco. Che cosa ne farei io del denaro? Ad un fakiro bastano un banano e qualche crosta di pane.

– Riposati dunque, – disse Surama. – Qui vi sono dei divani dove starai meglio che sui gradini della pagoda.

Quando uscirai dalla mia casa avrai un regalo. Intanto che cosa posso offrirti?

– Fammi portare una tazza di toddy signora. È molto tempo che non ne bevo.

– Sarai subito servito. Uscite tutti e lasciatelo dormire. –

Si ritirarono ed il fakiro si stese su un tappeto, cogli occhi volti verso il soffitto come se l’estasi l’avesse sorpreso.

Un momento dopo entrava un servo portando su un vassoio d’argento un fiasco pieno di quel dolce e leggermente inebriante vino che gli indiani chiamano toddy e che somiglia al nostro vino bianco ed una tazza.

– Prendi e bevi finché vuoi, gussain – gli disse, deponendo il vassoio a terra. – E prendi anche questa borsa che contiene dieci rupie.

– Che saranno tue se rispondi ad una mia domanda, – rispose il fakiro.

– Che cosa vuoi sapere, gussain?

– La stanza della tua padrona dove si trova?

– È accanto a questa.

– A destra o a sinistra?

– A sinistra, – rispose il servo. – E perché mi hai fatto questa domanda?

– Per indirizzare a lei le mie preghiere, – rispose il fakiro gravemente.

Il servo uscì. Il fakiro stette alcuni minuti immobile, poi si alzò senza far rumore e trasse di sotto al gonnellino che gli cingeva i fianchi una fiala di leggerissimo cristallo, fatta in forma d’una bolla di sapone, che conteneva nel suo interno un mazzolino di fiori azzurri che rassomigliavano alle violette.

– Queste carma-joga produrranno il loro effetto, – mormorò. – Chi può resistere al profumo che esalano questi piccoli fiori? S’addormenterà di colpo, così potranno portarla via senza che mandi nemmeno un lamento. –

S’avanzò cautamente verso la porta che si trovava a sinistra, ascoltò attentamente per alcuni istanti trattenendo il respiro, poi fece girare la maniglia senza produrre il menomo rumore e fece un passo innanzi.

La stanza di Surama era tutta adorna di seta bianca, ricamata in oro e argento. In mezzo stava il letto, completamente isolato, coperto da un immenso drappo ricamato splendidamente, collocato sotto la punka.

– Nessuno, – mormorò il fakiro. – È Siva o Brahma che mi proteggono? L’uomo bianco sarà contento! –

S’avvicinò ad un piccolo mobile di ebano, intarsiato di madreperla e coperto da un tappeto che cadeva fino al suolo, spezzò il recipiente di vetro e vi gettò sotto il mazzolino.

– Dormirai anche se non avrai sonno, – disse poi, con un sorriso ironico.

Uscì indietreggiando, rinchiuse la porta e tornò a sdraiarsi sul tappeto come un uomo immensamente stanco.

Il sole era tramontato da qualche ora, quando il servo di Surama entrò chiedendogli:

– Gussain vuoi cenare? La mia padrona ti offre da mangiare.

– Lasciami dormire – rispose il fakiro, socchiudendo gli occhi. – Sono molto stanco.

La tua padrona mi permette?

– Un sant’uomo è padrone di dormire come e dove crede. Riposa in pace e che Brahma, Siva e Visnù veglino su di te, – rispose il servo. – La casa è tua! –

Il fakiro fece col capo un leggero movimento e rinchiuse gli occhi.

Dormiva realmente? Era un po’ difficile a saperlo.

La notte era scura. Tutti si erano coricati nel palazzo: la padrona, i malesi, i servi e le serve.

Un uomo solo vegliava come una tigre in agguato: il fakiro.

Doveva essere quasi la mezzanotte quando un sibilo acuto tagliò l’aria.

Il fakiro udendolo, si era prontamente alzato.

– Dorme, – mormorò.

Colla mano sinistra aprì la finestra e gettò sulla via tenebrosa un rapido sguardo. Delle ombre umane stavano ferree in mezzo alla strada.

Strinse le labbra e lasciò fuggire un debolissimo sibilo, che si poteva scambiare con quello del velenosissimo cobra-capello.

Un segnale eguale subito rispose.

– Sono pronti, – mormorò; – allora tutto va bene. –

Si affacciò alla finestra e lanciò un secondo sibilo. Subito dopo un colpo secco si fece udire contro una delle due imposte.

Il fakiro allungò la sinistra e afferrò una fune che era attaccata ad una freccia molto lunga, che si era profondamente infissa nel legno.

– Che demonio è quell’uomo bianco! – brontolò. – Mantiene le promesse e pagherà anche a me le cento rupie che mi ha promesso.

Aspettate un momento e l’affare sarà finito senza che nessuno se ne accorga. –

S’appressò alla porta, ascoltò ancora, poi risolutamente aprì.

La lampada che rischiarava la stanza di Surama, brillava ancora, spandendo al di sotto una luce leggermente azzurrognola. Le serve avevano abbassato il lucignolo in modo che la luce fosse debolissima.

Surama dormiva profondamente. Solo la sua respirazione era un po’ affannosa come se qualche cosa le gravitasse sul cuore.

Il fakiro contemplò per alcuni istanti il viso bellissimo e roseo della giovane indiana, poi fece un gesto di dispetto.

– Maledetto sia il giorno che io ho disseccato il mio braccio – disse. – Vile mestiere è quello del fakiro!… Ah! –

Tornò rapidamente nel salotto, assicurò la fune ad un gancio delle imposte e mandò due sibili.

Un istante dopo un uomo scavalcava il davanzale, tenendo stretto fra le labbra uno di quei terribili coltelli indiani chiamati tarwar.

– Che cosa vuoi gussain? – gli chiese, balzando agilmente nella stanza.

– Che mi aiuti – rispose il fakiro. – Io non posso usare che un solo braccio.

– Vuoi che uccida?

– No: il padrone non vuole. Nessun delitto per ora. Aiutami a portare via la fanciulla.

– Guidami. –

Il fakiro rientrò nella stanza di Surama e gliela indicò dicendogli:

– Fa’ presto: i fiori della carma-joga addormentano. –

L’indiano strappò dal letto la coperta di seta bianca, levò con un gesto brusco le lenzuola, avvolse Surama che pareva colpita da una specie di catalessi e lasciò subito la stanza borbottando:

– Maledetti fiori! Un momento ancora e m’addormentavo anch’io!… –

Afferrò Surama fra le braccia secche nervose, scavalcò il davanzale, s’aggrappò con una mano sola alla fune e si lasciò scivolare giù.

Il fakiro quantunque avesse la destra anchilosata e stringesse sempre nella destra il ramoscello di mirto sacro, l’aveva subito seguìto.

Dieci uomini armati di lunghe carabine e di scimitarre li aspettavano in mezzo alla via.

– È fatto il colpo? – chiese uno.

– Sì.

– In marcia allora.

– Ed io? – chiese il fakiro.

– Seguici. –

Un palanchino sorretto da quattro hamali era pronto. Surama sempre avvolta nella coperta di seta bianca vi fu adagiata, le cortine furono abbassate, poi il drappello si mise rapidamente in marcia preceduto da due mussalchi che portavano delle torce accese.

Nel palazzo nessuno si era accorto di quell’audace rapimento compiuto nel colmo della notte e nel più profondo silenzio.

I rapitori percorsero diverse vie oscure e deserte, poi si arrestarono dinanzi a un vasto caseggiato che rassomigliava nella costruzione a quei comodi e graziosi bengalow che si fabbricano gli inglesi che si stabiliscono nell’India.

La porta era aperta e la gradinata illuminata da una grossa lampada.

Un chitmudgar, accompagnato da quattro servi, aspettava il drappello.

– Fatto? – chiese.

– Sì, – rispose il fakiro. – Il tuo padrone sarà contento. –

Il chitmudgar sollevò una tenda del palanchino e gettò su Surama, sempre addormentata, un rapido sguardo.

– Sì, – disse poi. – È la principessa misteriosa. –

Fece un segno ai servi. Questi presero il palanchino, l’alzarono e salirono frettolosamente la scala.

– Potete andare, – disse allora il maggiordomo rivolgendosi alla scorta, – e anche tu gussain. È meglio che non ti si veda in questa casa.

Eccovi cento rupie che il mio padrone vi regala. Buona notte. –

Chiuse la porta e raggiunse i servi i quali avevano deposto il palanchino in una bellissima e ampia stanza, il cui centro era occupato da un letto incrostato di laminelle d’argento e di madreperla con ricchissima coperta di seta azzurra a ricami gialli.

Il chitmudgar prese fra le robuste braccia la bella indiana che pareva morta, svolse la coperta di seta bianca e la mise a letto, coprendola per bene.

– Portate via il palanchino ora – disse ai servi.

Erano appena usciti quando un uomo entrò: era uno dei ministri del rajah.

– Eccola signore – disse il maggiordomo, inchinandosi profondamente. – Le guardie del favorito hanno agito rapidamente e senza allarmare gli abitanti del palazzo. –

Il ministro sollevò la coperta e guardò Surama.

– È bellissima, – disse. – Il grande cacciatore è di buon gusto.

– Devo svegliarla signore?

– Che cosa ha adoperato il fakiro per addormentarla?

– Gli ho dato tre fiorellini di carma-joga.

– Ah! – fece il ministro.

– Ne coltivo molti nel giardino.

– Come potremo farla parlare?

– Ho previsto tutto, signore.

– Colla youma?

– Ho qualche cosa di meglio – rispose il maggiordomo con un’ sottile sorriso. – Fino da ieri ho preparato una infusione di bâng1 e di benafuli2.

– Non s’addormenterà di più invece?

– No, signore: la renderà furibonda e parlerà. Il benafuli modera l’azione dell’oppio.

– Che si possa tentare la prova?

– Quando tu vorrai, signore.

– Tu mi assicuri che la principessa non soffrirà.

– Rispondo io pienamente.

– Agisci allora. –

Il chitmudgar prese da una mensola una fiala di cristallo che conteneva un liquido giallastro, un piccolo coltello d’argento e s’avvicinò a Surama.

– Bada di non farle male, – disse il ministro. – Noi non sappiamo ancora chi sia, ed il rajah desidera che si usi la più grande prudenza.

– Non temere, signore – rispose il maggiordomo.

Aprì le labbra di Surama, introdusse leggermente, con somma precauzione, la punta del coltello fra gli splendidi dentini che erano strettamente chiusi, poi facendo un piccolo sforzo li aprì.

Subito un lungo sospiro sfuggì alla fanciulla; però gli occhi rimasero chiusi.

Il chitmudgar prese la fiala e versò parecchie gocce nella gola della bella dormente.

– Dieci – contò. – Bastano. –

Aveva appena terminato di parlare, quando un fremito scosse il corpo di Surama. Pareva che fosse stata toccata da una scarica elettrica.

– Si sveglia, signore – disse il chitmudgar. – Fra poco tu saprai tutto quello che vorrai. –

Un secondo fremito, più intenso del primo, aveva fatto sussultare la giovane indiana.

– Odi come respira più libera, signore? – disse il maggiordomo che non staccava gli sguardi da Surama – È segno che il suo sonno sta per finire. –

D’un tratto Surama s’alzò di colpo a sedere, aprendo gli occhi. Il suo viso, sotto l’influenza di quella strana pozione somministratale dal chitmudgar era alterato e le sue pupille apparivano straordinariamente dilatate.

Si guardò intorno con vivo stupore, fermando poi lo sguardo sui due uomini che le stavano presso, muti ed immobili.

– Dove sono io? – chiese. – Questa non è la mia stanza! –

Parve però che quel lampo di lucidità subito si spegnesse, poiché si portò una mano alla fronte, come se cercasse di risvegliare dei lontani ricordi.

– Yanez! Mio sahib bianco! – esclamò dopo alcuni istanti. – Perché non ti vedo presso di me? Il rajah ha sempre bisogno di te?

– Yanez! – mormorò il ministro, guardando il chitmudgar. – Chi sarà?

– Taci signore e lasciala parlare per ora – rispose il maggiordomo. – La interrogherai più tardi. –

Surama continuava a passarsi e ripassarsi la destra sulla fronte. I suoi occhi parevano seguissero qualche visione, perché li teneva sempre fissi dinanzi a sé.

– Yanez, – riprese dopo un nuovo e più lungo silenzio. – Perché non vieni? Ho fatto un triste sogno l’altra notte, mio adorato sahib bianco.

Un brutto uomo, un fakiro, è entrato nella mia casa e mi ha guardato a lungo. Diceva che un nemico aveva lanciato su di me il mal occhio! Che sia vero? Vieni amico, io ho paura, molta paura.

La pietra di Salagraman e la kala bâgh non ti saranno fatali? Le corone costano troppo care!

– Le corone! – mormorò il ministro aggrottando la fronte. – Di quali intende parlare questa fanciulla? Chitmudgar apri bene gli orecchi.

– Non perdo una sillaba. –

Surama aveva avuto in quel momento un improvviso accesso di collera.

– Maledetto fakiro! – aveva gridato tendendo le pugna. – Non era vero che quel vecchio sconosciuto aveva gettato sulla mia casa il mal occhio! Tu eri stato pagato dal rajah o dall’avventuriero che cerca la rovina del mio sahib bianco!

– Odi? – chiese il ministro.

– Sì, – rispose il chitmudgar.

– L’avventuriero deve essere il favorito.

– Certo, signore. Taci, lasciala parlare. –

Surama continuava a passarsi la destra sulla fronte che appariva imperlata di sudore. Il bâng operava, esaltandola a poco a poco.

Vi fu un altro lungo silenzio, poi la giovane ravviandosi con una mossa nervosa i lunghi capelli neri continuò, guardando sempre dinanzi a sé:

– Perché la Tigre della Malesia e Tremal-Naik non vengono in mio aiuto? Sono uomini forti che hanno vinta e uccisa la Tigre dell’India, il terribile Suyodhana che faceva tremare anche il governo del Bengala! Uscite dal tempio sotterraneo, venite, uccidete, distruggete! Yanez vuole la corona dell’Assam per darla a me! Chi vincerà voi che avete fatto tremare l’intero Borneo? Il Re del Mare è stato vinto, ma a quale prezzo? Voi siete degli eroi della Sonda!

– Riesci a comprendere qualche cosa tu, chitmudgar? – chiese il ministro del rajah che cadeva di sorpresa in sorpresa.

– No, signore.

– Che il tuo bâng l’abbia fatta impazzire?

– È impossibile.

– Che cosa dice dunque questa fanciulla?

– Aspettiamo.

– Parla d’una corona però.

– E di quella dell’Assam.

– Che mistero è questo?

– Abbi pazienza, signore. Forse si spiegherà meglio. –

Surama si era nuovamente alzata ed i suoi sguardi si erano fissati, per la seconda volta, sul ministro.

– Tu non sei il sahib bianco – gli disse. – Che cosa fai qui? –

Il chitmudgar fece un segno come per dire:

– Interroga pure.

– No, – disse il ministro – io non sono il sahib bianco, però sono un suo fedelissimo amico.

– Perché non vai allora ad avvertire la Tigre della Malesia?

– Chi è?

– Il più formidabile uomo delle isole della Sonda, – rispose Surama.

– Le isole della Sonda! Dove si trovano quelle terre?

– Là dove il sole nasce.

– Quell’uomo viene dunque da lontano.

– Molto da lontano: il Borneo non è vicino all’India.

– E che cosa faceva quell’uomo laggiù?

– Combatteva sempre.

– Col sahib bianco?

– No, contro gli inglesi ed i thugs di Rajmangal. –

Il ministro che non comprendeva nulla, non essendo gli indiani troppo forti in geografia, guardò il chitmudgar, ma questi gli fece un segno imperioso che voleva dire «continua».

– Rajmangal? – proseguì il ministro. – Dov’è?

– Nel Bengala – rispose Surama.

– Ed il sahib bianco ha ucciso il capo dei thugs?

– Non lui: è stata la Tigre della Malesia.

– E dov’è questa Tigre? Io non l’ho veduta alla corte del rajah.

– Oh no! È nella pagoda sotterranea coi suoi malesi.

– Dov’è questa pagoda?

– Di fronte all’isola… a quell’isola dove hanno rubata la pietra di Salagraman.

– Chi l’ha rubata?

– Yanez.

– Ancora questo nome misterioso, – mormorò il ministro. – Chi sono dunque quegli uomini? –

Poi alzando la voce proseguì:

– Sai il nome di quella pagoda?

– No: so solo che è scavata in una collina che strapiomba nel fiume.

– Di fronte alla pagoda di Karia, è vero?

– Sì, sì, così mi hanno detto.

– Chi l’abita?

– Degli uomini che non sono indiani.

– Molti?

– Non lo so, – rispose Surama.

– Perché sono venuti qui?

– Per la corona.

– Quale corona?

– Dell’Assam. –

Il ministro ed il chitmudgar si guardarono l’un l’altro con spavento.

– Una qualche congiura si sta certamente tramando contro il rajah – disse il primo.

– Continua a interrogarla, signore – rispose il secondo.

– Ho paura di saper troppe cose.

– Si tratta forse della vita del rajah. –

Il ministro si rivolse verso Surama la quale non cessava di guardare dinanzi a sé.

– Signora, – le disse, – chi guida quegli uomini? –

Questa volta Surama non rispose.

– Mi hai udito? – chiese il ministro.

La giovane agitò le labbra come se volesse parlare, poi ricadde pesantemente sul letto, chiudendo gli occhi.

– Il sonno l’ha ripresa, – disse il chitmudgar. – Non potrai sapere più nulla, signore.

– E domani?

– Bisognerebbe somministrarle una nuova dose di bâng e di benafuli, ma io non oserò.

– Perché?

– Potrebbe non risvegliarsi più mai. Non si può scherzare impunemente coll’oppio.

– Ne so abbastanza d’altronde, – mormorò il ministro. – Andiamo ad avvertire subito il favorito e prendiamo le nostre misure per sorprendere quei misteriosi congiurati.

Fortunatamente abbiamo i seikki e quelli sono guerrieri che non hanno paura di nessuno.

– Date prima i vostri ordini, signore – disse il maggiordomo.

– Lasciala riposare tranquilla e se si sveglia trattala coi dovuti riguardi. Può essere sotto la protezione del governatore del Bengala ed il rajah non ha alcun desiderio di far entrare gli inglesi in questa faccenda.

Domani puoi venire alla corte?

– Sì, mio signore. Ho un fratello che fa il chitmudgar.

– Veglia attentamente.

– Tutti i servi sono stati armati. –

Il ministro uscì accompagnato dal maggiordomo e scese nel giardino che si estendeva dietro alla casa.

Otto uomini, tutti armati, stavano intorno ad uno di quei palanchini chiamati dâk con due portatori di torce.

– Al palazzo del rajah, – comandò il ministro. – Presto: ho molta fretta. –

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