Capitolo 17 Un dramma fra le onde

L’atto generoso ma irriflessivo del bravo irlandese, un vero atto da pazzo, poteva avere conseguenze incalcolabili tanto per gli uomini quanto per l’aerostato e compromettere gravemente quell’audace traversata.
Se l’irlandese avesse pensato, in quel supremo istante, che il Washington, scaricato di quel doppio peso, si sarebbe rapidamente innalzato a grande altezza, abbandonandoli tutt’e due in mezzo all’immenso oceano e rendendo assolutamente impossibile qualunque soccorso da parte dell’ingegnere, forse si sarebbe arrestato, abbandonando il povero negro alla sua sorte, ma era ormai troppo tardi per porvi rimedio.
Quei due uomini, a meno di un miracolo, erano condannati a morire. Presto o tardi, l’Atlantico li avrebbe inghiottiti e trascinati nei suoi immensi baratri. Piombato tra i flutti, trascinato a fondo dal proprio peso e quantunque stordito da quella caduta di oltre trenta metri, O’Donnell con un vigoroso colpo di tallone risalì in superficie. Guardò in aria, non vide che le stelle brillare sul fondo cupo del cielo. Del pallone nessuna traccia!
“Temo di aver commesso una grave pazzia, che forse mi costerà la pelle” mormorò sospirando. “Bah! Infine ero votato alla morte…! Consolato da questa riflessione, si mise a nuotare vigorosamente, girando lo sguardo. A pochi metri scorse qualche cosa di nero che si dibatteva a fior d’acqua.
“Simone!” gridò.
Una risata gli giunse alle orecchie.
“Il bagno non gli ha fatto bene.” disse O’Donnell. “Cerchiamo di salvarlo, poi accadrà quello che dovrà accadere”
Si diresse da quella parte e raggiunse il negro, che si dibatteva come il diavolo nella pila dell’acqua benedetta. L’istinto della conservazione sopravviveva nel pazzo? Bisognava crederlo, poiché quel giovanotto lottava contro l’acqua che cercava di affogarlo. L’irlandese con poche bracciate lo raggiunse e lo afferrò per le ascelle, dicendogli: “Non commettere delle imprudenze, se non vuoi che l’oceano ti inghiotta. Appoggiati alle mie spalle, amico mio: sono robusto e un forte nuotatore, e per qualche tempo potremo reggerci.”
Il pazzo, invece di obbedire, gli sfuggì, si volse rapidamente e lo afferrò per il collo, stringendolo in modo da togliergli il respiro, mentre gli rinserrava le gambe fra le proprie.
“Per mille corna di Belzebù, giù le zampe!” gridò l’irlandese, cercando di sottrarsi a quella terribile stretta. “Vuoi affogarmi?”
Il negro proruppe in uno scroscio di risa, e invece di abbandonarlo, gli si aggrappò addosso con suprema energia: era invaso da quella paura che più non ragiona e che invade le persone prossime ad affogare, o voleva trascinare il suo salvatore negli abissi marini? L’irlandese atterrito, pallido per l’emozione, cominciava a pentirsi di essersi precipitato in mare per salvare un pazzo. Cercò di liberarsi da quelle mani che lo strangolavano e da quelle gambe che paralizzavano i suoi movimenti, facendolo affondare, ma pareva che il negro possedesse, in quel momento, una forza straordinaria.
“Giù le zampe, Simone!” urlò con voce strozzata. “Giù, o…” La frase gli fu troncata da un’onda che lo coperse, riempiendogli la bocca d’acqua amara e salata. Sprofondò, ma con uno sforzo disperato riuscì a liberare le gambe e a rimontare alla superficie, trascinando seco il pazzo, che non voleva abbandonarlo.
“Lasciami!” rantolò.
Il negro continuò a stringere, facendo balzi disordinati per trascinarlo sott’acqua. Alzò il pugno e percosse quel disgraziato sul viso, ma inutilmente: quelle mani non lo abbandonavano, anzi gli conficcavano le unghie nel collo.
“Ah! Non vuoi lasciarmi?” disse l’irlandese. “Ebbene, muori tu solo!”
Allora, fra quell’oscurità, in mezzo a quelle onde che a volta a volta coprivano i due uomini, s’impegnò una lotta suprema. Il negro resisteva con disperata energia e faceva udire, di tratto in tratto, i suoi scoppi di risa; l’irlandese cercava di liberarsi da quelle strette mortali e lo tempestava di pugni per stordirlo, emettendo grida sempre più rauche, più strozzate. Scendevano, risalivano a galla, si rotolavano fra le onde, si mordevano, urlavano.
O’Donnell, già strozzato per tre quarti, si sentiva venir meno le forze, i suoi occhi non scorgevano più l’avversario se non attraverso una nebbia, e si sentiva trascinare negli abissi misteriosi dell’Atlantico, aperti sotto di lui. Con un supremo sforzo trascinò ancora il negro alla superficie, poi si lasciò andare nuovamente a picco. A un tratto si sentì urtare bruscamente e quasi strappare l’epidermide da un corpo ruvido, e gli parve di udire, fra le onde che lo inghiottivano, un grido orribile. Quasi subito sentì allentarsi la stretta e si trovò libero. Senza perdere tempo rimontò a galla, girando all’intorno uno sguardo smarrito. A tre passi vide sorgere bruscamente una forma nera, girare su se stessa un istante, poi sparire. Mandò un grido d’orrore: quella forma nera era un tronco umano, che pareva fosse stato tagliato a metà da una gigantesca forbice.
Allora si ricordò dell’urto, dello sfregamento e del grido udito sotto le onde e comprese tutto. Uno squalo aveva tagliato in due il disgraziato Simone.
L’irlandese era coraggioso: lo si è già visto alla prova, ma nel ritrovarsi da solo in mezzo all’oceano, forse spiato dai pesce-cani con dinanzi agli occhi l’orribile fine del negro, credette di impazzire per lo spavento. Rimase parecchi istanti immobile, come istupidito, livido, agghiacciato dal terrore, non osando fare il più lieve movimento per paura di attirare gli squali e raggrinzando le gambe, per timore di sentirsele mozzare da un istante all’altro. Una lontana detonazione, che pareva scendesse dal cielo, lo strappò da quell’immobilità, che a poco a poco lo trascinava sotto le onde. “Mister Kelly…” mormorò.
“Ah! Se sapesse in quale situazione mi trovo…!” Alzò gli occhi e guardò in aria, ma non riuscì a scorgere l’aerostato. Attese alcuni minuti in preda a una tremenda ansietà, poi verso il sud, a una distanza di due miglia vide brillare a grande altezza una striscia luminosa, poi udì un’altra lontana detonazione. “Vi comprendo,” disse, “mi segnalate la vostra direzione, ma non posso rispondervi e nemmeno raggiungervi. A quale altezza si troverà il Washington? Questo doppio capitombolo lo pagheremo forse caro.”
Abbassò gli occhi sul mare, e gli sembrò di vedere qualche cosa di nero agitarsi in mezzo alla spuma di un’onda. “Che cosa può essere?” si chiese. “Che Mister Kelly, nel momento che il pallone si alzava, ci abbia gettato degli oggetti galleggianti? Ho veduto dei salvagente fra le casse della scialuppa. Orsù, non debbo rimanere qui in eterno: se i pesce-cani mi spiano, possono tagliarmi in due anche qui.”
Rabbrividì a quel pensiero, pure si fece animo e si diresse, procurando di non far rumore, verso quell’oggetto che le onde trastullavano. In pochi istanti lo raggiunse e lo ghermì strettamente. “Non mi ero ingannato!” mormorò, respirando più liberamente. “Grazie, Mister Kelly, di aver pensato a me ! ”
L’oggetto che aveva afferrato era uno di quei grandi cerchi di sughero, avvolti in tela grossa e robusta e che le navi usano portare attaccati alle murate, per gettarli ai marinai o ai passeggeri che cadono accidentalmente in mare. Sorreggono comodamente una persona per quanto sia pesante, mantenendola a galla anche in mezzo alle più grandi ondate. Ma se l’ingegnere aveva pensato a dare un punto d’appoggio ai due naufraghi, non aveva dimenticato di fornirli di mezzi di difesa contro i formidabili assalti dei mostri marini. Infatti, O’Donnell trovò appesi al salvagente due lunghi e affilati coltelli, due di quei bowie-knives usati dagli americani del Nord.
“Se gli squali vorranno mangiarmi, avranno un osso duro da rodere.” disse l’irlandese, passandosi le armi nella cintola. “Orsù, in viaggio, e cerchiamo di seguire il pallone.” Si passò il salvagente sotto le ascelle e, meravigliosamente sorretto da quell’anello di sughero, si spinse verso il sud, gettando però degli sguardi inquieti sulle acque circostanti e fermandosi di tratto in tratto ad ascoltare se qualche mostro lo seguiva.
Le detonazioni erano cessate, ma ormai sapeva che l’aerostato si trovava verso il sud, e ciò gli bastava. Era certo che in quel momento l’ingegnere stava sacrificando il suo gas per discendere verso la superfìcie dell’oceano.
Aveva percorso circa seicento metri, quando vide verso il sud, ma quasi a fior d’acqua, balenare un lampo, e poco dopo intese una debole detonazione. “To’!” esclamò. “Che vi sia una nave laggiù, o che l’ingegnere sia già disceso?”
Si arrestò, guardando attentamente in quella direzione, e gli parve di distinguere, sul fondo azzurro del cielo, che cominciava a tingersi dei primi riflessi dell’aurora, una massa oscura sospesa a breve distanza dalla superficie dell’oceano. “Dev’essere il Washington” mormorò. “Quale salasso avrà dovuto fare ai palloni Mister Kelly per abbassarsi così presto! Fortunatamente c’è la riserva nei cilindri e la zavorra è ancora abbondante. Dannato polipo! E stato la causa di tutte le nostre disgrazie e della fine orribile del povero Simone. Per mille merluzzi! Sento gelarmi il sangue quando penso a quel tronco umano che ho visto sollevarsi sulle onde e quel…” S’arrestò bruscamente, girando intorno lo sguardo spaurito. Gli era sembrato di sentire un rauco sospiro e un tonfo sordo.
“Qualche pesce-cane?” mormorò battendo i denti. “Che sia destinato anch’io ad avere per tomba lo stomaco di uno squalo? Ventre di balena! C’è da impazzire, anche senza essere paurosi.” Stette in ascolto parecchi minuti, trattenendo perfino il respiro: ma non udì più nulla. Credendo di essersi ingannato, riprese le mosse verso il sud, nella cui direzione cominciava già a scorgere il Washington che pareva ancorato a breve distanza dalla superficie dell’oceano.
L’onda larga, investendolo e coprendolo di spuma, lo stancava, paralizzandogli le forze, che cominciavano ad esaurirsi. Si sentiva le estremità irrigidirsi a poco a poco e provava una grande oppressione al petto, che gli rendeva penoso il respiro. Tuttavia, la paura di venire assalito da qualche torma di squali affamati, lontano dall’aerostato, lo spingeva a tirare innanzi senza prendere riposo.
Il Washington spiccava ora nettamente sul fondo madreperlaceo dell’orizzonte, avvicinandosi rapidamente l’alba, ma pareva che la distanza non scemasse mai. Per maggior disgrazia, la paura invadeva poco a poco il disgraziato irlandese, il quale credeva di udire dietro di sé i rauchi sospiri dei mostri marini e temeva che s’avvicinassero sott’acqua. Allora ripiegava le gambe e si arrestava in preda a un’angoscia indescrivibile, impallidiva come un morto e, malgrado il freddo che quel bagno prolungato gli procurava, si sentiva scendere sulla fronte grosse gocce di sudore.
“Arriverò vivo al Washington o lascerò le mie gambe in quest’oceano?” si chiedeva ad ogni istante, con terribile perplessità. Alle cinque il sole apparve bruscamente sull’orizzonte, inondando l’oceano di raggi abbaglianti. O’Donnell respirò e salutò l’astro con un vero e proprio grido di gioia. “Almeno potrò vedere qualcosa e scorgere forse a tempo gli squali.” disse.
Guardò verso il sud. L’aerostato non era lontano che un miglio, e nella navicella scorgeva l’ingegnere, il quale alzava le braccia come per incoraggiarlo a fare presto. Raddoppiò gli sforzi e avanzò in quella direzione, respirando a grande fatica. Ma, percorsi tre o quattrocento metri, si arrestò con i capelli irti e il viso sconvolto da un’inesprimibile angoscia. A venti passi aveva scorto un punto nerastro emergere dalle onde e poi una larga pinna natatoria, che era subito scomparsa.
“Gran Dio!” esclamò. “Ecco il nemico!”
Abbandonò il salvagente, impugnò il bowie-knife e si tuffò. L’acqua era limpida, e si poteva scorgere, a grande profondità, un pesce di grosse dimensioni. Guardò a destra e a sinistra e vide una grande ombra che pareva s’immergesse venti o trenta metri più lontano. La seguì con gli occhi smarriti finché poté, poi tornò in superficie, aggrappandosi al salvagente. Non vide nulla. Aveva scambiato qualche grosso delfino con uno squalo, o lo squalo non l’aveva ancora visto? Si sa che questi terribili mostri, specialmente i tintoreas ci vedono assai male, e poteva darsi che il mostro che si trovava in quelle acque non avesse scorto la preda umana.
O’Donnell rimase parecchi minuti immobile, con gli orecchi tesi e gli occhi ben aperti, poi si decise a riprendere il faticoso esercizio. Comprendeva che ormai la sua salvezza non dipendeva che dalla sua rapidità, perché lo squalo non avrebbe tardato a scoprirlo. Fece un ultimo e disperato appello alle proprie forze e si spinse innanzi con la maggior velocità possibile, ma procurando, nello stesso tempo, di non far rumore. Alle sei non era che a cento passi dal Washington, il quale si trovava trattenuto dalle due àncore a soli sessanta metri dalla superficie dell’oceano.
L’ingegnere aveva calato le guide- ropes, alle cui estremità pendeva l’ancorotto a patte, che non era stato più staccato dopo l’abbordaggio con la nave dei morti.
“Coraggio, O’Donnell!” gli gridò Kelly. “Ancora uno sforzo e siete salvo.”
“Vengo, Mister Kelly.” rispose l’irlandese che era esausto.
“Ma dov’è Simone? È morto…?”
“Mor…to.” rispose O’Donnell, rabbrividendo.
“Forse che…”
L’ingegnere si era bruscamente interrotto, gettando un grido di terrore.

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