Capitolo IV – La caccia al Washington

In quel momento l’aerostato si librava quasi sopra San Paolo, piccola isola che è situata fra quella Brettone e Terranova, mantenendosi a un’altezza di 3500 metri.

Il vento, che era lentamente scemato, lo trascinava verso il nord-est con una velocità di ventidue miglia all’ora, tendendo a spingerlo verso la grande isola dei merluzzi, che si delineava distintamente con le sue numerose baie, i suoi laghi, le sue colline e i suoi boschi.

All’ovest si vedeva l’isola d’Anticosti, la cui forma allungata si stendeva a mò di immenso cetaceo; più vicino appariva il gruppo delle isole Maddalene, che occupano quasi il centro del grande golfo di san Lorenzo; al sud-ovest l’isola frastagliata del Principe Edoardo e al sud quella del Capo Brettone, che sembrava un gancio, e al nord le due isolette francesi di Miquelon e di S. Pierre, situate dinanzi alla profonda baia di Placentia, che s’ingolfa entro Terranova. Fra queste due isole e quella di San Paolo, i due aeronauti scorsero un legno a vapore, che sembrava grande come una scialuppa e che pareva venisse dalla baia sopraccennata. Un nuvolone di fumo biancastro si alzava ancora a prua, disperdendosi lentamente.

“Ecco chi ci bombarda,” disse l’ingegnere.

“Quella nave?”

“Sì.”

“Che sia quella uscita da Sidney?”

“Oibò! Sarà ancora lontana quella: forse è quel punto nero perduto in mezzo al golfo.”

“Ma chi può aver avvertito quel legno che ci prende a colpi di cannone?”

“Il telegrafo, amico mio. Avranno annunciato da Sidney la vostra fuga in pallone alle autorità di San Giovanni o di Harbour-Grace, e queste hanno lanciato qualche incrociatore o qualche stazionario del grande banco di merluzzi contro di noi.”

“Che ci credano tutti e due feniani?”

“Mi crederanno vostro complice.”

“E si rovina o si tenta di rovinare un sì magnifico vascello aereo?”

“Gli inglesi sono testardi. O’Donnell, e non indietreggiano dinanzi ad alcuna cosa, pur di riuscire nei loro progetti; ma fortunatamente siamo su un vascello che non ha rivali e fila a tale velocità da infischiarsene di tutti gli incrociatori del mondo e delle loro artiglierie.”

“Non giungeranno fino a noi le palle?”

“Non lo credo e poi ho tanta zavorra da metterci fuori di portata. Ah, ah…”

Un lampo era balenato sulla prua del legno cacciatore, e una nuvola di fumo aveva avvolto l’albero di bompresso. Un fischio acuto attraversò gli strati d’aria inferiori poi, a circa seicento metri sotto la navicella, scoppiò qualcosa con grande fracasso.

“E una granata di buon calibro” disse l’ingegnere. “Diavolo! Hanno dei cannoni di lunga portata quei dannati inglesi; ma siamo ancora troppo lontani, miei cari, e consumerete inutilmente le vostre cariche.”

“Signor Kelly,” disse O’Donnell con una certa emozione, “io non vorrei con la mia presenza, crearvi degli imbarazzi.”

“Che cosa volete dire?”

“Di lasciarmi scendere e di liberarvi della mia pericolosa compagnia.”

“Per favi impiccare?”

“Bah, era il destino!”

“Siete pazzo, O’Donnell?”

“No, ve lo dico sul serio.”

“E credete che io intenda privarmi della vostra compagnia? Siete mio ospite e non lascerete la mia nave aerea se non quando saremo giunti in una terra dove non correrete alcun pericolo. “

“Ma io posso crearvi dei seri guai e compromettere forse il vostro grandioso viaggio. Non vedete cosa ci regalano questi signori inglesi? Ci daranno una caccia spietata attraverso l’Atlantico, c’inseguiranno a cannonate senza pietà. Per me poco importa; ma per voi, per il vostro pallone…”

“Avete finito?” chiese l’ingegnere. “Correte come un treno diretto lanciato attraverso la grande linea del Pacifico. Basta, per centomila diavoli! Lasciate che gli inglesi consumino polvere e palle, lasciateli correre attraverso l’oceano a consumare carbone e tempo: io me ne rido di loro e vi condurrò in salvo, dovessi impiegare la forza. Ci dichiarano guerra? L’accetteremo e vedremo chi uscirà con le costole rotte. Guardate: la nave che ci bombardava è ormai un punto nero, e la sfido a raggiungerci.”

“Grazie, Mister Kelly,” disse l’irlandese con voce commossa, stringendogli la mano. “Vi sono debitore della vita.”

“Orsù,” disse l’ingegnere, “non se ne parli più, e vuotiamo un altro sorso. Il freddo cresce di passo in passo che ci avviciniamo a Terranova, e se non lo combattiamo ci procureremo dei malanni.”

Mentre così discorrevano, il vascello aereo, che si manteneva sempre a quella grande altezza, filava maestosamente sopra il golfo di San Lorenzo, avvicinandosi alla grande isola, che pareva gli corresse incontro. Una calma perfetta sembrava regnasse attorno agli aeronauti: diciamo sembrava poiché, in realtà, l’aria era turbata, precipitandosi verso il nord-est con velocità crescente. Appena appena si avvertiva un leggero ondulamento della navicella, tanto erano ben equilibrati i due aerostati e così solidamente uniti: si sarebbe detto che formassero un corpo solo. Alle due detonazioni era succeduto un profondo silenzio, che faceva una certa impressione sugli animi dell’irlandese e del negro Simone specialmente, il quale non si era ancora rimesso dal suo terrore. A quell’altezza non si udivano più né i muggiti delle onde, che pure si vedevano coperte di candida spuma, né le grida degli immensi stormi di gabbiani e di procellarie che si vedevano volteggiare al di sopra del golfo.

Quantunque il sole fosse alto, essendo le undici antimeridiane, un freddo acuto regnava in quelle alte regioni e i tre aeronauti, sebbene si trovassero a soli 3500 metri, provavano una certa oppressione al petto e una certa difficoltà nella respirazione, a causa della rarefazione dell’aria. O’Donnell, che cominciava a battere i denti, si accorse che il termometro segnava due gradi sotto lo zero. “Diamine,” esclamò, “fa un bel freddo per essere al 24 d’aprile” Guardò giù: ad una grande distanza, verso il sud, si vedeva l’incrociatore che li aveva bombardati; ma era ormai tanto piccolo, che rassomigliava a una ciabatta. Una nuvola di fumo nerissimo lo avvolgeva, e ciò indicava come forzasse la sua macchina per tener dietro all’aerostato, che sempre più si allontanava. A sinistra si scorgevano le due isole francesi di Miquelin e di S. Pierre, attorno alle quali navigavano flottiglie di wargas, o di dorès, piccole imbarcazioni adoperate per la pesca con le lenze; al nord, proprio dinanzi al pallone, s’estendeva la baia di Placentia occupata da un buon numero di velieri e piroscafi. Aguzzando gli occhi verso l’est, al di qua delle sponde orientali dell’isola, gli parve di scorgere una quantità immensa di punti neri, appena visibili sulla cupa superficie dell’oceano.

“Cosa sono?” chiese, volgendosi verso l’ingegnere che gli stava accanto.

“Battelli e bastimenti intenti a pescare merluzzi sul grande banco.”

“Ah!” esclamò O’Donnell. “Come mi piacerebbe assistere a quella pesca!”

“Se il vento non cambia, passeremo sopra il banco. La corrente ci farà tagliare Terranova da sud-ovest al nord-est, e ci spingerà sull’oceano in quella direzione.”

“E potremo distinguere le diverse fasi della pesca?”

“Sì, purché non soffi il poudrin.”

“Che cos’è questo poudrin?”

“E un ventaccio freddo, che produce tormente di neve e che porta con sé dei nebbioni bianchi, talmente densi da non lasciar scorgere un oggetto qualsiasi a pochi metri di distanza. Soffia sovente sopra il grande banco, e allora causa numerose disgrazie fra i pescatori, poiché i piccoli battelli da pesca, i cosiddetti dorès, malgrado i continui segnali delle navi da guerra e delle navi a vela, si smarriscono e molto spesso si allontanano in mezzo all’oceano, dove le onde li inghiottono. Ogni anno centinaia di quei piccoli canotti non tornano più alle navi alle quali appartengono.”

“Ditemi, Mister Kelly: cosa sono quei quadri bianchi che scorgo sulle rive di Miquelon e di S. Pierre, e sui quali vedo agitarsi dei punti neri che debbono essere uomini”

“Sono graves”

“Ne so quanto prima,” disse O’Donnell.

“Allora vi dirò che sono tratti di terreno accuratamente coperti di pietre arenarie e divisi in grandi quadrati da canaletti destinati allo scolo delle acque; ma quelle pietre sono disposte di modo che l’aria vi possa circolare liberamente. E quegli uomini sono graviers, occupati a preparare le graves.”

“Ma che cosa sono quelle graves”

“Sono destinate a ricevere i merluzzi per l’essiccazione. Tutti i proprietari delle graves hanno una cura estrema nel preparare quei terreni, poiché, se sono trascurati, possono influire assai sulla conservazione dei pesci.”

“E i graviers chi sono?”

“Sarebbe un pò difficile dirlo. A udir loro, sono tutti figli di buone famiglie; a parer mio, sono lavoranti luridi e cenciosi. Non sono né marinai, né pescatori, quantunque pretendano di essere l’uno e l’altro, e sono occupati nello sbarco del sale necessario alla conservazione dei merluzzi e nella preparazione delle graves. Si reclutano ordinariamente nei più miserabili villaggi della Brettagna, si alloggiano in grandi truppe nei magazzini costruiti intorno alle graves sotto la direzione di un mastro, e terminata la stagione delle pesche, si rimandano in patria. Essendo per lo più economi, ritornano sempre al villaggio natio con un discreto gruzzolo di denaro. Sulle coste orientali di Terranova vedrete centinaia di quelle graves e migliaia di graviers”

“II merluzzo ha bisogno di molte preparazioni prima di essere messo in commercio?”

“Il merluzzo secco richiede delle cure speciali: non così quello detto merluzzo verde, ch’è il più costoso, ma il più spiccio a essere preparato e anche il più gustoso. Il verde, appena pescato, viene semplicemente salato, senza seccarlo. Lo si chiude in barili con strati di sale, e dopo poche settimane lo si può mangiare, sia in America che in Europa. Quello secco, invece, lo si lascia in sale tre soli giorni per sbarazzarlo di tutto il sangue e dell’acqua che contiene, poi si porta sulle graves e lo si espone al sole. Quando ha preso tre soli, operazione che richiede la più accurata sorveglianza, poiché il troppo calore o la troppa umidità delle nebbie possono guastarlo, lo si depone in modo che l’aria lo lambisca in tutta la sua superficie. Quaranta giorni dopo, quando cioè i merluzzi sono giunti, come dicono i pescatori, al loro decimo sole, si accumulano gli uni sopra gli altri, formando delle grandi cataste alte parecchi metri. Di giorno queste cataste si lasciano esposte al sole e all’aria; ma di notte si coprono con una immensa tela impermeabile, per proteggerli dall’umidità. Al sessantesimo giorno si scelgono i merluzzi perfettamente secchi e si pongono subito in commercio. Se ve ne sono di umidi, si tornano a mettere sulla grave a stagionarsi e a prendere un altro sole.”

“Terra!” esclamò O’Donnell, che aveva girato uno sguardo al basso. L’ingegnere diede uno sguardo alla bussola.

“Direzione nord-est,” disse. “Prima di sera avremo attraversato Terranova e ci libreremo sopra il grande banco da pesca.”

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