Capitolo VIII – Le grandi ascensioni

Al grido dell’ingegnere e alla detonazione, O’Donnell e il negro, svegliatisi bruscamente, erano balzati in piedi, credendo che l’aerostato fosse scoppiato e che la navicella precipitasse fra le spumanti onde dell’Atlantico.

“Gran Dio!” esclamò l’irlandese. “Che cosa succede, Mister Kelly?”

“Alle ancore e senza perdere tempo!” disse l’ingegnere.

“Precipitiamo?”

“No: ci prendono a cannonate”

“Ancora?”

“Silenzio: afferrate il gherlino che scorre sulle guide-ropes e rovesciate il cono di prua, mentre io rovescio quello di poppa, e tu, Simone, preparati a gettare un sacco di zavorra. Presto, o una palla attraverserà qualche pallone.”

L’irlandese, che aveva compreso il pericolo gravissimo che correvano, afferrò la funicella che scendeva assieme alla corda-guida e che si univa all’estremità del cono, e operò una trazione energica, mentre l’ingegnere, dal canto suo, faceva altrettanto. Le due ancore si rovesciarono, scaricandosi dei quattrocento litri che contenevano: peso enorme, che l’aerostato non sarebbe stato capace di sollevare, se non gettando altrettanta zavorra.

Il Washington, alleggerito da quel peso considerevole, fece un brusco salto in aria, rovesciando i tre aeronauti, che non avevano avuto il tempo di aggrapparsi alle corde. Quasi nello stesso momento un colpo di cannone tuonò sull’oceano, e un obice passò, fischiando, a tre soli metri dalla murata di babordo della navicella, scoppiando seicento passi più innanzi.

“Canaglie!” urlò O’Donnell. “Se avessi una dozzina di granate, vorrei rasare la vostra nave come un pontone.”

L’aerostato continuava a salire con grande rapidità. Passò i mille metri, poi i duemila, e si arrestò ai duemilatrecento. Urla di furore echeggiarono sull’oceano, seguite da tre detonazioni e da un vivo fuoco di moschetteria; ma ormai il pallone era fuori di portata, e né le palle dei cannoni, né quelle delle carabine lo potevano raggiungere.

“Auff!” esclamò l’irlandese, asciugandosi il freddo sudore che gli imperlava la fronte. “Cinque minuti di ritardo e noi eravamo perduti! Vedete, Mister Kelly, a qual pericolo vi esponete per colpa mia?”

“Un viaggio senza emozioni che cosa sarebbe?” disse l’ingegnere. “Per Bacco! Quegli inglesi sono bene accaniti contro di noi! Ma si stancheranno presto.”

“Che specie di nave hanno mai, per averci raggiunti ancora?”

“Una nave che fila quindici o sedici nodi all’ora.”

“Ma noi abbiamo filato più di loro.”

“Ma il vento ci ha respinti verso le coste americane. Se la corrente non avesse cambiato direzione, a quest’ora quella nave sarebbe così lontana da perdere ogni speranza di raggiungerci. Ci ha incontrati per pura combinazione.”

“Fortunatamente l’avete scorta per tempo. Ci insegue ancora?”

“Vedo laggiù i suoi fanali di posizione; ma sono già assai lontani.”

“Andiamo ancora verso il nord-ovest?”

“…Ma…No: abbiamo ritrovato la nostra corrente e navighiamo verso il nord-est!”

“Verso l’Europa!”

“Sì, O’Donnell. Ricomincio a sperare.”

L’aerostato, innalzatosi per lo scaricamento di quei cinquanta chilogrammi di zavorra, aveva infatti ritrovato quella grande corrente aerea che l’ingegnere aveva scoperta, e che pareva soffiasse costante verso il nord-est. Mentre l’attenzione degli aeronauti era volta alla nave da guerra, i due immensi fusi avevano virato di bordo, ed ora fuggivano nella prima direzione con una velocità di sessanta miglia all’ora, avanzando in quell’enorme distesa di acqua, che si tingeva dei primi chiarori dell’alba. La nave da guerra, impotente a lottare con la velocità straordinaria dei due aerostati, aveva cessato il suo cannoneggiamento. In pochi minuti era diventata un punto oscuro che appena si distingueva sulla superficie dell’Atlantico. Fra poco anche i suoi fanali dovevano scomparire.

Il sole, intanto, stava per alzarsi sull’orizzonte orientale. La luce bianca era diventata rosea, gli astri impallidivano rapidamente, confondendosi fra quelle prime ondate rosseggianti; poi il primo raggio sorse improvvisamente là dove l’oceano sembrava unirsi col cielo, e l’acqua scintillò, cospargendosi di pagliuzze d’oro di un effetto superbo, mentre la superficie dei palloni si imporporava. Le ultime tenebre scomparvero sotto quella brusca invasione dei raggi: gli astri sembrarono fondersi istantaneamente, e le acque ripresero la loro tinta verdastra, smeraldina, alternata a strati di un azzurro profondo.

L’ingegnere esaminò l’orizzonte per vedere se qualche nave era in vista, o se si scorgeva, verso il nord-est, qualche terra. L’Oceano era deserto, e nessuna isola o continente si vedeva in alcuna direzione.

Solamente degli uccelli marini volteggiavano sopra l’azzurra superficie, precipitando di quando in quando fra le onde per impadronirsi dei pesci che osavano mostrarsi.

Si vedevano numerose procellarie, quei funebri uccelli delle tempeste, che s’incontrano sotto tutte le latitudini, qualche fregata dal fulmineo volo e parecchie coppie di alcioni. Di tratto in tratto si vedevano pure balzare fuori dalle onde, volare per venti o trenta metri e poi ricadere, centinaia di quegli strani pesci, detti dattilotteri o pesci volanti, alcuni lunghi un buon piede, bruttissimi, di colore bruno rossastro, le natatoie nere, con in capo una specie di casco irto di pungiglioni, ed altri lunghi appena venti centimetri e con la pelle azzurro-argentea. S’alzavano da varie parti, s’incrociavano in tutti i sensi, facevano sforzi prodigiosi per mantenersi in aria, ma ricadevano appena si disseccavano le loro natatoie.

Senza dubbio, quei disgraziati abitanti dell’oceano erano assaliti da altri pesci più potenti e più voraci.

“È una disgrazia il non avere più una rete” disse O’Donnell.

“Mangerei volentieri un arrosto di pesci per colazione.”

“Vi dimenticate che siamo a tremila metri e che non abbiamo una cucina, ghiottone?” chiese l’ingegnere.

“Avete ragione, Mister Kelly. Mi dimenticavo che non abbiamo del fuoco e che, anche avendone, sarebbe pericoloso accenderlo. Ma, per mille diavoli, vi sono delle migliaia di pesci laggiù.”

“Vi sorprende forse?”

“No, perché io so che i pesci sono molto prolifici e che depongono centinaia di nova.”

“Anche migliaia, e qualcuno anche milioni.”

“Suppongo che saranno le aringhe le più feconde. So che nelle baie della mia patria si radunano in banchi immensi.”

“Vi ingannate, perché le aringhe in media non danno che tremila uova.”

“Vi sembra poco?”

“E cosa direste dei merluzzi che ne depongono sette milioni?”

“Per Giove!”

“E del pesce lira, che ne depone dai venti ai trenta?”

“Trenta milioni di uova!” esclamò O’Donnell. “’Quale famiglia deve uscire da una coppia di quei pesci!”

“Si ritiene che siano i più prolifici di tutti. Ve n’è però uno che per le sue dimensioni meschine può calcolarsi più fecondo dei pesci lira: è pleuronectes flexus, il quale è piccolo, somigliante alla così detta passera di mare e può dare fino a un milione e mezzo di uova.”

Mentre così chiacchieravano e il negro preparava la colazione che sostituiva il caffè, che non figurava fra le loro provviste per mancanza della cucina, il Washington, che galleggiava in mezzo a un mare di luce, cominciava a salire verso le alte regioni dell’atmosfera.

Già le sue pieghe erano scomparse a poco a poco e le sue superfici si erano stese sotto lo sforzo dell’idrogeno che il calore solare dilatava, aumentando considerevolmente la sua forza ascensionale, che diventava ora maggiore a causa di quel getto di zavorra.

Alle dieci era già salito a 3600 metri e non si era ancora fermato. O’Donnell, che non si era ancora accorto di nulla, ma che sentiva aumentare il freddo, il quale toccava già quasi lo zero, si guardò attorno, credendo che l’aerostato fosse entrato in qualche nube di ghiaccioli; ma l’atmosfera era d’una limpidezza ammirabile.

“Dove siamo?” chiese. “Ci siamo avvicinati, a nostra insaputa, alle regioni polari?”

“No: filiamo sempre verso il nord-est, seguendo il 48° parallelo” rispose l’ingegnere. “Questo abbassamento di temperatura deriva dalla nostra elevazione. Guardate il barometro: siamo già a 3700 metri.”

“Che il pallone voglia scappare nella luna?”

“Si fermerà. Non dubitate.”

“Più si sale, più aumenta il freddo?”

“Sì e l’aria diventa talmente rarefatta da uccidere gli imprudenti che osano salire troppo in alto.”

“E per quali cause?”

“Per la diminuzione della tensione dell’ossigeno, che a quelle altezze non penetra più nel sangue e di conseguenza nei tessuti in quantità sufficiente a mantenere le combustioni vitali nel loro stato di energia normale. All’altezza in cui ci troviamo, già il vostro polso deve avere ottanta battiti al minuto, e dovete provare un principio di nausea.”

“Infatti provo un certo malessere, Mister Kelly.”

“Se la salita continuerà, il vostro ventre comincerà a gonfiarsi, sentirete la faccia in congestione e proverete anche qualche vertigine. Più su vi è la morte, ma noi non toccheremo quella zona mortale.”

“Lo spero, Mister Kelly, se non per me, per voi. Ditemi: vi sono stati degli aeronauti che hanno osato spingersi fino a quella zona?”

“Sì e alcuni non sono più ridiscesi vivi. I primi che si slanciarono arditamente negli spazi celesti per verificare fino a quale altezza l’aria era respirabile per l’uomo, furono Robertson e Lhoêst, i quali nel 1803 riuscirono a raggiungere, a quanto sembra, i 7000 metri. Si disse allora che a Robertson era gonfiata la testa a tal segno da non potersi più mettere il cappello; ma io la ritengo una frottola.

Nel 1804 Gay-Lussac tocca pure 7000; prova nausee, vertigini e un principio di soffocamento; ma ridiscende vivo. Darral e Bixio nel 1850 toccarono anche loro i 7000 metri. Nel 1850 Gaisher e Coxwell affermarono di aver raggiunto i 10.000 metri. Il primo svenne; ma il secondo, quantunque non potesse far uso delle mani perché il freddo intenso gliele aveva assiderate, riusciva ad afferrare coi denti la corda della valvola di sfogo, obbligando il pallone a ridiscendere.

Io però sono d’opinione che non abbiano raggiunto quell’altezza, e così pensano pure molti aeronauti. Se si fossero spinti tanto in alto, non sarebbero ritornati a terra vivi.

La più drammatica e più terribile ascensione fu quella dello Zenith, che costò la vita a due giovani e audaci aeronauti, a Croce-Spinelli, un italiano naturalizzato francese, ed a Silvel. Già nel 1874, incoraggiati e aiutati dalla Società Francese di Navigazione Aerea, avevano fatto una prima ascensione, raggiungendo i 7300 metri. Il 15 Aprile 1875 partivano sull’aerostato lo Zenith, in compagnia di Tissandier, un aeronauta che aveva eseguito già oltre venti ascensioni. L’aerostato, continuamente scaricato dalla zavorra che portava, s’innalzava rapidamente verso le solitudini gelate delle grandi altezze. Il freddo li intirizzì, le nausee sopravvennero, le vertigini li colsero; ma continuarono intrepidamente a salire. A 8000 metri Croce-Spinelli e Silvel, malgrado respirassero di frequente l’ossigeno che avevano portato con loro, caddero; ma Tissandier resiste ancora e continuò le sue osservazioni. A 8600 metri lo Zenith s’arrestò, poi ridiscese; ma portava con sé due cadaveri: Croce-Spinelli e Silvel erano morti! Che cosa ne dite, O’Donnell?”

L’irlandese, che fino ad allora gli stava seduto a sinistra, a cavalcioni d’una panchina del battello, non diede alcuna risposta. L’ingegnere si volse verso di lui e lo vide accasciato su se stesso, come se fosse stato improvvisamente colto da uno svenimento, o da un sonno irresistibile.

Guardò a poppa e vide il negro Simone che pareva pure addormentato.

“Diavolo!” esclamò. “Dove ci troviamo?”

Gettò uno sguardo sul barometro: segnava 4300 metri. “È troppo,” mormorò. “Ancora poche centinaia di metri più in alto, e questi uomini, non abituati alle ascensioni, dormiranno per sempre. Afferrò le due corde che mettevano capo alle valvole di sfogo e diede uno strappo. Tosto in alto si udirono degli scoppiettii e all’intorno si sparse un acuto odore di idrogeno.

“Basta,” disse mezzo minuto dopo. “È troppo prezioso per consumarlo.” Il Washington, benché appena salassato, discendeva lentamente nelle regioni più respirabili. In dieci minuti toccò i 3600 metri e colà giunto arrestò la sua discesa. O’Donnell aprì gli occhi, sbadigliando come un orso che non dorme da una settimana.

“Che vi pare della disgraziata sorte toccata a Croce-Spinelli e a Silvel?” gli chiese Kelly, con un sorriso leggermente malizioso.

“Silvel! Croce-Spinelli!…” esclamò O’Donnell, guardando l’ingegnere con due occhi strabuzzati. “Ma siete uno stregone voi, che indovinate i miei sogni?”

“Avete sognato, O’Donnell?”

“Sì, di palloni, di ascensioni di un certo Tissandier e… Ma perché ridete?”

“Perché non avete sognato nulla di tutto ciò, ma l’avete udito dalla mie labbra e vi siete addormentato mentre io vi narravo quella drammatica ascensione.”

“Mi sono addormentato, io!”

“Sì, O’Donnell, ma per effetto dell’altezza del Washington e Simone, che comincia solamente ora ad aprire gli occhi, vi teneva compagnia. Come vi sentite?”

“Benissimo: anzi ho una fame da lupo.”

“Buon segno,” disse Kelly, ridendo. “Con la discesa scompaiono repentinamente i disturbi pericolosi cagionati dalle eccessive altezze.”

“Dev’essere così, signor Ned; ma si vede che le ascensioni non sono fatte per me, né per Simone. Che ne dici, negrotto mio?”

Il negro si limitò a sbadigliare in tal modo da correre il pericolo di slogarsi le mascelle, mostrando due file di denti da fare invidia a un coccodrillo dell’Africa equatoriale.

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