Capitolo XX – L’isola misteriosa

Quello sconosciuto raccolto solo, morente di sete in mezzo all’immenso oceano, poteva avere quindici anni. Era spaventosamente magro, di statura alta per la sua età, coi capelli biondi, gli occhi grandi, spalancati, di un azzurro profondo, i lineamenti energici ma alterati da una lunga serie di patimenti. Era molto se pesava quaranta chilogrammi, compresi gli stracci che avvolgevano le sue magre membra.

L’ingegnere e O’Donnell, vivamente commossi nel vedersi davanti quel ragazzo ridotto a pelle e ossa, s’affrettarono a portargli una bottiglia di vino e una tazza d’acqua.

Il mozzo respinse la prima ma vuotò tutto d’una fiato la tazza, ripetendo con un fil di voce: “Oh! datemene ancora, signori!…

“Bevi un sorso di questo vino, prima, povero ragazzo,” disse l’ingegnere, “dopo berrai quant’acqua vorrai.”

Il naufrago obbedì, poi vuotò un altro bicchiere d’acqua che l’irlandese gli porgeva. “Grazie, signori,” balbettò.

“Hai fame?” gli chiese l’ingegnere.

“Tanta, signore,” rispose il naufrago. “Sono tre settimane che vivo con un biscotto ogni ventiquattr’ore e tre giorni che il mio stomaco è vuoto.”

“Lo vedo dalla tua magrezza, povero ragazzo. Bagna per ora questi biscotti in un bicchiere di vino: una scorpacciata dopo tanti digiuni potrebbe esserti fatale.”

“Ah! Voi siete buoni, signori,” disse. “Non lo erano certamente quelli della zattera.”

“Di quale zattera intendi parlare?”

“Di quella che montava l’equipaggio.”

“Si è sfasciata?”

“No, signore.”

“Ma perché l’hai abbandonata?”

“Per non venire ucciso e divorato,” rispose il mozzo, battendo i denti per il terrore.

“Quale terribile dramma marino si è svolto in questi paraggi?” mormorò O’Donnell.

“Si è affondata la tua nave?” chiese Mister Kelly.

“Sì, è andata a picco tre settimane fa a milletrecento miglia dalle isole Canarie,” disse il mozzo. “Si chiamava Florida ed era salpata da Baltimora con un carico di bazzeccole, destinata ai porti della Sierra Leone. Una notte si aprì una falla sotto la ruota di prua e il brick cominciò a fare acqua in tale quantità da rendere inutile il lavoro delle pompe. Si misero in acqua le imbarcazioni, ma il caldo aveva disgiunto le tavole e affondarono tutte, eccetto il piccolo canotto che io montavo poco fa. Allora, mentre una parte dell’equipaggio manovrava le pompe, gli altri marinai improvvisarono una zattera. Non avevano ancora terminato di costruirla, che il brick affondò, trascinando con sé il capitano e il secondo di bordo. Nella confusione che accadde in quel supremo istante, furono dimenticati i viveri che erano stati accumulati sul ponte del legno affondante, e si poterono a grande stento salvare tre casse di biscotti e due barilotti d’acqua che ancora galleggiavano. Fu deciso di fare rotta verso l’est, per approdare alle isole Canarie o in qualche punto della costa africana, ma le calme ci sorpresero e rimanemmo lunghi giorni immobili sotto un calore spaventevole. L’acqua ben presto mancò, poi mancarono i biscotti, quantunque venissero misurati con grande parsimonia.

Io avevo notato che i marinai tenevano sovente gli occhi fissi su di me e che poi si radunavano, discutendo calorosamente, ma procurando sempre che la loro voce non giungesse fino a me. Mi nacque un sospetto orribile: che tramassero di uccidermi e poi pascersi delle mie carni. Cinque notti orsono, mentre fingevo di dormire, vidi avvicinarsi a me il mastro d’equipaggio, seguiti da due marinai e udii il primo dire: “È magro come un merluzzo secco: preferisco che la sorte decida.”

“No,” risposero i compagni. “Questo fanciullo sarà la prima vittima della fame. Perché attendere che muoia? Prima o dopo è tutt’uno e noi potremo forse salvarci.”

Poi si allontanarono dicendo: “A domani.”

“Miserabili,” esclamò O’Donnell. “Uccidere un ragazzo!”

“La fame non ragiona, amico mio,” disse l’ingegnere. “Continua, ragazzo.”

“Avevo messo in serbo alcuni biscotti e un mezzo litro d’acqua che avevo nascosto nel cavo di una trave, sotto il tavolato della coperta. Decisi di fuggire senza perdere tempo. Attesi che tutti dormissero, poi salii nel canotto che era ormeggiato a poppa della zattera, m’imbarcai portando con me le poche provviste e mi allontanai dirigendomi verso il sud. Arrancai disperatamente tutta la notte, e all’alba avevo percorso tanto cammino da non scorgere più la zattera. Due giorni dopo avevo consumato i miei viveri, ma continuai a remare, con la speranza di incontrare qualche nave in rotta dall’Europa all’America, finché, stremato di forze, morendo di sete e di fame, stramazzai in fondo al canotto. Mi ero rassegnato a morire, quando, aprendo gli occhi vidi brillare una luce e presso a questa disegnarsi una forma umana…”

“Ero io che avevo acceso una torcia,” disse l’ingegnere. “Devi essere rimasto assai sorpresero nel vedere un uomo in aria.”

“Sì, signore,” rispose il mozzo. “Credetti di sognare, ma avendo scoperto sopra di voi una grande massa nera che rifletteva qua e là i bagliori della torcia, quantunque la cosa mi sembrasse strana, indovinai subito che sopra di me passava un pallone e lancia il mio primo grido.”

“Sei americano?’ gli chiese Kelly.

“Sì, signore, sono virginiano, nato a Richmond e mi citiamo Walter Chidley.”

“Hai parenti a Richmond?”

“No, signore, sono solo al mondo e non li ho mai conosciuti.”

“Ti prendo come mio figlio.”

Gli occhi azzurri del povero mozzo si empirono di lacrime.

“Signore… signore.” balbettò. “Voi siete buono… e vi offro la mia vita.”

“Conservala, mio povero ragazzo,” disse l’ingegnere, commosso. “Benedico questo viaggio che mi ha fatto incontrare due buoni amici.”

“Grazie, Mister Kelly,” disse O’Donnell, stringendogli la mano che gli porgeva. “Questi due amici, come voi volete chiamarli, vi devono la vita.”

“E a voi forse devo la mia salvezza, O’Donnell. Senza di voi non so cosa sarebbe accaduto di me, in compagnia di quel disgraziato Simone.” Poi, volgendosi al mozzo:

“È al nord che si trova la zattera?” gli chiese.

“Lo credo, Mister Kelly.”

“Quanti uomini la montano?”

“Quando l’abbandonai si trovavano a bordo quattordici marinai, ma temo che ora non siano tutti vivi. Qualcuno sarà stato divorato.”

“Se la incontreremo cercheremo di aiutare quei disgraziati. Possiedo ancora dei viveri sufficienti per nutrirci un mese e spero di non aver bisogno di tanto per raggiungere la costa. Coricati su quel materasso, ragazzo mio e riposati: tu devi essere sfinito. Quando ti sveglierai potrai mangiare a piacimento.”

In quell’istante un urto violento fece oscillare fortemente la scialuppa e un nembo di spuma balzò sopra i bordi.

“Le onde!” esclamo O’Donnell, che si era curvato sull parapetto. “Tocchiamo la superficie dell’oceano.”

“Ci eravamo dimenticati di scaricare della zavorra,” disse l’ingegnere. “Questo ragazzo non pesa molto, ma gli aerostati non vogliono saperne di sopraccarichi.”

O’Donnell prese un sacco di zavorra di cinquanta chilogrammi e lo precipitò nell’oceano. Il Washington subito si rialzò, tendendo le corse delle àncore e la guide-rope.

“Vento da sud-ovest,” disse l’ingegnere, gettando uno sguardo sul mostra-vento appeso all’asta della bandiera e un altro alla bussola. “Partiamo!”

Rovesciarono i due coni e trassero a bordo la guide-rope. I due immensi fusi salirono lentamente e, raggiunti i quattrocento metri, si misero a filare verso il nord-est, in direzione delle Canarie.

Il mozzo, stremato dalle lunghe veglie e dai lunghi digiuni, si era coricato e dormiva tranquillamente sul materasso un tempo occupato dal disgraziato Simone; l’ingegnere, che aveva terminato il suo quarto di guardia, l’aveva imitato e O’Donnell si era collocato a prua, fumando. La notte era oscura assai. Uno strato di vapori, che a poco a poco si erano accumulati nelle profondità degli spazi celesti, intercettava completamente la debole luce degli astri. Giù, in fondo, l’oceano brontolava sordamente e si udivano le onde, sollevate dal vento che era diventato assai fresco, urtarsi e sfasciarsi. Di quando in quando, su quei flutti d’inchiostro si vedevano balenare dei punti luminosi che tosto scomparivano. Probabilmente erano pesce-cani, le bocche dei quali, di notte, diventano fosforescenti. Il Washington marciava con rapidità di venti chilometri all’ora, ma la sua direzione non era stabile. Sovente la corrente d’aria cambiava e lo spingeva ora verso il nord ora verso l’est e qualche volta lo ricacciava verso il sud. Alle dieci del mattino, però, la corrente del sud-ovest ebbe il sopravvento e trascinò l’aerostato verso il nord-nord-ovest, con una velocità superiore ai quaranta chilometri all’ora. Se continuava in quella direzione, gli aeronauti non dovevano tardare a scoprire qualche terra.

Alle quattro, mentre cominciava a disegnarsi verso oriente una bianca striscia di luce, una pioggia violenta si scatenò sull’oceano. I vapori che durante la notte si erano condensati sopra quella porzione dell’Atlantico, si scioglievano rapidamente.

Quei grossi goccioloni, cadendo sulla seta dei due palloni, producevano degli strani crepitii e rendevano pesante il vascello, il cui gas non aveva ancora cominciato a dilatarsi.

O’Donnell, che era sempre di quarto, s’accorse ben presto che scendeva verso l’oceano con notevole velocità. Dopo pochi minuti scorse le onde dell’Atlantico a sole quaranta braccia. Svegliò Mister Kelly e lo informò di quella rapida caduta.

“Gettiamo zavorra,” disse l’ingegnere.

“Ne abbiamo gettati altri cinquanta chilogrammi ieri sera, Mister Kelly,” disse l’irlandese.

“È necessario alleggerirci, O’Donnell”.

“Ma fra poco rimarremo senza, se continuiamo questo getto.”

“Abbiamo ancora trecento metri cubi d’idrogeno.”

“Vada la zavorra, dunque.”

Un altro sacco fu gettato. Il Washington s’innalzò con rapidità, attraverso lo strato nuvoloso, inzuppando uomini, coperte e materassi e si arrestò a milletrecento metri, filando sopra le masse vaporose. Lassù il vento soffiava gagliardo, mantenendo la direzione di nord-nord-est, con grande soddisfazione dell’ingegnere che sperava di risalire verso l’Europa, evitando la grande corrente dei venti alisei che potevano spingerlo nell’Atlantico centrale.

Alle otto del mattino, l’aerostato era salito di altri millecinquecento metri avendo cominciato il dilatamento dell’idrogeno a causa del calore solare che era ancora intenso, quantunque gli aeronauti si fossero allontanati assai dal Tropico del Cancro.

Alle dieci, O’Donnell, che stava seduto a prua discorrendo col mozzo, segnalò un grande transatlantico che filava verso l’occidente con una velocità di quarantadue chilometri all’ora e al basso, a circa ottocento metri dalla superficie dell’oceano, si estendevano ancora qua e là dei nuvoloni gravidi di pioggia, i quali erano separati da brevi distanze.

Alle undici, l’ingegnere che da parecchio tempo guardava ostinatamente verso l’est, mostrò a O’Donnell una specie di nebbia, ma che si alzava in forma di cono e che appariva a una grandissima distanza.

“Che cos’è?” chiese l’irlandese.

“Laggiù si estendono le isole Canarie,” rispose l’ingegnere.

“Le Canarie!” esclamò O’Donnell. “È impossibile, signore, che vi siamo giunti così presto!”

“Giunti? Vi è ancora un bel tratto di via da percorrere, amico mio.”

“Se si scorge una delle loro montagne, non devono essere molto lontane.”

“Ma quel picco che voi scorgete è quello di Teneriffa, il quale è tanto alto che lo si scorge dalla distanza di più di duecento chilometri.”

“Abbiamo del tempo per giungere a quell’arcipelago”

“Se mai lo toccheremo, poiché il vento ci spinge al largo di quelle isole.”

“Formano un gruppo considerevole, quelle terre?”

“Le isole sono cinque, la Gran Canaria, Palma, Lanzarate, Geneira, Ferro; poi vengono le isolette di Labos, Roqueta, Alegranza, Santa Giara e Graciosa, ma pare che un tempo fossero undici.”

“È scomparsa l’undicesima?”

“Così si dice.”

“Non si crede forse alla sua scomparsa?”

“Sì e no.”

“Spiegatevi meglio, Mister Kelly.”

“Allora vi dirò che le antiche cronache portoghesi fanno menzione di un’isola che si chiamava S. Bernardo. Si dice che alla prima metà del XV secolo, un vecchio marinaio si presentasse al re Enrico confidandogli di aver veduto nei pressi delle Canarie un’isola abitata da antichi portoghesi e sulla quale sorgevano sette opulente città con grandiosi palazzi. Narra ora la leggenda che un ricco cavagliere portoghese, certo Don Fernando de Ulmo, partisse con due caravelle armate a proprie spese, alla ricerca di quell’isola misteriosa che supponeva abitata da portoghesi fuggiti dalla patria durante l’invasione dei mori, cioè nell’VIII secolo. Fernando de Ulmo sarebbe partito, avrebbe sbarcato a S. Bernardo, splendidamente accolto da parte dei suoi compatrioti i quali lo avrebbero nominato loro adelantado. Ma ecco che comincia una storia meravigliosa e assai stravagante. La leggenda dice che, un secolo dopo, Fernando de Ulmo ritornava a Lisbona…”

“Cent’anni dopo?” chiese O’Donnell.

“Sì, ma è la leggenda che narra questo amico mio. Si fece conoscere, ma lo trattarono da pazzo: più nessuno si ricordava di lui e del suo viaggio all’isola delle sette opulente città, essendo i suoi amici e i suoi parenti morti da molti anni. Un vecchio, però, si rammentò di aver udito raccontare, nella sua gioventù, che un Ulmo era partito per le Canarie e condusse il navigatore presso una tomba dove era scolpito il suo ritratto, che gli somigliava assai, malgrado l’età. Ulmo ripartì per le Canarie per ritrovare la sua isola, ma era scomparsa. Morì poco dopo mentre sul promontorio di Palma cercava avidamente con gli sguardi le tracce di quella misteriosa terra, e fu sepolto nella cattedrale dell’isola.”

“Ma credete che sia realmente esistita quell’isola?”

“E perché no? Le Canarie sono di natura vulcanica e quell’isola può essere stata inghiottita durante qualche terribile commozione del fondo marino. Gli abitanti dell’arcipelago e i naviganti portoghesi e spagnuoli dicono che, di quando in quando, specie allorché i crateri di Teneriffa eruttano e il terremoto scuote le isole, quell’isola riappare a fior d’acqua per poi tornare a inabissarsi.”

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