Capitolo XXV – L’inseguimento

La caccia al Washington cominciava. Gli inglesi, furiosi di vedersi sfuggire la preda, che credevano di tenere ormai in mano, avevano lanciato la loro nave a tutto vapore. Sapendo di non poter sbarcare su quelle coste, che appartenevano al Sultano di Bar, e perciò sotto il protettorato della Francia, si preparavano a far tuonare il cannone per far cadere l’aerostato in mare prima che toccasse terra. Fortunatamente per gli aeronauti, a quell’altezza il Washington aveva incontrato una corrente più rapida, che lo spingeva con una velocità di venti miglia all’ora, avvicinandolo alla costa, distante dodici o quindici miglia. Quella corrente fu la loro salvezza, perchè spingendoli con velocità superiore a quella della nave, permise a loro di mettersi fuori di portata dei colpi di cannone.

Gl’inglesi non potendo ottenere il rialzo necessario per lanciare i loro proiettili con il cannone di prua, avevano fatto per portare in coperta un mortaio, ma prima che questo fosse posto in batteria, l’aerostato aveva guadagnato uno spazio tale da far perdere loro ogni speranza di servirsi vantaggiosamente di quel pezzo. Si misero a sparare col cannone di prua, che doveva avere una lunga portata, ma le palle non giungevano tanto alte, non avendo il pezzo l’inclinazione necessaria. Ricadevano tutte nei pressi dell’aerostato, ma senza giungere sino a destinazione. Si misero a inseguirlo precipitando nei forni tonnellate di carbone per raggiungere la massima velocità. Se non potevano gareggiare con lui, non volevano perderlo di vista.

“Ci vogliono morti” disse l’ingegnere a O’Donnell. “Quei furfanti non rinunciano all’inseguimento, ma spero di sfuggire ai loro colpi di cannone.”

“Andiamo sempre a sud-est?”

“Sempre. Fra un paio d’ore ci libreremo fra le isole Bissagos e la costa.”

“Rimarremo in aria tanto?”

“Lo spero. Nel caso sono deciso a calare la scialuppa e a raggiungere la costa per mare. Ormai la traversata l’abbiamo compiuta, e gli abitanti di Bathrust e quella nave che ci dà la caccia, possono attestarlo.”

Intanto il Washington continuava a guadagnare metri sugli inseguitori, i quali rimanevano sempre più indietro malgrado la loro macchina funzionasse rabbiosamente.

Il vento, che si manteneva fra le diciotto e le venti miglia di velocità, lo spingeva parallelamente alla costa, ma sempre più avvicinandolo.

Gli aeronauti, coi cannocchiali, potevano scorgere gli abitanti delle borgate, che appartengono alla vigorosa e intraprendente razza mandinga, correre lungo la costa per seguire con gli sguardi, fin dove potevano, il pallone.

Alle sei il pallone cominciò a scendere: l’idrogeno sfuggiva rapidamente attraverso le cuciture fatte dal mozzo e che forse si erano riaperte sotto la spinta interna. Fortunatamente gli aeronauti avevano un vantaggio di otto miglia sull’incrociatore e le palle non potevano giungere sino a loro. Essendo però ancora lontani dalla costa, gettarono gli ultimi oggetti che possedevano, una parte delle munizioni, barometri, termometri, gli ultimi viveri e perfino la loro scarsa provvista d’acqua. Non conservarono che l’ancorotto, che era necessario per la discesa, una fune e le loro armi, delle quali non volevano disfarsi che all’ultimo momento. Il Washington si risollevò ancora, riacquistando i seicento metri che aveva perso.

“Se non possiamo approdare sulla costa, caleremo su una di quelle isole” disse l’ingegnere.

“Non ci prenderanno gl’inglesi?”

“Quando cadremo non ci scorgeranno più e non sapranno dove siamo atterrati.”

“Verremo ben accolti da quei negri?”

“Non lo so, O’Donnell. Le Bissagos sono isole ancora poco note.”

“Se vorranno farci una brutta accoglienza, venderemo cara la pelle!”

“Ricadiamo!” disse il mozzo.

“Povero Washington esclamò O’Donnell. “Si sgonfia rapidamente.”

“Temo che si siano riaperte le cuciture,” disse l’ingegnere. “Sento odore di gas. “

“Si vede ancora la nave?”

“Sì. eccola laggiù che fuma come un vulcano, ma non può gareggiare con noi, quantunque il vento sia debolissimo.”

L’aerostato intanto continuava a scendere. Precipitava bruscamente di due o trecento metri per volta, come se le forze gli venissero improvvisamente meno, poi si arrestava, girando su se stesso, quindi ricadeva. E non vi era più nulla da gettare. Ben presto agli orecchi degli aeronauti giunse il fragore delle onde: l’oceano non era che a seicento metri, ma le isole Bissagos erano a pochi chilometri.

“Prepariamoci ad abbandonare il Washington” disse l’ingegnere con una certa emozione.

“Non lo salveremo dunque?” chiese O’Donnell, con dolore, “Io amo questo bravo pallone, che ci ha portati attraverso l’Atlantico.”

“È impossibile, O’Donnell. Le onde, che su queste coste sono assai violente, imprimeranno alla nostra scialuppa tali scosse da affondarla, se non la liberiamo dall’aerostato.”

“S’innalzerà solo, allora?”

“Sì. O’Donnell.”

“E dove cadrà?”

“Chi può dirlo? Forse assai lontano da qui, nell’interno della costa della Sierra Leone, o più oltre.”

“I negri lo crederanno la luna.”

“È probabile, O’Donnell, e chissà quanti preziosi talismani e feticci faranno con la seta.”

Il Washington s’abbassava bruscamente con estrema rapidità. Pareva che tutto ad un tratto fosse diventato estremamente pesante.

“Ecco quello che temevo” disse l’ingegnere. “Preparatevi a tagliare le funi!”

“Siamo pronti!” risposero O’Donnell e il mozzo.

“Gettatevi ad armacollo i fucili e mettete delle munizioni nelle tasche. Non si sa mai ciò che può accadere.”

Il Washington precipitava sempre descrivendo però una traiettoria obliqua anziché verticale, essendo un po’ sorretto dal vento. A quattrocento metri cadde dritto, rapidità vertiginosa.

“Tenetevi stretti alle funi” ebbe appena il tempo di gridare l’ingegnere.

La scialuppa non era che a pochi metri dall’oceano, i cui cavalloni muggivano sinistramente, come se fossero ansiosi d’inghiottire quell’immensa preda che cadeva dalle alte regioni dell’atmosfera. Ad un tratto gli aeronauti si trovarono fra le onde. La scialuppa, lasciata cadere così precipitosamente si era immersa, ed i marosi l’avevano coperta e rovesciata.

“Tagliate le corde!” gridò l’ingegnere.

“Affondiamo!” gridò O’Donnell. “La scialuppa è persa”

“Tagliate ed aggrappatevi alla rete. Forse risaliremo. O’Donnell e il mozzo, che non avevano perso il loro sangue freddo, con pochi colpi di coltello recisero le funi. La scialuppa, piena d’acqua com’era, calò a picco, ma gli aeronauti avevano avuto il tempo di aggrapparsi alla barra di sostegno.

Il Washington, alleggerito di quell’ultimo peso ebbe ancora la forza di risollevarsi a cinquecento metri, trasportando con sé l’ingegnere e i suoi compagni, che si erano seduti sull’asta stringendo con disperata energia le corde.

“È finita!” disse O’Donnell

“Tenetevi stretti, amici” disse l’ingegnere.

“Ricadremo in mare?”

“Lo temo, ma le isole sono a pochi passi da noi.”

Infatti, davanti a loro si stendevano le isole Bissagos. La più avanzata non distava che un miglio, e il vento spingeva l’aerostato verso di essa. Guardarono attentamente la spiaggia, ma non videro alcun abitante. Girando però lo sguardo verso l’ovest, scorsero un piccolo bastimento che veleggiava lungo le coste dell’isola, a una distanza di tre o quattro miglia.

“Un altro legno da guerra?” disse O’Donnell.

“No: è un piccolo veliero, un cutter mercantile.” Disse l’ingegnere. “Guardate: l’equipaggio vira di bordo e mette la prua verso le coste settentrionali dell’isola.”

“Che ci abbiano scorti?”

“Sì, O’Donnell, vengono in nostro aiuto.”

“Giungeranno in tempo?”

In lontananza si udirono alcune detonazioni; era l’equipaggio della piccola nave che avvertiva gli aeronauti di averli visti. O’Donnell scaricò la grossa carabina che aveva salvato dal naufragio, mentre l’ingegnere scaricava il suo revolver.

“Vengono,” disse Kelly, “ma quando giungeranno qui noi saremo già caduti.”

“Vedete la nave da guerra?” chiese O’Donnell.

“No” rispose l’ingegnere, che si trovava più in alto di tutti, essendosi aggrappato alle maglie.

“Nemmeno il fumo?”

“Mi pare di vedere laggiù come un sottile pennacchio.

“Tanto meglio. E quel piccolo legno cosa sarà?”

“Senza dubbio uno di quei legnetti che fanno il traffico delle coste per conto delle fattorie.”

“Speriamo che non sia inglese.”

“Probabilmente sarà francese o portoghese.

“Cadiamo” disse Walter.

“Non avrai paura, povero ragazzo?” chiese l’ingegnere.

“No, signore” rispose il mozzo con voce ferma.

“Procura di tenerti sempre vicino a me” disse O’Donnell.

“So nuotare, signore, e le onde non mi fanno paura.”

“Bravo ragazzo!”

“Attenzione!” gridò l’ingegnere.

Il pallone cadeva a mille passi dalla spiaggia della prima isola. Si arrestò ancora un momento, poi precipitò fra le onde come una palla di cannone, ma appena gli uomini furono immersi, si sollevò bruscamente, tendendo le funi.

“Tenetevi stretti!” gridò l’ingegnere. “Ci sorreggerà fino alla spiaggia.”

Il mare era agitato, le larghe ondate dell’Atlantico si frangevano contro quell’arcipelago di isole e isolotti e contro la costa africana, producendo quei furiosi flutti. I marosi si scagliavano rabbiosamente addosso agli aeronauti, quasi fossero bramosi di strapparli, li coprivano di spuma, li sbattevano in tutti i sensi assordandoli con lunghi muggiti. I due grandi fusi, che risentivano le scosse subite dai tre uomini, si abbassavano, poi si rialzavano, giravano su se stessi e si piegavano ora da un lato, ora dall’altro. Il vento, che s’ingolfava entro le loro pieghe, li trascinava però verso l’isola.

Ad un tratto, fra i muggiti delle onde echeggiò un grido. Quasi contemporaneamente O’Donnell e l’ingegnere si sentirono tratti bruscamente fuori dall’acqua e trascinati rapidamente in alto.

“Gran Dio!” esclamò O’Donnell, aggrappandosi prontamente alla rete. “Che cos’è accaduto?”

“Walter! Walter!” gridò l’ingegnere, mentre l’aerostato, scaricato di quel peso, s’innalzava ancora in aria.

Il mozzo, che le onde avevano strappato dall’asta alla quale era aggrappato, ricomparve fra la spuma nuotando vigorosamente e additò la spiaggia, lontana duecento metri.

Il Washington, malgrado fosse quasi mezzo vuoto e inzuppato d’acqua, fu trascinato sopra i grandi boschi che coprivano l’isola.

“Si salverà quel povero ragazzo?”

“Nuotava vigorosamente” risposero l’ingegnere. “Toccherà la spiaggia senza fatica.”

“Lo ritroveremo?”

“Lo cercheremo, O’Donnell. Cadiamo ancora.”

“Sui boschi?”

“Meglio così: attenueremo l’urto. State attento ad aggrapparvi ai rami.”

“Vedete il piccolo bastimento?”

“Sì, sta doppiando il capo settentrionale dell’isola.”

In quell’istante il sole scomparve all’orizzonte. Il Washington precipitava sopra i grandi boschi dell’isola.

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