Il banchetto a bordo

Il capitano dell’Aglae, a cui premeva di mettere in esecuzione il suo ardito progetto, diede subito mano allo scarico ed all’imbarco degli oggetti venduti ed acquistati colla più grande attività, ma i negri non imitarono punto i marinai del veliero.

Stranieri a tutti i sentimenti dell’avarizia o dell’ambizione, non sanno cosa sia l’attività commerciale; essi non hanno per di più una esatta idea del tempo, quindi poco importa loro che una cosa venga fatta in un solo giorno od in un mese.
Una sola occupazione è da loro favorita: la danza. Per quel divertimento non conoscono fatiche e non perdono tempo. Appena il sole scompare, quegli indiavolati ballerini danno fiato ai loro corni d’avorio o si mettono a battere i loro grossi tamburi di pelle di cuagga e fino all’alba non si arrestano più, danzando disperatamente.

Il capitano Dorsemaine cercava di sollecitarli, ma invano. Se la prendevano sempre con più comodo, non premendo,affatto che la nave se ne andasse tanto presto.

Al lupo di mare premeva invece di prendere il largo anche perché la buona stagione stava per finire.

L’epoca dei colpi di vento e dei fortunali era già giunta. Quasi tutte le mattine l’orizzonte si oscurava e delle piccole nubi bianche correvano per l’aria indicando dei rapidi mutamenti di tempo.

Sotto quell’apparente tranquillità si celava qualche tremendo uragano.

Infatti un brutto mattino il vento incominciò a ruggire al largo, poi sulle coste, piegando o sradicando gli alberi delle foreste e sollevando le sabbie delle sponde. Più d’una capanna fu atterrata ed anche l’alberatura dell’Aglae ebbe qualche malanno.

Il capitano, temendo qualche sinistro, raddoppiò le offerte ai negri incaricati del carico e dello scarico della nave e qualche cosa potè ottenere, da quei cattivi lavoratori.

Per eccitarli vieppiù, erasi provato ad indirizzarsi al re negro, ma questi, da quando aveva ricevuto i barili d’acquavite, aveva perduto completamente la ragione, quindi non poteva sperare in lui alcun aiuto.

Il monarca beveva da mane a sera come un otre, ed il liquido che ingollava era tanto da spaventare il più impenitente ubriacone.

Per continuare quelle sbornie tremende, egli avrebbe indubbiamente venduto al capitano i suoi ministri, sua moglie ed anche la sua popolazione. Fortunatamente Dorsemaine non caricava schiavi.

Finalmente un bel mattino il lupo di mare potè vedere la nave completamente carica, anche la dote della principessa era stata imbarcata e messa al sicuro sotto il quadro di poppa.

Dorsemaine credette giunto il momento per giuocare il suo tiro all’ubriacone ed a sua figlia.

Si avvicinò a Finfin, il quale durante lo scarico ed il carico delle merci non aveva lasciato un solo momento la nave per ordine espresso del capitano, e battendogli famigliarmente una mano su di una spalla gli disse:

– Giovanotto mio, oggi noi avremo persone a bordo. Bisogna raccomandare al cuoco di fare dei miracoli.

– E chi verrà a pranzare, capitano? – chiese il giovane.

– Sua Maestà negra e sua figlia unitamente ai ministri.

– Corbezzoli!… Bisogna fare degnamente gli onori di casa.

– Certamente, giovinotto – rispose Dorsemaine con un sorrisetto misterioso.

– Fate preparare la tavola in coperta e badate che tutto sia in ordine.

Ciò detto il lupo di mare scese nella scialuppa e si recò dal monarca, dicendogli che tutto era pronto pel matrimonio e che lo aspettava a bordo assieme alla principessa ed ai ministri, per procedere alla cerimonia dopo però un lauto pranzo. Aggiunse, per meglio attirare l’ubriacone nell’agguato che stava per tendergli, che avrebbe servito delle bottiglie d’acqua di fuoco d’una qualità mai bevuta da alcun re africano.

Mao-Kombo che non sospettava di nulla, accettò senza difficoltà l’invito, anzi lo accettò con vera gioia trattandosi di vuotare delle bottiglie d’acquavite e gli promise di trovarsi a bordo prima del tramonto.

Dorsemaine fece ritorno al suo brick più contento di quello che si poteva immaginare, essendo ormai certo del felice esito del suo tiro birbone.
Chiamò il mastro ed ebbe con lui una lunga conferenza misteriosa, poi si permise, forse per la prima volta in vita sua, di andare a sorvegliare i piatti che il cuoco stava preparando.

Il mastro intanto s’era affrettato a chiamare uno ad uno i marinai del brick, impartendo loro degli ordini, però s’era ben guardato dal dire qualche cosa a Giovanni Finfin, il quale tutto doveva ignorare.

– Orsù, vedremo come riuscirà questo colpetto – mormorò mastro Tommaso, stropicciandosi allegramente le mani. – Se il diavolo non ci mette la coda, tutto andrà a meraviglia.

Poco prima del tramonto del sole, ossia all’ora convenuta, Mao-Kombo, seguito da una flottiglia di piroghe, si diresse verso la nave per prendere parte al banchetto di nozze. Sua figlia ed i suoi cinque ministri lo accompagnavano.
La scala d’onore fu subito calata a bordo del brick per accogliere gli ospiti, ed il monarca, la principessa erede del trono ed i cinque ministri salirono sulla nave e Dorsemaine li condusse, coi dovuti riguardi spettanti al loro grado, nella sala degli ufficiali, in mezzo al quadro di poppa. Quasi subito la porta fu chiusa e tutti si assisero intorno alla tavola preparata con un lusso straordinario,
forse mai veduto a bordo dell’Aglae.

Giammai banchetto più copioso era stato allestito nel quadro del brick. Il cuoco aveva fatto dei véri miracoli e le vivande più stravaganti si seguirono per un bel pezzo, avidamente divorate dai sette invitati.

Il vino, composizione machiavellica del dispensiere, reso più bruciante da una forte dose di pimento, scorse a torrenti.

Giovanni Finfin, avendone assaggiato un bicchiere si sentì bruciare la gola a tal punto che fu costretto ad alzarsi, malgrado le occhiate provocanti della principessa, per andarsi a prendere un bicchiere d’acqua.
Salito sul ponte, con sua grande sorpresa trovò l’equipaggio a posto come fosse pronto alla manovra. Nulla avendo saputo degli ordini dati dal capitano, chiese a mastro Tommaso che cosa significava quell’apparato insolito.

– Io lo ignoro – rispose laconicamente l’interrogato. – Io non ho fatto altro che obbedire agli ordini ricevuti.

Siccome in mare non si ha l’abitudine di discutere i comandi dati dal capitano, Giovanni, non ostante la sua sorpresa, credette inutile insistere e vuotato un bicchiere d’acqua s’affrettò a ritornare nel quadro.

I negri che avevano mangiato a crepapelle e bevuto come spugne, cominciavano allora a dar segno di essere ubriachi non solo, ma anche mezzi addormentati.
Solamente la principessa pareva che non fosse ancora giunta a quel punto importante tanto atteso dal capitano.

Vedendo però che non si poteva deciderla a bere di più, Dorsemaine ad un certo momento fece un segno al suo primo ufficiale, il quale lestamente lasciò il quadro senza che nessuno se ne fosse quasi accorto. Poco dopo gli orecchi di Finfin famigliarizzati ai rumori che si odono a bordo delle navi, udirono dei passi affrettati, poi certi colpi che parevano mandati dall’argano. Non ci fece caso, ma più tardi distinse il rumore metallico delle catene delle ancore, poi lo sbattere delle vele, quindi dei gorgoglìi che crescevano di momento in momento, come se la nave fendesse già le acque del fiume.

– Udite nulla, capitano?… – chiese, alzandosi.

— Non odo che una leggera brezza che soffia dall’est, ecco tutto — rispose Dorsemaine, che stava versando dell’acquavite a MaoKombo.

– Eppure la nave non è più ferma.

Così dicendo fece atto di slanciarsi verso la porta per salire in coperta e verificare se si era o no ingannato, ma Dorsemaine lo trattenne vivamente dicendogli con voce dura:

— è inutile che andiate in coperta; fatemi il piacere di restare in nostra compagnia. Finfin riprese il suo posto e non disse più verbo.

— D’altronde — riprese Dorsemaine, dopo qualche istante — sul ponte vi sono il mio primo ufficiale ed il mastro, quindi non dobbiamo avere alcuna preoccupazione di quanto succede.

Finfin fece un cenno di assentimento, ma continuò a tendere gli orecchi e si persuase che la nave non era più immobile, che anzi correva rapida verso la foce del fiume.

La voce dell’Atlantico si faceva già udire e la nave, aiutata dal vento e dalla rapidità della corrente, aumentava di minuto in minuto la sua corsa. Se continuava quella rapida marcia, non doveva tardare a giungere alla foce.

I negri, già completamente ubriachi, non si erano accorti di nulla, quindi continuavano a bere senza darsi alcun pensiero.

Solamente la principessa Ben-Bera che lottava penosamente contro il sonno, aveva già alzato più volte il capo come se ascoltasse.

Ad un tratto un’ondata scosse la nave facendola beccheggiare vivamente. Nel medesimo tempo le vele scosse da quell’improvviso soprassalto del brick sbatterono fortemente.

La principessa comprese in quel momento che il veliero non era più fermo.
Prima che il capitano potesse impedirglielo aprì rapidamente la porta e si slanciò sul ponte.

Il mare appariva ad un centinaio di metri, colle sue onde spumeggianti!

Un grido terribile, un grido d’allarme uscì dalle labbra della giovane negra.
Aveva compreso il tradimento del capitano.

Finfin si era pure precipitato in coperta, credendo che la negra fosse caduta, mentre Mao-Kombo, tornato rapidamente in sé, aveva cercato di alzarsi. Disgraziatamente il povero monarca si era dimenticato d’aver bevuto troppo e cadde sconciamente al suolo mandando un grugnito. Il vento, ingolfandosi per la porta del quadro lasciata aperta dalla principessa, aveva subito spento le candele ed una profonda oscurità era piombata in quel piccolo salotto.

Tutto d’un tratto, mentre i negri cercavano di uscire, si udì a echeggiare il fischietto del mastro d’equipaggio.

Delle ombre, più nere della notte, balzarono prontamente verso il salotto del quadro.

La voce del capitano Dorsemaine diede un ordine e quelle ombre, afferrati brutalmente i negri, li portarono fuori gettandoli senz’altro in acqua.

Nel momento in cui i marinai sbarazzavano la nave da quegli ubriaconi, in mezzo alle tenebre si potè distinguere un doppio grido che poi si ripetè sulle acque del fiume.
Il capitano Dorsemaine, udendo quelle grida, aveva trasalito.’

– Accendete i fanali!… – tuonò. – Mi è sembrato d’aver udito la voce di Finfin e della principessa!…

I fanali in un baleno furono accesi e la luce fu proiettata sulle acque del fiume.
Curvandosi sul bordo, Dorsemaine potè distinguere il re ed i suoi cinque ministri i quali nuotavano disperatamente verso la riva, però la principessa Ben-Bera non era con loro.

– Mille lampi!… – gridò. – Che sia rimasta ancora a bordo?

– Non è possibile, capitano – disse il mastro.

– La si cerchi!…

I marinai accesero altre lanterne e si recarono nel quadro, poi visitarono tutto il ponte, la stiva, la camera comune di prora, ma senza alcun risultato. La principessa non si trovava in alcun luogo.
Un pensiero attraversò allora il cervello del capitano.

– E Finfin, dov’è? – chiese.

– Finfin!… – esclamarono i marinai, con stupore.
— Finfin!… Dove siete?… — gridò Dorsemaine.
Nessuno rispose.

– Dov’è il mio luogotenente Finfin? – ripetè Dorsemaine con voce strangolata.
– Era nel quadro poco fa.

– Ma… a bordo non vi è… più!… – rispose mastro Tommaso con voce strozzata.

– Chi lo ha veduto?… Luogotenente!… Luogotenente Finfin!…
Solamente la brezza che gemeva attraverso l’attrezzatura della nave rispose a quella disperata chiamata.

Giovanni Finfin, il bravo giovane amato da tutti i marinai dell’Aglae, non era più a bordo.

Un silenzio di morte regnava a bordo del brick; i marinai, intontiti, non osa vano aprire bocca. Il capitano Dorsemaine aveva lasciato cadere il portavoce ed era diventato pallido come un cencio lavato.

Ad un tratto lo si vide accasciarsi, poi cadere sul suo banco di comando, mentre delle grosse lagrime gli scendevano sulle brune gote.
Giovanni Finfin era perduto!…

Tutto d’un colpo il vecchio lupo di mare si raddrizzò. I suoi sguardi guardarono la sponda che ormai non appariva più che come una sottile striscia nera, esaminarono il cielo stellato, guardarono le onde dell’Atlantico. Comprese che un ritorno sarebbe stato, almeno pel momento, impossibile.
Egli fece udire una tremenda imprecazione che fece allibire l’equipaggio, poi a testa bassa, colle mani strette sul petto, rientrò, senza aggiungere altro, nel quadro.

Intanto mastro Tommaso, assiso sull’argano, piangeva come un fanciullo!…

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