Le coste d’Africa

I geografi sovente non sono d’accordo nel fissare i limiti d’una regione, specialmente quando si tratta dell’Africa o dell’Asia, i due vecchissimi continenti, ma che pur anche oggidì sono i meno conosciuti.
Gli uni pongono il Congo al capo Lopez, ossia presso le coste del Gabon; altri lo pongono cinquecento leghe più al sud, verso il Benguela.

Alcuni fanno di quella regione un giardino incantato ove tutte le produzioni dei tropici si presentano agli occhi dei visitatori: foreste immense, praterie splendide ricche di alte graminacee che farebbero la fortuna di centomilà allevatori di bestiame, cosparse di boschetti di tulipani, di giacinti, di rose, di gelsomini, di lys più bianchi della neve. Altri invece, e sono forse i meglio informati, ne fanno, se non un deserto, un soggiorno poco incantevole, ricco bensì di foreste ma con spiagge aride, sabbióse o coperte di paludi esalanti dei miasmi pericolosissimi, specialmente per gli europei.
La verità è che tutta quella regione che s’estende dal Gabon al fiume Congo è il paese più detestabile del globo.

Situato proprio sotto l’Equatore, ha una temperatura bruciante, pari a quella che si sente dinanzi alla bocca d’un forno acceso. Dalle dieci del mattino alle otto della sera l’elevazione della temperatura raggiunge delle cifre favolose.

L’acqua dolce si corrompe in qualche ora; i biscotti di mare si popolano d’insetti guastandosi rapidamente e perfino la pelle dei poveri marinai soffre di quel caldo tremendo, coprendosi sovente di bollicine.

Quando il sole poi scompare, dalle paludi si alzano dei miasmi pericolosissimi che producono febbri tremende, talvolta fulminanti e che hanno effetto perfino sui metalli e sui cuoi, screpolando questi ed irrugginendo gli altri. Anche l’argento non sfugge a quell’ossidazione.

In quell’ora poi, dalle foreste escono a migliaia certi zanzaroni i quali si gettano sugli europei come vampiri assetati di sangue, martirizzandoli con un accanimento incredibile. S’avanzano in fitte nuvole, ronzano attorno ai disgraziati che cercano un po’ di riposo, si cacciano nei loro orecchi, nel loro naso, pungono, mordono, dissanguano con una voracità spaventevole e non di rado cagionano perfino la morte.

Ma questi non sono i soli pericoli ai quali si espongono gli abitanti di quelle regioni.
Nelle paludi e nei piccoli corsi d’acqua, nuotano dei coccodrilli lunghi perfino trenta piedi, sempre pronti a gettarsi sulla preda umana che osa avventurarsi in quei luoghi, poi vengono serpenti, nemici del pari pericolosissimi.
Vi sono dei boa mostruosi, toccando sovente una lunghezza di quaranta piedi e che posseggono tale forza da stritolare un uomo fra le loro spire; i marriba, lunghi venti piedi e grossi come la coscia d’un granatiere; i ndamba colla testa di vipera e la pelle tinta dei più smaglianti colori e che si tengono appiattati sotto i cespugli, pronti a mordere la preda; i nbombi, i più pericolosi della
specie; i lenta, specie di vipere che producono la morte in pochi istanti possedendo un veleno quasi fulminante, e finalmente una moltitudine di scolopendre e di scorpioni dai morsi crudeli.

Non basta ancora. Quando la notte è venuta, ecco giungere i cani selvaggi, specie di lupi, che urlano incessantemente impedendo di dormire; poi gli sciacalli che improvvisano concerti del pari assordanti e lugubri; quindi vengono le jene dal riso stridulo e beffardo, i leopardi, le pantere ed i leoni. Come vedete, brutto paese. Altro che giardino incantato, come pretendono
alcuni geografi!…

l’Aglae del capitano Dorsemaine, dopo due mesi di navigazione, era giunto sulle coste di quella regione, gettando l’ancora in una piccola baia situata sul fiume Zaire, di fronte alla foce d’un piccolo corso d’acqua che i negri chiamano lo Zimbo.

Giovanni Finfin aveva subito cercato di scoprire quei boschetti di lys più bianchi della neve, quei macchioni di tuberóse, di giacinti e gelsomini, avendo letto a Sant Enogat, su parecchi libri, di quelle splendide descrizioni; ma invece dinanzi a’ suoi occhi stupiti non aveva veduto che una costa bassa, arida, a malapena coperta da pochi arbusti spinosi e da piante acquatiche che finivano
d’imputridire fra la melma, esalando dei miasmi tutt’altro che profumati.

– Cosa guardate con tanto interesse, signor Giovanni? – gli chiese il mastro. Da quando Finfin era stato nominato luogotenente il degno mastro si era ben guardato di dargli del tu.

– Mi chiedevo se questo era il bel paese che mi era stato descritto – rispose Finfin. – Avevo letto su tanti libri che il Congo era un vero paradiso terrestre.

– Dite un inferno, signor Giovanni. Se vi è un brutto paese al mondo, è il Congo certamente.

– Ma, i libri…

– Andate a credere ai libri! – esclamò il mastro ridendo. – I vostri libri hanno mentito, signor Giovanni. - Avevo udito a raccontare che l’aria era pura.

– Sì, tanto pura che, se non si fugge presto, si prendono delle febbri che mandano all’altro mondo in tre o quattro ore.

– Vi saranno almeno degli animali.

– Oh! Non mancano, anzi ve ne sono perfino troppi. A voi, udite questi muggiti?

– Sì, Tommaso.

— Annunciano la presenza di una banda d’ippopotami.

— Vorrei vedere quei mostri.

– Sono diffidenti, signor Giovanni.

– Mi piacerebbe ucciderne qualcuno. Ho voluto imbarcarmi per provare delle emozioni.

– Non vi mancheranno, ve lo assicuro. Quando saliremo il fiume vedrete parecchi animali e potrete cacciarli.

– Ma ove andiamo noi, Tommaso?

– Da MaoKombo.

– Chi è questo signor Mao? Lo si direbbe un gattone – disse Finfin ridendo.

— è un re negro, amico del capitano.

– Sarà qualche mercante di schiavi.

– Trovate un re negro che non sia trafficante di schiavi, se siete capace. MaoKombo ogni sei mesi fa guerra alle tribù vicine, cerca di fare più prigionieri che può per venderli al primo capitano che si presenta.

– Ed il capitano Dorsemaine ha caricato mai negri?

– Eh!… Quante volte, signor Giovanni!… Io credo che ne abbia trasportati almeno diecimila nell’America del Sud, specialmente nel Brasile. è stato in quel commercio che ha fatto i suoi denari. Oh!… Ecco un negro che deve essere qualche inviato straordinario del re. Corbezzoli, che lusso!…

La presenza dell’Aglae alla foce dello Zimbo era stata ormai segnalata al re negro dagli abitanti della costa.

Il monarca che aveva la sua residenza reale un po’ lungi dal mare, sulla riva sinistra del fiume, avendo molta stima del capitano Dorsemaine che trattava da vero amico, essendo da parecchi anni in ottime relazioni commerciali con lui, gli aveva mandato uno de’ suoi principali capi a salutarlo.
Quell’inviato, giunto alla foce a bordo di una di quelle piroghe scavate nel tronco d’un albero col ferro e col fuoco, era una specie di gigante, ma lurido peggio d’un mandrillo, non ostante il suo diadema di latta che portava fieramente sul capo, i suoi numerosi anelli di ottone e di rame che gli cingevano i polsi e le caviglie dei piedi ed i suoi sonagliuzzi: alla cintola poi portava un corno, indizio della sua alta posizione sociale.

Finfin si era avanzato verso il negro, guardandolo con viva curiosità e pensando quale differenza poteva passare fra quel campione della razza congolese ed una scimmia. A lui sembrava quasi che una scimmia potesse essere superiore a quell’abitante del continente africano e forse non aveva torto, poiché l’inviato del monarca era d’una bruttezza fenomenale.

Il primo atto di quell’illustre personaggio, fu quello di recarsi direttamente dinanzi la cabina del mastro cuciniere e d’impadronirsi d’un grosso pezzo di lardo rancido destinato a ungere gli stivali del capitano e di mandarlo giù in quattro bocconi. Ciò fatto salì sul cassero e vista la lampada dell’abitacolo che serviva ad illuminare la bussola, con quelle sue zampe da scimmia la prese e assorb ì, con visibile soddisfazione, il contenuto, come si fosse trattato d’una eccellente tazza di moka o d’un bicchiere di rhum autentico.
Quando quel ghiottone non trovò altro da mandare giù, si volse verso il capitano che lo aveva lasciato fare senza dar segni di collera o di disgusto, e gli disse che il possente re Mao-Kombo, l’illustre monarca comandante di un’armata forte di duecento negri, lo aspettava per incominciare i loro affari commerciali.

Il capitano Dorsemaine si serviva di Mao-Kombo come d’un limone da spremere, e professava per quel suo illustre amico dalla pelle nera e dal muso da scimmia il più profondo disprezzo, ma si guardava bene dal fargli comprendere ciò, anzi affettava le più grandi premure pel piccolo tirannello. Da astuto negoziante, celava accuratamente in fondo al cuore i suoi sentimenti sapendo per esperienza che quell’amicizia gli era molto proficua, quindi rispose all’ambasciatore che si sarebbe subito messo in viaggio per visitare il suo illustre cliente e per bere in sua compagnia parecchie dozzine di bottiglie di rhum di tratta, liquore infernale a base di vetriolo, ma che è bene adatto alle gole de’ negri.
Ciò detto per ingraziarsi il messaggero il quale era nientemeno che un ministro del monarca, gli regalò una bottiglia contenente un certo liquido chiamato dai marinai francesi tord’boyaux, composto di pessima acquavite estratta dalle patate, mescolata con un po’ di essenza di terebentina, poi alcune collane di perle da consegnare alla moglie del re, alcuni fazzoletti rossi per gli alti
dignitari e finalmente un coltello.

Il ministro si degnò di vuotare sull’istante mezza bottiglia di quel liquido infernale, come si fosse trattato di latte di cocco, si passò al collo le perle, si abbellì coi fazzoletti rossi e scese nella piroga dove lo attendevano quattro negri brutti al pari di lui. Prima però di lasciare la nave non mancò di raccogliere un pezzo di sigaro gettato via dal capitano e quella cicca andò a raggiungere il lardo
rancido, l’olio verde della lampada e l’acquavite di patate, con grande soddisfazione del ghiottone.

— Perdinci! — esclamò Giovanni Finfin, che non poteva più trattenere il suo stupore. – Quel negro ha uno stomaco da struzzo!… Sarebbe capace di digerire anche una vecchia ciabatta, né più né meno d’un pescecane!… - I negri hanno degli stomachi senza fondo, signor Giovanni – disse mastro Tommaso. – Se quell’ambasciatore avesse potuto mettere le sue zampe da scimmia sulla nostra dispensa, che buco che vi avrebbe fatto!

– Mastro!… – esclamò uno dei mozzi di bordo, facendosi innanzi con aria comica.
– Quello che è venuto a bordo è un uomo od una scimmia?

— Io lo credo un uomo.

– Ed io invece una scimmia – disse il mozzo. – Avevo il desiderio di farmi invitare a pranzo da quel negro per assaporare la cucina africana, ma ora vi rinuncio, mastro.

– E perché, ragazzo?…

– Perché il mio stomaco non avrebbe potuto gareggiare con quello di quella scimmia.

– Ti dico che non è una scimmia.

– Scusate, mastro, ma voi vi siete ingannato. Volete paragonare quel mostro a voi? Oh! Non fatevi questo torto!

– Ah! Birbone! – esclamò Tommaso, alzando un braccio per afferrare il bricconcello pel collo.

L’altro però lesto come uno scoiattolo gli sgusciò fra le gambe e scappò via, ripetendo sempre

— è una scimmia!… Mastro, è una scimmia!…

– Io credo che quel diavolo di mozzo abbia più ragione di voi, Tommaso – disse Giovanni Finfin ridendo.

– Lo credo anch’io, signor Giovanni, è per questo che gli risparmierò un buon scapaccione. Partiamo, signor Giovanni.

– Andiamo a trovare il monarca?

– Sì, andiamo nel paese delle scimmie.

– è lontano il villaggio?…

– Vi giungeremo fra un paio d’ore, signor Giovanni.

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