Un brutto quarto d’ora

Lasciamo che l’Aglae navighi verso i mari d’Europa ed occupiamoci a ritrovare Giovanni Finfin il quale non era niente affatto morto come aveva creduto il capitano Dorsemaine.

Abbiamo lasciato il nostro eroe nel momento in cui si era precipitato sul cassero di poppa dietro la principessa Ben-Bera, credendo che alla giovane negra fosse accaduta qualche disgrazia.

Era il momento in cui i marinai dell’Aglae, obbedendo agli ordini del primo ufficiale, si precipitavano nel quadro per afferrare quegli ubriaconi di negri e gettarli nel fiume per far prendere loro un bagno forzato.
La figlia del re aveva subito compreso il brutto tiro ordito dal capitano bianco per impadronirsi della sua dote, senza lasciarle lo sposo.

Essendo una donna risoluta, energica, e che non mancava di una certa intelligenza, aveva atteso che Finfin le fosse vicino, poi afferratolo di sorpresa fra le robuste braccia, lo aveva gettato nel fiume, quindi si era slanciata dietro di lui, non volendo perderlo in alcun modo.

Il giovane luogotenente era un buon nuotatore, nondimeno non era certamente una sorpresa gradevole quella di trovarsi bruscamente nell’acqua, là dove la foce del fiume aveva una profondità di centocinquanta metri.
Qualunque altro si sarebbe affrettato a recitare un atto di contrizione nella certezza di non ritornare più a galla, ma Finfin non aveva perduta la testa, né aveva alcun desiderio di andarsene all’altro mondo.
Con un vigoroso colpo di tallone cercò di rimontare alla superfice, però subito sentì due mani che lo ricacciavano bruscamente sotto costringendolo a bere a gran sorsi.

Finfin non oppose alcuna resistenza sapendo ormai con quale specie di nemici aveva da fare. Si lasciò colare a fondo per una dozzina di metri e nuotando prudentemente fra due acque, sorse venti metri più lontano per respirare una boccata d’aria.

La sua testa era appena sorta quando sentì nuovamente due mani piombargli addosso e ricacciarlo sotto. Quel misterioso nemico non voleva assolutamente lasciarlo respirare.

Rinnovò la manovra ed anche questa volta senza successo. Allora le forze gli mancarono, la respirazione gli venne meno e svenne…

Subito un corpo nero s’immerse, afferrò il giovanotto e tenendolo ben stretto con un braccio nuotò vigorosamente in direzione della spiaggia.
Allorquando il giovane luogotenente rinvenne, l’atmosfera aveva acquistata quella trasparenza ammirabile che si osserva nelle regioni equatoriali. Era ancora notte, ma si poteva egualmente distinguere il più piccolo oggetto ad una distanza di venti metri, quasi come fosse stato giorno.

Aprì gli occhi ed i suoi sguardi s’incontrarono subito in quelli della principessa Ben-Bera, la quale lo contemplava con aria pienamente soddisfatta. — Diavolo — mormorò il giovane, chiudendo prudentemente gli occhi. — Cosa è accaduto adunque? Questo deve essere il momento di fingersi morto e, come diceva Dorsemaine, di non muoversi più. Vedremo poi come finirà questa avventura.

Così dicendo cercò di conservare la immobilità più assoluta, sperando di ingannare la principessa Ben-Bera.

La figlia di Mao-Kombo, vedendo che i suoi sforzi per far tornare in sé il prigioniero non approdavano a nulla, mandò un grido stridente che ripetè su diversi toni.

Non ottenendo risposta, s’allontanò di alcuni passi ripetendo quel segnale.
Giovanni Finfin si chiese se quello era il momento per darsela a gambe. Alzò prudentemente la testa e gettò uno sguardo furtivo verso le sponde dell’oceano, sperando di scorgere l’Aglae, ma non scorse alcuna vela in nessuna direzione.

– Cosa è avvenuto del brick? – si chiese, con ansietà. – Bah!… Poiché non posso più contare sul capitano Dorsemaine, conterò sulle mie forze. D’altronde le avventure sono il mio forte.

Ciò detto si ricoricò tranquillamente sulla sabbia, attendendo filosoficamente gli eventi. Ben presto vide la principessa ritornare accompagnata da una dozzina di sudditi.
Ella diede alcuni ordini, e quei negri, sollevato dolcemente Finfin, lo coricaro no su di una barella improvvisata con alcuni rami e con delle foglie, mettendosi subito in cammino.

– Benissimo – mormorò Finfin. – Noi andiamo a ritrovare il re ubriacone. Quella marcia durò una mezz’ora.

Giunti al villaggio, Finfin fu portato nella capanna reale e deposto dinanzi al trono, sul quale si trovava MaoKombo.

Il monarca, non più ubriaco, mercé quel bagno forzato, attendeva tranquillamente il ritorno della figlia e del prigioniero, essendo già stato avvertito di ciò che era accaduto. Due torce di palma resinosa, infisse nel suolo, illuminavano la dimora reale.

Giovanni, non era un poltrone, pure nel trovarsi dinanzi al re non potè reprimere un brivido, temendo che quel bruto si lasciasse trasportare a qualche eccesso, tanto più che accanto al re aveva scorti i cinque ministri armati.

Con sua grande sorpresa vide invece il monarca fare un segno ai suoi ministri e questi subito uscire dalla capanna. Trovandosi solamente in presenza del monarca e della principessa, cominciò a rassicurarsi.

Il monarca scese dal trono, andò a prendere una zucca piena di vino di palma ed, aperte le labbra del prigioniero, ne versò alcuni sorsi.
Giovanni fu forzato ad ingoiare quel liquido onde non morire asfissiato, poi vedendo che il re continuava alzò vivamente le mani respingendo la zucca.
Il monarca, soddisfatto di quel suo ritrovato, ebbe un sorriso bonario.
Conoscendo un po’ di francese, si volse verso il prigioniero, dicendogli:

– Il mio amico il capitano bianco è un traditore ed uno scellerato. Egli ha indegnamente abusato della confidenza che aveva in lui.

– Io non so nulla – rispose Finfin.

– Se tu non sai nulla vuol dire che tu non conoscevi il complotto ordito dal tuo capitano. Meglio per te, poiché diversamente ti avrei fatto tagliare la testa. Però il capitano si guardi dal far ritorno nei miei stati!… Io lo ucciderò o lo venderò come schiavo a qualche re dell’interno.

– Se egli è partito io dubito assai che faccia ritorno su questo fiume.

— Tu però rimarrai con noi.

– E cosa dovrei fare?

— Come? Non sai nulla?

– Niente affatto – rispose Finfin.

– Ignori adunque che io ti avevo accordata la mano della principessa mia figlia?

– Dite?…

– Che tu sposerai mia figlia, giacché io ho sborsato ai tuoi parenti una grossa dote.

— Avete sborsata una dote ai miei parenti!… — esclamò Finfin che cadeva di sorpresa in sorpresa.

– L’ho consegnata al capitano.

– Lampi!… – mormorò il giovanotto. – Ora comprendo il tiro che voleva giocare il capitano!… Ah!… La è così? La vedremo, mio caro negro, se io sposerò tua figlia.

– E dunque? – chiese il negro. – Parla presto perché io ho sonno e voglio andarmene a letto.

Giovanni prese una decisione eroica.

– Giacché voi, possente monarca, volete degnarvi d’accordare a me la mano di vostra figlia, io acconsento al matrimonio – disse. – Spero che la dote sarà consegnata ai miei parenti… che non ho.

– Benissimo, ma bada che io non ho alcuna voglia di scherzare – disse il re.

– Tu diverrai mio genero e se non lo vorrai, ti farò tagliare la testa, mi comprendi? O sposare mia figlia o la morte.

– Non vi è che scegliere – rispose Finfin. – Avanti col matrimonio.

Non vi era modo di scappare. Sua Maestà negra aveva una logica troppo stringente per rifiutare un così alto onore. Si vede che era un monarca eminentemente pratico.

– A domani – disse il monarca.

Salutò sua figlia ed il futuro genero e si ritirò per dormire.
Giovanni vedendo una stuoia in un canto, andò a sdraiarsi e subito cominciò a russare come un contrabbasso. La principessa non volendo disturbarlo, si accovacciò presso di lui e vinta dalla stanchezza ed un po’ dalle troppe bevande inghiottite, non tardò ad imitarlo.

I lettori s’ingannerebbero però se credessero che anche Finfin dormisse. Egli aspettava invece il momento favorevole per prendere il largo, non avendo nessun desiderio di diventare il genero del possente monarca.
Quando s’accorse che la sua futura moglie dormiva davvero, si alzò dolcemente, prese un pezzo di stoffa ed imbavagliò lestamente la principessa onde impedirle di dare l’allarme, poi le legò  strettamente le mani e le gambe.
Ciò fatto prese un ottimo fucile che il capitano Dorsemaine aveva regalato al monarca, un sacchetto di polvere e di palle, un buon coltello ed uscì dalla dimora reale senza che la principessa si fosse svegliata.

Tutti dormivano nel villaggio, sicché egli potè allontanarsi senza essere stato scorto da alcuno.

Giunto presso il fiume ne risalì la sponda destra per una buona ora, poi si slanci ò risolutamente in mezzo alle foreste.

Dinanzi a lui si estendeva l’immensità, l’ignoto!… Che importava?… Giovanni Finfin era coraggioso, non temeva i pericoli ed amava le avventure.
Non era da preferirsi la vita avventurosa in mezzo ai grandi boschi, ad un legame eterno con una principessa congolese? Giovanni Finfin lo credeva.

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