El-Kadur

Un momento dopo, il tenente di Capitan Tempesta, diroccata con un’ultima scossa la trincea di macigni, entrava nella casamatta, esponendosi alla luce della fiaccola.
Il disgraziato giovane era ridotto in uno stato miserando.

Aveva il capo fasciato con uno straccio lordo di sangue e di polvere, la cotta di maglia a brandelli, che gli cadeva da tutte le parti, gli stivaletti sbrindellati e per spada un troncone che non aveva che tre pollici di lama, macchiato di sangue anche quello fino all’impugnatura.
Il suo volto, in quelle dodici o quindici ore, era diventato così sparuto, come se avesse sofferto la fame per otto giorni.
— Voi, signore! — aveva esclamato l’arabo. — In quale stato vi rivedo!

— Ed il capitano? — chiese invece il tenente, con premura.

— Dorme tranquillo. Non svegliamolo, signor Perpignano. Ha molto bisogno di riposo. Guardatelo!
Il tenente stava per appressarsi alla duchessa, quando questa, destata dal rumore, aprì gli occhi.
— Voi, Perpignano! — esclamò, facendo un moto di gioia. — Come siete uscito vivo dalle mani dei turchi?

— Per un puro miracolo, Capitan Tempesta, — rispose il veneziano. — Se mi avessero però scoperto non mi avreste riveduto più di certo, poichè quanti fuggiaschi sono riusciti a scovare fra le macerie e nelle cantine delle case, altrettanti ne hanno macellati.
L’infame Mustafà non ha fatto grazia a nessuno.

— A nessuno! — esclamò la duchessa con indicibile angoscia. —
Nemmeno ai capitani?

— Nemmeno a quelli, — rispose il tenente, frenando a stento un singhiozzo. — Il miserabile Vizir ha tagliato di sua mano l’orecchio destro al prode Bragadino e reciso un braccio, poi lo ha fatto scorticare vivo alla presenza dei giannizzeri.
La duchessa aveva mandato un grido d’orrore:

— Infami! Infami!

— Poi ha fatto decapitare Astorre Baglione, Martinengo, tagliare a pezzi il Tiepolo e Manoli Spilotto e gettare le loro povere carni in pasto ai cani.
— Mio Dio! esclamò la duchessa, coprendosi gli occhi come se cercasse di sfuggire a qualche spaventosa visione.
— E gli altri, signor tenente? — chiese El-Kadur.

— Tutti sterminati. Mustafà non ha risparmiato che le donne ed i bambini che manderà schiavi a Costantinopoli.
— Tutto è finito dunque per il Leone di San Marco? gemette la duchessa.
— La bandiera della Repubblica dell’Adriatico ha cessato per sempre di sventolare su Cipro.

— E nessuno più tenterà di vendicare una sì terribile disfatta?

— Le navi della Repubblica, Capitan Tempesta, daranno un giorno a queste tigri asiatiche quello che si meritano. Le galere di Venezia bagneranno l’Arcipelago di sangue turco, non temete. La Serenissima laverà l’onta e Selim II sconterà le inaudite crudeltà commesse dal suo gran vizir.
— Ma Famagosta è un cimitero.

— Un orrendo cimitero, Capitan Tempesta, — rispose il veneziano, con voce profondamente commossa. — Le vie sono piene di cadaveri e sulle mura sfasciate fanno orribile mostra le teste di coloro che l’abitarono e la difesero strenuamente.
— E voi, come siete sfuggito alle scimitarre del turco?

— Ve lo dissi già, per un vero miracolo. Quando ormai tutto era perduto ed i giannizzeri superavano i bastioni che nessuno più poteva difendere, ho seguito nella fuga i pochi superstiti che avevano fatto fronte agli assalitori sulla rotonda di San Marco.
— Fuggivo anch’io all’impazzata, senza sapere ove avrei potuto trovare un rifugio, ritenendomi perduto, quando una voce umana sorse fra le macerie d’una casa quasi completamente sfasciata.
— Qui, giovane! — m’avevano gridato. — Attraverso una inferriata, quasi sepolta da ammassi di macigni, vidi due uomini che mi facevano dei segnali disperati.
Vi era là la salvezza. Smossero le sbarre e mi trassero, o meglio mi portarono in una specie di cantina oscurissima, non potendo io, per le ferite e l’estrema stanchezza, reggermi quasi più in piedi.

— Chi erano quegli uomini generosi? chiese la duchessa.

— Due marinai della flotta veneziana che erano qui giunti coi rinforzi capitanati da Martinengo: un mastro ed un gabbiere.
— Dove sono ora?

— Sempre nascosti in quella tenebrosa cantina, avendo chiusa l’inferriata con dei massi affinchè i turchi non riescano a scoprire l’entrata.
— E come sapevate che io mi trovavo qui? — chiese la duchessa.

— Glielo avevo detto io, — disse El-Kadur.

— Sì ed io, anche in mezzo al furore della lotta, non mi ero dimenticato il numero di questa casamatta rispose Perpignano.
— Perchè non sono venuti anche i due marinai?

— Non l’hanno osato, capitano, e poi temevano di trovare questo rifugio già invaso dai giannizzeri di Mustafà.
— È lontana quella cantina?

— Appena trecento passi.

— Quegli uomini possono esserci di grande aiuto, signor Perpignano.

— Lo credo anch’io, duchessa rispose il veneziano, dandole forse per la prima volta il suo vero titolo di nobile donna.
La giovane rimase per qualche istante silenziosa, come se riflettesse profondamente, poi, volgendosi verso l’arabo che era sempre immobile presso di lui, gli chiese bruscamente:
— Sei sempre deciso?

— Sì, padrona rispose il figlio del deserto. — Solo quell’uomo potrà salvarci.
— E se ti ingannassi?

— Il Leone di Damasco non giungerebbe fino qui, signora, El-Kadur ha una pistola ed un jatagan nella sua fascia e saprà servirsene meglio d’un giannizzero di Mustafà.
La duchessa si era voltata verso il veneziano che la guardava con stupore, non potendo ancora comprendere in che cosa vi entrasse il turco, che era stato scavalcato dinanzi alle mura di Famagosta.
— Credete, signor Perpignano, che una fuga sia possibile senza che i turchi se ne avvedano? gli chiese.
— No, signora, — rispose il tenente. — La città è piena di giannizzeri non ancora sazi di sangue cristiano e intorno alla città vi sono non meno di cinquantamila asiatici, che vegliano onde nessuno possa allontanarsi.
— Va, El-Kadur, — disse la duchessa. — La nostra ultima speranza sta nelle mani del Leone di Damasco.
L’arabo spense la miccia della pistola, si assicurò che il jatagan scorresse facilmente nella guaina di pelle adorna di laminette d’argento, rialzò con un moto nervoso il cappuccio infioccato e s’avvolse nel suo largo mantello di lana, dicendo:
— Obbedisco, padrona.

S’avviò verso l’apertura, tenendo la testa china, quasi interamente nascosta sotto il cappuccio, poi si volse bruscamente e fissando sulla duchessa uno sguardo ardente, le disse con una profonda tristezza:

— Se io non tornerò più mai e la mia testa rimarrà nelle mani dei turchi, ti auguro, signora, di ritrovare presto il visconte Le Hussière e con lui riacquistare la felicità perduta.
L’ultima parola gli si era spenta in un sordo singhiozzo.

La duchessa d’Eboli si era alzata a sedere, tendendo la destra all’arabo. Il selvaggio figlio del deserto tornò verso il lettuccio improvvisato, piegò
un ginocchio a terra e depose sulla bianca mano un lungo bacio che fece alla giovane l’effetto d’un ferro rovente applicato sulla sua pelle.
— Va’, mio buon El-Kadur, — diss’ella con un sospiro. L’arabo si era alzato di colpo cogli occhi fiammeggianti.

— O il Leone di Damasco ti salverà, padrona, o lo ucciderò, — disse con voce energica.
Levò rapidamente i massi e strisciò attraverso l’apertura, come una belva che esce dalla tana, mentre la duchessa mormorava:
— Povero El-Kadur! Quanta fedeltà e quanti tormenti nel tuo cuore!

L’arabo, appena fuori, si era lasciato scivolare giù dall’enorme massa di macerie che copriva tutta la base della torre e si era diretto là dove vedeva brillare dei falò giganteschi che indicavano il campo turco, improvvisato nel centro della città.
Non sapeva dove avesse preso alloggio il Leone di Damasco, ma trattandosi del figlio d’un pascià e d’uno dei più valorosi e più popolari guerrieri delle orde mussulmane, era sicuro di poterlo sapere subito.
Le vie di Famagosta erano immerse nell’oscurità, ritenendosi ormai i turchi pienamente sicuri da ogni sorpresa, dopo che avevano sterminata

non solo l’eroica guarnigione, bensì anche gli abitanti atti ad impugnare le armi e lo scudo.
I suoi occhi però distinguevano senza fatica cumuli di cadaveri ancora insepolti, che torme di cani affamati dilaniavano ferocemente, per rimettersi dai lunghissimi digiuni sofferti in tanti mesi d’assedio.
El-Kadur, dopo essere sfuggito tre o quattro volte agli assalti di quelle bestie che sembravano idrofobe, prendendo i più feroci a colpi di jatagan, giunse ben presto sulla vasta piazza fronteggiante la vecchia chiesa di San Marco che riproduceva più modestamente però ed in minori proporzioni, quella famosa di Venezia.
Un centinaio di giannizzeri, armati fino ai denti, bivaccavano intorno ai fuochi, fumando e chiacchierando, mentre delle sentinelle vegliavano agli angoli della piazza e dinanzi ad alcune abitazioni sfuggite miracolosamente al fuoco infernale delle artiglierie mussulmane.
Un albanese che stava seduto sui gradini della chiesa, scorgendo l’arabo, gli puntò contro un moschettone la cui miccia bruciava, chiedendogli:
— Chi sei e dove vai?

— Vedi bene che io sono un arabo e non un cristiano, — rispose lo schiavo. — Sono un soldato di Hossein pascià.
— Che cosa vieni a fare qui?

— Ho da comunicare un ordine urgente al Leone di Damasco. Sai dirmi dove si trova alloggiato?
— Chi ti manda?

— Il mio pascià.

— Non so se Muley-el-Kadel sarà ancora sveglio.

— Sono appena le nove.

— È ancora sofferente, tuttavia vieni. Alloggia in una di queste case. Spense la miccia del suo archibugio, si gettò l’arma a bandoliera e si

diresse verso una casetta di meschina apparenza, le cui pareti erano state bucate in varii luoghi dalle bombe mussulmane e dinanzi alla quale vegliavano due schiavi negri di forme erculee e due enormi cani arabi.
— Svegliate il vostro padrone, se si è già coricato, — disse l’albanese ai due negri. — Vi è qui un messo di Hossein pascià che deve parlargli.
— Il padrone è ancora sveglio rispose uno dei due schiavi, dopo aver osservato sospettosamente l’arabo.
— Va’ dunque ad avvertirlo, — disse l’albanese. — Hossein è un pascià che non ischerza e che gode l’amicizia del gran vizir.
Lo schiavo entrò nella casa, mentre l’altro si poneva dinanzi alla porta coi due cani, e poco dopo ne usciva dicendo all’arabo:
— Seguimi: il padrone t’aspetta.

El-Kadur strinse sotto l’ampio mantello la guardia dello jatagan ed entrò risolutamente, deciso a tutto, anche ad assassinare il figlio del potente pascià di Damasco, in caso di pericolo.
Il turco lo aspettava in una stanzetta a pianterreno, ammobiliata meschinamente ed illuminata da una semplice torcia infissa in un fiasco di terracotta. Era ancora un po’ pallido per la ferita non ancora completamente cicatrizzata, ma sempre bellissimo, con quegli occhioni neri e profondi, degni di illuminare il volto di una urì del paradiso maomettano ed i baffettini elegantemente arricciati.

Quantunque ancora invalido, indossava una splendida cotta di acciaio, attraversata sotto i fianchi da una larga sciarpa di seta azzurra sorreggente la scimitarra ed un ricchissimo jatagan, coll’impugnatura d’oro adorna di turchesi.
— Chi sei tu? — chiese all’arabo, dopo d’aver fatto cenno al suo schiavo di lasciarli soli.
— Il mio nome non ti direbbe nulla, — rispose l’arabo. — Mi chiamo El- Kadur.
— Mi sembra d’averti veduto ancora.

— È probabile.

— È Hossein pascià che ti manda?

— No: ho mentito.

Muley-el-Kadel aveva fatto due passi indietro, mettendo rapidamente una mano sull’impugnatura della scimitarra, senza però sguainarla.
El-Kadur lo rassicurò con un gesto, dicendo subito:

— Non credere che io sia qui venuto per attentare alla tua vita.

— Allora perchè hai mentito?

— Perchè diversamente non mi avresti ricevuto.

— Quale motivo ti ha costretto a servirti del nome di Hossein pascià? Chi ti ha mandato?
— Una donna a cui devi la vita, — rispose El-Kadur con voce grave.

— Una donna! — esclamò il turco, facendo un gesto di stupore.

— Anzi, una gentildonna cristiana, appartenente alla più alta nobiltà italiana.
— Ed alla quale io debbo la vita!

— Sì, Muley-el-Kadel.

— Tu sei pazzo. Io non ho mai conosciuto alcuna gentildonna italiana, come nessuna femmina mi ha mai salvata la vita. Il Leone di Damasco può salvare sè stesso senza bisogno d’alcun aiuto.
— T’inganni, Muley-el-Kadel, — disse l’arabo, con voce calma. — Senza la generosità di quella donna tu non avresti assistito alla presa di Famagosta. La tua ferita non è ancora cicatrizzata.
— Ma di chi intendi parlare tu? Di quel giovane capitano che mi ha scavalcato?
— Sì, di Capitan Tempesta.

— Spiegati meglio.

— Quella era la gentildonna italiana che ti ha risparmiata la vita, mentre avrebbe potuto togliertela avendone il diritto.
— Che cosa dici tu! — esclamò il turco, arrossendo e poi impallidendo.
— Quel capitano che si batteva come un dio della guerra era una donna! No! È impossibile! Non avrebbe potuto vincere ed atterrare il Leone di Damasco.
— Quella era la duchessa d’Eboli, nota fra i cristiani sotto il nome di
Capitan Tempesta — disse El-Kadur.

La sorpresa di Muley-el-Kadel divenne tale che per parecchi istanti fu incapace di parlare.

— Una donna! — esclamò finalmente, con accento di dolore. — Il Leone di Damasco è disonorato e più non mi resta che infrangere la mia scimitarra.
— No, un prode come te non può spezzare la più valorosa lama dell’esercito turco, — disse l’arabo. — La donna che ti ha vinto è d’altronde la figlia del più formidabile spadaccino che abbia vantato Napoli.
— Non è lui che mi ha vinto, — rispose il turco, quasi con un singhiozzo.
— Io, scavalcato da una donna! L’onore del Leone è per sempre perduto!
— Colei che ti ha ferito è una gentildonna, Muley-el-Kadel.

— Che mi avrà ben disprezzato.

— No, perchè è la tua avversaria che viene ora a far appello alla generosità del Leone di Damasco.
Un lampo balenò negli occhi del giovane turco.

— La mia nemica ha bisogno di me? Non è dunque morto Capitan
Tempesta?

— È vivo, quantunque una scheggia di pietra l’abbia ferito.

— Dov’è? Voglio vederlo! — gridò Muley-el-KadeL.

— Per farla uccidere? La mia padrona è una cristiana.

— Chi sei tu?

— Il suo fedele schiavo.

— Ed è la duchessa che ti ha mandato da me?

— Sì.

— Per chiedermi che io l’aiuti a fuggire da Famagosta?

— E forse per qualche cosa d’altro ancora.

— Non correrà alcun pericolo durante la tua assenza?

— Non credo: il suo rifugio è sicuro e poi non è sola.

— Chi veglia su di lei?

— Il suo tenente.

Muley-el-Kadel tolse da una sedia un mantello di lana oscura, prese da una tavola due lunghe pistole coi calci intarsiati d’argento e di madreperla, e disse all’arabo:
— Conducimi dalla tua padrona.

El-Kadur lo guardò con diffidenza.

— Chi mi assicura, Muley-el-Kadel che non sia per tradirla? Un vivo rossore imporporò le gote del turco.

— Tu diffidi di me? — chiese con accento indignato. Poi riprese dopo un momento di silenzio:

— Hai ragione: ella è cristiana ed io sono un turco, un nemico della sua razza, ma sappi che io ho disapprovato le crudeltà commesse dal gran vizir, crudeltà che hanno disonorato per sempre le armi ottomane.
Io non so se tu, come arabo, sei un cristiano od un seguace del Profeta, ma tu certo devi conoscere il Corano e non devi ignorare che un turco non giura su quel libro sacro, dettato dalla penna di luce dell’arcangelo Gabriele, per un capriccio.

Noi troveremo presso qualche muezzin uno di quei libri ed io giurerò solennemente in tua presenza, di salvare la tua padrona alla quale debbo la vita. Lo vuoi?
— No, signore, — rispose l’arabo. — Ti credo senza che tu giuri. Sapevo che il Leone di Damasco sarebbe stato non meno generoso della duchessa d’Eboli mia padrona.
— Dove si trova?

— Nascosta in una casamatta.

— Ferita gravemente?

— No.

— Avete nulla da mangiare là dentro?

— Solo del vino di Cipro e delle olive.

Muley-el-Kadel batté le mani ed un momento dopo entravano i due schiavi negri.
Scambiò con loro alcune parole in una lingua sconosciuta ad El-Kadur, poi disse ad alta voce in arabo:
— Seguimi: questi uomini ci raggiungeranno.

Uscirono dalla casa, attraversarono la piazza senza che le sentinelle osassero fermarli e s’avviarono lentamente verso la torre, come due guerrieri incaricati di fare la ronda dietro le mura di circonvallazione.
Si erano allontanati dalla piazza di tre o quattrocento passi, quando furono raggiunti da due negri i quali portavano due ampi panieri e tenevano a guinzaglio i due alani arabi.

Un drappello di giannizzeri che frugava fra le macerie delle case colla speranza di trovarvi nascosto qualche cristiano, si provò a fermarli.
— Andatevene o vi faccio frustare come cani, — gridò Muley-el-Kadel.
— Fate largo al Leone di Damasco. Non siete dunque ancora sazi di stragi?
Nessuno ebbe l’audacia di rispondere al figlio del potente pascià e si dileguarono subito a corsa furiosa, lasciando libero il passo.
Muley-el-Kadel si assicurò prima che non vi fosse alcuno intorno alla torre, poi seguì l’arabo attraverso le rovine, sempre accompagnato dai due schiavi e dai cani.
Appena si trovò nella casamatta, che era ancora illuminata dalla torcia, il turco si sbarazzò del mantello e dopo d’aver scambiato con Perpignano un cortese saluto, s’accostò rapidamente al lettuccio su cui si trovava la duchessa d’Eboli ancora sveglia.
— La donna che mi ha vinto? — esclamò con una certa commozione. —
Vi ravviso, signora!

Si era curvato posando un ginocchio a terra, come un gentiluomo europeo, fissando i suoi occhi nerissimi in quelli della duchessa.
— Signora, — disse con nobiltà. — Non è un nemico quello che vi sta dinanzi: è un amico che ha avuto l’occasione di ammirare il vostro straordinario coraggio e che non serba alcun rancore di essere stato vinto da una giovane donna. Comandate: il Leone di Damasco è pronto a salvarvi ed a pagare il suo debito.

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