I cristiani alla pesca delle sanguisughe

Quando i cavalieri lasciarono l’altura su cui sorgeva la rocca e raggiunsero le terre basse, formate da pianure ondulate, sulle quali non crescevano che pochi gruppi di palmizi e di fichi d’india altissimi, con enormi spatole spinose, il sole era già ben alto.
Anche quel tratto di paese, quantunque lontano da Famagosta, mostrava le tracce del passaggio dei turchi, quei terribili devastatori che non lasciavano dietro di loro altro che rovine e cadaveri.
Le fattorie che un giorno dovevano essere state numerose in quel luogo e anche fiorenti, essendo sempre stata l’isola feracissima, erano scomparse o tutt’al più mostravano qualche miserando avanzo: qualche muro annerito dalle fiamme e dal fumo, qualche tettoia sgangherata che si reggeva per un miracolo d’equilibrio, qualche lembo di campagna coltivata a vigneti.
Il capitano turco fingeva di nulla vedere, ma nulla sfuggiva agli sguardi dei cristiani e soprattutto a quelli di papà Stake. Il brav’uomo, senza preoccuparsi se il mussulmano potesse udirlo, non cessava di brontolare.
— Briganti! Hanno distrutto tutto: persone e cose. Quando verrà per questi cani l’ora della punizione? Bah! La Repubblica non lascerà invendicate tante vittime. Se così non avvenisse mi farò turco anch’io allora.

Dopo una mezz’ora di galoppo furioso, poichè i cavalli scelti dal turco erano dei veri arabi, il drappello si trovò quasi improvvisamente in una bassura, dove si scorgevano dei numerosi stagni di dimensioni piuttosto vaste e coperti da folti canneti dalle foglie giallastre, che tradivano la presenza della febbre celata in mezzo alle radici decomposte ed al fango del fondo.
Sulle rive d’una di quelle piccole paludi, alcuni uomini seminudi s’aggiravano, armati di lunghi bastoni, occupati, a quanto pareva, a rimescolare la melma ed a smuovere i canneti.
— Ecco i primi pescatori di sanguisughe, signore, — disse il turco, rallentando lo slancio del suo cavallo.
— Sono quelli i prigionieri di Nicosia? — chiese la duchessa, facendo uno sforzo supremo per non tradire la profonda emozione che l’angosciava.
— No, sono degli schiavi epiroti, costoro, — rispose il capitano. — Non vedi che sono guardati da soli quattro giannizzeri?
Vieni a vedere come lavorano quegli uomini, così ti formerai un’idea sul modo con cui lavorano i cristiani di Nicosia e come li tratta la nipote del Pascià. Non è un mestiere troppo piacevole, te lo assicuro, e per mio conto preferirei morire magari sulla punta d’un palo o meglio ancora con un laccio di seta attorno al collo.
La duchessa non rispose: si sentiva il cuore stretto da un’angoscia inesprimibile, pensando che Le Hussière, il suo fidanzato, in quel momento subiva i martirî orrendi di quei disgraziati epiroti, sfruttati così inumanamente dalla crudele nipote del Pascià.

Il capitano spinse il cavallo verso una tettoia formata di canne, sotto la quale quattro brutti ceffi di soldati, colle fasce riboccanti di pistoloni e di jatagan, stavano preparandosi il caffè e diede loro ordine di far subito lavorare gli schiavi per mostrare al figlio del governatore di Medina come si esercitava la pesca delle mignatte.
I giannizzeri piantarono le tazze e dopo d’aver presentate le armi all’alto personaggio che si degnava di visitare gli stagni morti, con un fischio fecero uscire da un’altra tettoia una decina e mezza d’uomini, che all’apparire del drappello avevano abbandonata la riva.
Un grido d’orrore era subito sfuggito dalle labbra dei cristiani, mentre il capitano prorompeva invece in una risata sgangherata, dicendo poi, con crudele cinismo:
— Come sono buffi! I cani avranno ben poco da rosicchiare, quando questi miserabili avranno finito di raccogliere mignatte. Si vede che non si mantengono con polpe di polli i pescatori degli stagni morti!
Lo spettacolo che offrivano quei disgraziati epiroti era così orribile da far fremere perfino papà Stake, il quale ne aveva pure veduti ben altri, nella sua lunga vita di marinaio.
Erano tutti spaventosamente sparuti, magri tanto da mostrare tutte le costole e le tibie. Le loro gambe, che non avevano più ormai che la pelle e pochi muscoli, apparivano coperte da piaghe sanguinolenti prodotte dai morsi delle sanguisughe.
I loro occhi erano velati come quelli dei moribondi e le palpebre purulente pareva che non le alzassero che con grande fatica.
Un tremito continuo scuoteva quei miserabili, come se una febbre incessante li divorasse.

— Questi uomini stanno per morire! — esclamò la duchessa, facendo un gesto d’orrore.
Il turco alzò le spalle.

— Sono schiavi cristiani, — disse poi con noncuranza. — Morti non valgono nulla; vivi possono servire ancora a qualche cosa: mi sembra che Haradja abbia avuto una buona idea. Che cosa volevate che ne facesse? Mantenerli a sue spese? Almeno così rendono e bene.
— Qualche misero zecchino, — disse Nikola, che faceva degli sforzi prodigiosi per non balzare addosso al turco e tagliargli la gola con un buon colpo di jatagan.
— Quattro e qualche volta cinque al giorno, — rispose il capitano. — Ti pare che sia poco?
— La nipote del pascià non può aver bisogno d’una simile somma e farebbe meglio a mostrarsi più umana verso questi disgraziati, — disse la duchessa, con voce fremente.
— Haradja ama molto il denaro, signor Hamid. Suvvia, giannizzeri, fateli lavorare. Non abbiamo tempo da perdere.
I soldati s’armarono di nodosi randelli e li levarono minacciosamente, gridando agli epiroti che guardavano, come istupiditi, i cavalieri:
— In acqua, bricconi! Vi siete abbastanza riposati e se non lavorate bene, questa sera non avrete acquavite.
I miseri piegarono la testa con rassegnazione e scesero fra le canne dello stagno, non senza aver prima un po’ esitato e si misero a rimescolare il fondo fangoso con dei bastoni.

La pesca delle mignatte si opera nel modo elementare tramandatoci dagli antichi greci e persiani, i quali sono ancora i migliori pescatori, avendo nei loro paesi molte paludi abitate da miriadi di quelle crudeli eppur così utili bestioline.
Sono sempre gli uomini che servono da esca, offrendo le loro gambe ai morsi dolorosi delle abitatrici degli stagni fangosi e puzzolenti, trasudanti dalle loro canne le terribili febbri palustri.
Anche oggidì il sistema non è cambiato nè in Grecia, nè in Persia, nè a
Candia, nè a Cipro, luoghi ove quella strana industria è sempre fiorente.

Si capisce che non sono più schiavi che esercitano quel pericoloso mestiere, che a poco a poco li ridurrà degli scheletri, che nè l’acquavite, nè le orge continue rimetteranno mai in gambe e tanto meno in polpe.
Non sono nemmeno greci e nemmeno persiani. I pescatori odierni appartengono a quella classe di spostati, piovuti da tutti i paesi dell’Europa, che a poco a poco hanno inondato le città del levante, facendo tutti i mestieri possibili e vivendo come possono.
Sono dei veri miserabili, dei viziosi, che non hanno che un solo desiderio: quello di ubriacarsi e di guadagnare quanto più possono a detrimento della loro salute.
Quando comincia la vera stagione della pesca, giungono agli stagni, improvvisano delle miserabili capanne formate di vimini e si mettono alacremente al lavoro. Quelli che hanno qualche soldo ancora, si provvedono di qualche vecchio cavallo il quale serve meglio da esca che le gambe tutt’altro che grasse dei pescatori.
Povere bestie che non dureranno più di tre o quattro settimane, perchè nessuno si occuperà di loro per rimetterli in forze.

Le cacciano a furia di legnate nelle acque fangose, là dove le mignatte si tengono attaccate in gran numero ai gambi delle canne e ve le trattengono a forza finchè le loro zampe, il ventre, i fianchi ne sono coperti.
Quando la loro pelle non forma altro che uno strato viscido, nero, ributtante, si tolgono dall’acqua. Si sbarazzano delle voraci bestioline, che vengono collocate con cura entro barilotti traforati e semipieni di giunchi abbondantemente bagnati, poi si lasciano un po’ in libertà, onde riacquistino un momento di forza, poi l’atroce supplizio ricomincia finchè il povero animale, completamente sfinito, o s’annega nello stagno o cade al suolo per non rialzarsi più.
Gli uomini invece, come abbiamo detto, offrono le loro gambe. Rimangono immersi fino a che non sono coperte di mignatte, resistendo eroicamente ai dolorosi morsi, poi salgono la riva e si sbarazzano frettolosamente delle bestioline onde non li dissanguino troppo.
Alla sera quei miserabili sono così sfiniti, da non potersi reggere sulle gambe, nè da essere in grado di prepararsi da mangiare. L’acquavite od altre bevande spiritose, assorbite in quantità prodigiose, danno però loro una forza fittizia sufficiente per riprendere all’indomani il loro pericoloso mestiere.
I guadagni, piuttosto lauti, permettono loro di abbandonarsi a orge d’alcools, poichè un buon pescatore non chiude la sua giornata senza avere in tasca venti o venticinque lire.
Quando però la stagione, che dura ordinariamente tre mesi, finisce, quei poveri pescatori sono ridotti in uno stato che desta raccapriccio a chi li vede.

Non sono uomini, sono ombre, coi nasi affilati, gli occhi infossati, i dorsi ischeletriti, le gambe senza carne, coperti di piaghe e magri come se fossero diventati trasparenti.
Persino la loro voce non ha più nulla di umano. È un sibilo rauco che si stenta a comprendere e la febbre chissà per quanti mesi farà tremare e sussultare i loro poveri corpi.
E nondimeno, malgrado tante sofferenze, malgrado tante torture, all’apertura della nuova stagione si vedranno ritornare sulle rive dei melmosi stagni e riprendere il loro lugubre mestiere che li spegnerà forse prima dei quarant’anni…
Gli epiroti, al grido minaccioso dei giannizzeri o meglio delle curve che descrivevano in aria i nodosi bastoni, si erano gettati nello stagno, senza osar nemmeno di protestare contro quella crudele ingiunzione, tanto erano ormai deboli per l’immensa quantità di sangue perduto.
Erano in quindici, eppure non avrebbero potuto tentare nessuna resistenza contro quei quattro giannizzeri, quantunque fossero tutti armati di solidi bastoni che, dato il numero, avrebbero potuto avere facilmente il sopravvento sugli jatagan e fors’anche sulle pistole, dal tiro molto problematico, dei loro guardiani.
Delle grida e dei gemiti sommessi sfuggiti a quei disgraziati, avvertirono ben tosto la duchessa ed i suoi compagni che le sanguisughe cominciavano a mordere le gambe, succhiando avidamente il poco sangue che ancora trovavano.
Un pescatore, che doveva averne già un bel numero attaccate ai suoi polpacci, tentò di risalire la sponda non potendo più resistere ai crudeli

morsi, quando un giannizzero gli piombò addosso, facendo fischiare il suo bastone e urlandogli contro:
— Non ancora, cane. Aspetta di essere ben coperto. Non sei carne di
Maometto, tu!

Papà Stake che era disceso da cavallo per meglio osservare la pesca, senza pensare che quell’atto poteva tradirlo, con una mossa rapida era piombato sul crudele turco, gridandogli:
— Canaglia! Non vedi che non può resistere? Vuoi che ti getti nello stagno? Sei un brigante che non avresti compassione nemmeno d’un cane!
Il mussulmano, non abituato certo a quel linguaggio, si era voltato guardando con stupore quell’uomo che teneva il pugno alzato come se volesse accopparlo.
— È un cristiano costui! gli disse.

— Ed io che sono più turco di te, ti dico che se non lo lasci tornare alla riva ti getto in mezzo alle mignatte e che non ti lascerò uscire finchè non sarai dissanguato completamente! — urlò papà Stake, afferrandolo pel colletto. — Mi hai capito, brigante? Tu disonori Maometto e tutti i suoi seguaci!
— Che cosa fai? — gridò il capitano, rivolgendosi al mastro.

— Lo strangolo, — rispose papà Stake, stringendo ambo le mani attorno al collo del giannizzero.
— Comando io qui, in mancanza d’Haradja, la nipote del Pascià.

La duchessa si era rizzata sulle staffe guardando cogli occhi fiammeggianti il capitano.

— Da’ ordine che quei miseri si ritirino! — gridò con voce fremente. — Sono il figlio del Pascià di Medina e valgo meglio di te e della tua padrona! Mi hai compreso! Vinco il Leone di Damasco e vincere anche te sarebbe per me un giuoco da fanciulli! Obbedisci!
Il capitano, udendo il tono risoluto ed imperioso del giovane, il quale aveva già portata la destra all’impugnatura della scimitarra, facendogli comprendere che era pronto a levarla dal fodero e, spaventato dall’aspetto risoluto della numerosa scorta, si era affrettato a gridare ai giannizzeri:
— Lasciate che i pescatori tornino alle loro capanne. Oggi è giorno di riposo per festeggiare la visita di Hamid, figlio del pascià di Medina.
I quattro soldati, abituati ad obbedire ai grandi personaggi dell’impero, gettarono i loro randelli e lasciarono libero il passo ai pescatori.
La duchessa cacciò una mano in una fonda della sella che il Leone di Damasco aveva fatta riempire di zecchini e levato un pugno di monete le gettò al suolo, dicendo con voce altezzosa:
— Che quest’oggi si dia a quegli uomini doppia razione di acquavite e pasto abbondante, più uno zecchino per ciascuno.
Se voi non mi obbedirete, al mio ritorno vi farò tagliare gli orecchi. Mi avete capito? Il resto sarà per voi!
Poi, dopo d’aver fatto ai pescatori, che la guardavano come inebetiti, un amichevole gesto d’addio, spronò il cavallo, dicendo al capitano che pareva spaventato:
— Conducimi dalla nipote del Pascià. Desidero vederla subito.

— Mille diavoli scatenati! — borbottò papà Stake. — Questa signora è un vero prodigio!
Io non sarei mai riuscito a farmi obbedire così, nemmeno se fossi diventato grande ammiraglio dell’armata turca! Non finirò mai di ammirare abbastanza lo spirito di questa donna!
I cavalieri avevano ripresa la corsa, passando fra ampi stagni coperti di folti canneti che non dovevano essere stati ancora sfruttati, a giudicarlo dal tremolìo che subivano le acque fangose. Legioni e legioni di sanguisughe dovevano trovarsi ancora là dentro, in attesa che qualche magro cavallo o le gambe ischeletrite dei pescatori andassero ad offrirsi alle loro bocche.
Non erano trascorsi dieci minuti, quando il capitano, che si era nuovamente messo alla testa del drappello, additò alla duchessa che lo seguiva da vicino, una magnifica ed ampia tenda di seta rossa, eretta sulla riva d’un vasto bacino, sulla cui cima si vedevano ondeggiare, alla brezza mattutina, tre code di cavallo sormontate da mezzelune che parevano d’argento.
— Che cos’è? — chiese la giovane.

— La tenda della nipote di Alì pascià — rispose il capitano.

— Ama soggiornare qui?

— Qualche volta, per sorvegliare il lavoro dei cristiani e divertirsi dei loro spasimi.
— E quella donna spererebbe di farsi amare dal Leone di Damasco, che è l’uomo più generoso dell’esercito turco! disse la duchessa con disprezzo.

— Almeno lo spera.

— Un leone non diverrà mai sposo d’una tigre!

— Non avevo mai pensato a questa verità; — disse il turco che pareva fosse stato colpito da quell’osservazione. — Se lo dici tu, che sei amico di Muley-el-Kadel, temo che Haradja lo aspetti un bel po’. Io, veramente, non ci avevo mai pensato. Ci siamo! Preparati ad incontrarti colla nipote del pascià.
Costeggiarono la palude e si arrestarono dinanzi alla sontuosa tenda, intorno alla quale si rizzavano delle miserabili capannucce guardate da una trentina di arabi e di guerrieri dell’Asia Minore, armati fino ai denti.
— Vieni, signore, — disse il capitano. — Haradja starà sorbendo il caffè e fumando il suo scibouk, essendo abituata ad infischiarsi degli editti di Selim. Ella non teme che le venga tagliato il naso.
— Introducimi, — gli disse risoluta la duchessa, balzando a terra.

Il capitano fece cenno ai quattro arabi, che vegliavano dinanzi alla tenda colle scimitarre sguainate, di scostarsi e si cacciò sotto il padiglione dicendo:
— Signora, vi è qui un messo di Muley-el-Kadel.

— Avanti, — rispose una voce che aveva qualche cosa di metallico e di duro. — Sia data larga ospitalità agli amici del prode ed invincibile Leone di Damasco!

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