Il castello d’Hussif

Il castello d’Hussif era una delle rocche più formidabili che i veneziani avessero costruito per conto della regina Caterina Comaro, allo scopo di sorvegliare una buona parte della costa occidentale di Cipro dalle incessanti scorrerie dei corsari egiziani e turchi, padroni di tutto il Mediterraneo occidentale(1).
Era stato eretto su una collinetta dominante il mare, in un punto ove la rupe cadeva a picco, e l’avevano munito di torri massicce armate d’un buon numero di bocche da fuoco.
Quel baluardo aveva opposto una lunga e tenace resistenza ai turchi di Mustafà e chissà quanto avrebbero potuto prolungare la resistenza, senza il concorso di Alì pascià e delle sue cento galere.
La rocca, assalita poderosamente dalla parte del mare, bersagliata notte e giorno da più di ottocento colubrine, aveva dovuto finalmente cedere sotto l’assalto di cinquantamila marinai e la guarnigione, come solevano fare quei crudeli guerrieri della Mezzaluna, era stata passata a fil di spada.

Riattata alla meglio, giacchè i suoi bastioni avevano lungamente sofferto da quel formidabile bombardamento, che aveva esaurite le polveriere

(1) Così nel testo. Più correttamente “Mediterraneo orientale” nell’edizione RCS, Milano
2002. [Nota per l’edizione elettronica “Manuzio”]

della imponente flotta, era stata affidata alla nipote del pascià, donna giovane ed a quanto si diceva bellissima, audace e coraggiosa e soprattutto implacabile nemica dei cristiani come il grande ammiraglio di Selim.
La duchessa, scorgendo il castello che i primi chiarori dell’alba facevano spiccare vivamente sulla cima del gigantesco dirupo, aveva provato suo malgrado una stretta al cuore. Avrebbe trovato il signor Le Hussière, il suo fidanzato, ancora vivo o la cattiva turca lo aveva fatto morire di stenti e di maltrattamenti?
El-Kadur, che pareva avesse indovinato il pensiero che tormentava la sua padrona, si era accostato alla giovane donna, la quale si era fermata sull’orlo d’un burroncello per osservare meglio la rocca.
— Tu pensi al visconte, è vero, padrona? — le chiese.

— Sì, El-Kadur, — rispose la duchessa, con accento triste.

— Temi che la nipote del pascià te l’abbia ucciso?

— Come fai tu ad indovinare i miei pensieri?

— Lo schiavo si abitua a prevedere i desideri del suo padrone, —
rispose l’arabo con una certa amarezza.

— Credi tu che sia vivo ancora?

— Non l’avrebbero risparmiato dopo la presa di Nicosia. Se l’hanno condotto qui, vuol dire che i turchi hanno capito che il visconte valeva una somma. Avanti, signora: fra poco verremo scoperti dalla guarnigione della rocca.

Si erano impegnati su uno stretto sentiero, scavato nella viva roccia, costeggiante il mare, un sentiero che pochi uomini, e anche malamente armati, avrebbero potuto difendere contro un esercito.
Al di sotto s’apriva l’abisso, in fondo a cui muggivano cupamente, con strani fragori, le onde del Mediterraneo.
Nikola vi si era avventurato risolutamente, dopo d’aver pregato la duchessa di tenersi bene addosso alla parete e di non guardare troppo il mare onde non venire colta dalle vertigini.
Dopo essersi inoltrati per dieci minuti, senza aver incontrata alcuna sentinella, ritenendosi i turchi ormaì troppo sicuri per temere un assalto da parte dei cristiani, già quasi tutti sterminati, per prendere delle precauzioni, i greci ed i loro compagni si trovarono improvvisamente dinanzi ad una vastissima piattaforma sulla quale giganteggiava il massiccio castello.
Un turco che vegliava su di una delle torri, scorgendo quel gruppo armato, aveva subito gridato:
— Allarmi!

Un gruppo di giannizzeri, comandato da un capitano della marina ottomana, si era tosto avanzato sul ponte che attraversava il fossato, scavato intorno al castello.
— Siamo amici, — disse Nikola, che parlava correttamente il turco e anche l’arabo, facendo cenno ai giannizzeri di abbassare gli archibugi.
— Da dove venite? — chiese il capitano, senza ringuainare la scimitarra.

— Da Famagosta.

— Che cosa desiderate?

— Siamo incaricati di scortare il capitano Hamid, figlio del pascià di
Medina.

— Dov’è?

— Eccomi, — disse la duchessa, facendosi innanzi ed in buona lingua araba che aveva ben appresa da El-Kadur.
Il turco la guardò attentamente, non celando un certo stupore, poi la salutò colla scimitarra, dicendo:
— Il Profeta conceda mille anni di felicità a te e a tuo padre. Haradja, la nipote di Alì pascià sarà felice di ospitarti. Seguimi, signore.
— Potranno venire i miei uomini?

— Sono tutti turchi?

— Sì.

— Saranno anche essi ospiti di Haradja. Ne prendo l’impegno io.

Fece cenno ai giannizzeri di fare largo e condusse il drappello nel cortile d’onore della rocca, che era circondato da vasti porticati di stile arabo, con bei colonnati di pietra ancora in ottimo stato, quantunque le palle della flotta turca avessero dovuto cadere in buon numero anche colà, come lo dimostravano le profonde buche, non ancora riempite, che si scorgevano nel terreno.
Il turco fece sedere la duchessa su un ricco tappeto, che occupava tutto l’angolo del porticato, facendo segno alla scorta di disporsi fuori delle colonne, all’ombra d’una grande palma che stendeva le sue pittoresche foglie piumate su un largo tratto.

Subito quattro schiavi negri erano accorsi portando chi dei cuscini di seta, chi dei vassoi d’argento con chicchere colme di moka fumante e gelati e dolci.
La duchessa, che conosceva le abitudini degli orientali, vuotò una tazzina di caffè, assaggiò un piccolo pasticcio, poi, compiuta quella formalità, si sedette su un cuscino, dicendo al turco che aspettava di essere interrogato:
— Dov’è la nipote del pascià? Dorme ancora?

— Haradja è abituata, ad alzarsi prima dei suoi guerrieri, — rispose il turco. — Quando la quarta scolta annuncia l’alba è sempre in piedi.
— Perchè non la fai chiamare, ora che sai chi io sono?

— Non si trova qui in questo momento, — rispose il capitano che parlava, oltre la sua lingua natia, anche l’arabo. — È partita un’ora fa per andare a sorvegliare i cristiani che ella impiega nella pesca delle sanguisughe. I molti ammalati di Famagosta ne hanno urgente bisogno ed il sangue cristiano sembra che sia molto gradito da quelle bestioline.
— Che cosa dici? — chiese la duchessa, facendosi pallida. — Haradja impiega i prigionieri cristiani nella pesca delle sanguisughe!
— Non vi sono più abitanti in questa regione. Doveva mandare i suoi soldati a farsi a poco a poco dissanguare? rispose il turco. — Chi avrebbe allora difesa la rocca se i veneziani avessero mandata in queste acque qualche flotta?
È meglio che muoiano i cristiani, che d’altronde per noi sono di grande impiccio e che forse mai saranno in grado di pagare delle grosse taglie.

— Voi li farete morire a poco a poco! — esclamò la duchessa, che faceva sforzi prodigiosi per non dare libero sfogo alla sua indignazione.
— Certo che finiranno per lasciarci la pelle, — rispose il turco, con noncuranza. — Haradja non lascia loro sufficiente riposo, affinchè il sangue levato dalle sanguisughe abbia il tempo di rinnovarsi nei loro corpi.
— A me, quantunque nemico acerrimo dei cristiani, sembra che ciò sia una crudeltà inaudita che non fa troppo onore ad una donna.
— Che cosa vuoi, signore, la nipote del pascià la pensa così, e siccome è lei che qui comanda, non è permesso a nessuno fare delle osservazioni, nemmeno a me.
— Quanti prigionieri avete qui?

— Una ventina.

— Giunti da Nicosia?

— Sì: appartenevano a quel presidio e credo che siano tutti nobili.

— Li conosci per nome?

— Alcuni sì.

— Vi è fra costoro un capitano che si chiama Le Hussière? — chiese la duchessa con voce trepidante.
— Le Hussière! — mormorò il turco — Oh! Sì, un gentiluomo francese ai servigi della Repubblica Veneta… Sì, è anche lui alla pesca delle sanguisughe.
La duchessa si era morse le labbra per trattenere il grido che stava per proromperle dal petto. Si terse con un moto nervoso alcune stille di

sudore freddo che le bagnavano il viso, poi dopo qualche istante di silenzio, necessario perchè riacquistasse la calma primiera, disse:
— È per quel gentiluomo che io sono venuto.

— Si vorrebbe liberarlo?

— Sono incaricato di condurlo a Famagosta.

— Chi ti ha dato questo ordine, signore?

— Muley-el-Kadel.

— Il Leone di Damasco! — esclamò il capitano, facendo un gesto di stupore. — Come può, quel prode fra i prodi, interessarsi di Le Hussière?
— Io lo ignoro.

— Non so però, signore, se la nipote del pascià vorrà cederglielo. Credo che ci tenga molto ai suoi prigionieri e poi Muley-el-Kadel dovrà pagare un buon riscatto.
— Il Leone di Damasco è abbastanza ricco per pagare la libertà d’un prigioniero.
— So che suo padre è uno dei più grandi personaggi dell’impero, cognato del Sultano e quindi padrone di tesori incalcolabili.
— Quando tornerà la nipote di Alì? Io non posso fermarmi a lungo qui, avendo molte cose da sbrigare a Famagosta e un’altra missione da compiere per conto di Mustafà.
Il turco stette un po’ pensieroso, poi rispose:

— Vuoi che ti accompagni agli stagni morti? Là vedrai Haradja e anche il prigioniero.
— Sono lontani?

— Appena una mezz’ora di cavallo. Abbiamo dei buoni corsieri arabi qui e ne metterò a disposizione tua e della scorta.
— Accetto, — disse la duchessa.

— Vado a scegliere i migliori ed a farli insellare, — disse il turco alzandosi. — Fra pochi minuti, signore, noi lasceremo la rocca.
Appena si fu allontanato per dare gli ordini necessari, Nikola e Perpignano si erano subito avvicinati alla duchessa, la quale sembrava accasciata.
— È qui dunque il visconte? — chiese il veneziano.

— Sì, — rispose la giovane — e chissà in quale miserando stato noi lo troveremo.
— Perchè, signora? — chiese il greco.

— Lo hanno mandato, insieme agli altri prigionieri, a pescare le sanguisughe negli stagni morti.
— Canaglie! — borbottò il greco, facendosi oscuro in viso.

— Forse che è molto faticosa quella pesca? — chiese Perpignano.

— Dite terribile, signore. Io ne so qualche cosa, essendo stato per alcuni giorni agli stagni morti. Dopo un mese gli uomini sono completamente sfiniti, anemici e febbricitanti e non possono più reggersi in piedi. I loro corpi poi sono tutti una piaga.

— Possibile che la nipote del pascià abbia mandato un gentiluomo come il signor Le Hussière a morire fra le sanguisughe! esclamò Perpignano, inorridito.
— Il capitano turco me lo ha confermato, — rispose la duchessa, soffocando un singhiozzo.
— Ma noi lo strapperemo a quella esistenza atroce! — esclamò il veneziano. — Siamo tutti pronti a qualunque sbaraglio, anche a tentare l’espugnazione di questa rocca, è vero Nikola?
Il greco scosse il capo.

— Vi devono essere molti turchi qui, — disse poi. — Non ricorriamo alla violenza o nessuno di noi tornerà vivo alla rada d’Hussif.
— So che cosa devo fare, — rispose la duchessa, che pareva avesse riacquistata la sua meravigliosa energia. — Lotterò colla figlia del pascià e vedremo se vincerà la donna turca o quella italiana. Il Leone di Damasco ci protegge, non dimentichiamolo e quel valoroso non si scorderà le sue promesse.
Dei nitriti vigorosi ed uno scalpitar di ferri sulle pietre del cortile d’onore interruppero la loro conversazione. Il capitano turco si avanzava seguito da numerosi schiavi, i quali conducevano per le briglie un grosso gruppo di bellissimi cavalli dalle teste piccole, le criniere lunghissime e le zampe sottili e nervose.
— Sono ai tuoi ordini, signore, — disse il turco, rivolgendosi alla duchessa. — A mezzodì, all’ora della preghiera, noi potremo essere di ritorno per la colazione. Ho spedito già un messo ad Haradja per annunciarle la tua visita da parte di Muley-el-Kadel e sarai ricevuto cogli

onori spettanti alla tua alta posizione. Sarà ben felice di ricevere un messo del Leone di Damasco.
— Lo conosce?

Uno strano sorriso comparve sulle labbra del turco.

— Se lo conosce! — disse poi a mezza voce. — Credo che quando pensa a lui Haradja non dorma e diventi più cattiva.
— L’amerebbe forse?

— Così si dice.

— E lui?

— Sembra che non pensi affatto alla nipote del pascià.

— Ah! — fece la duchessa.

— A cavallo, signore. — Troveremo i cristiani al lavoro e sarà uno spettacolo bellissimo veder quei miserabili sgambettare nelle acque pantanose, sotto i morsi delle mignatte. Haradja ha avuto una splendida idea che a me non sarebbe di certo mai venuta.
— Ed a me ne verrebbe un’altra migliore, — borbottò papà Stake, che conosceva abbastanza la lingua turca per comprenderla. — Quella di serrarti le mie mani intorno al collo e di farti uscire un palmo di lingua, brutta carogna!
Un momento dopo i cavalieri lasciavano il castello, preceduti dal turco, scendendo verso l’interno dell’isola.

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