La ferocia di Mustafà

Dopo quella sfida cavalleresca che aveva accresciuta la fama già ben salda di Capitan Tempesta, riconosciuta ormai da tutti come la prima lama di Famagosta, l’assedio della disgraziata città era stato ripreso da parte delle orde turche, ma con molto meno slancio di quello che i cristiani s’aspettavano.
Pareva che, dopo la sconfitta del Leone di Damasco, un profondo scoraggiamento si fosse impadronito degli assedianti. Il fatto era che non spingevano più gli attacchi coll’accanimento primiero e che il bombardamento languiva.
Il comandante supremo delle orde barbare, Mustafà, non si vedeva più, come nel passato, ispezionare ogni mattina, dopo la preghiera, le colonne d’assalto, nè mostrarsi fra le compagnie degli artiglieri per incoraggiarli colla sua presenza.
Perfino i clamori selvaggi, che finivano sempre in un ululato spaventoso, che suonava «morte e sterminio ai nemici della Mezzaluna» non echeggiavano più nell’immenso campo. Che più? Perfino le trombe rimanevano mute ed i timballi della cavalleria non facevano udire i loro rulli.
Pareva che qualcuno avesse imposto a quello sterminato esercito il silenzio più assoluto.

Invano i capitani cristiani cercavano di spiegare quel mistero. Eppure non era quella l’epoca del Ramadan, della quaresima turca, durante la quale gli adoratori del Profeta sospendono perfino le operazioni di guerra, per pregare ed imporsi lunghi digiuni.
Come non era possibile che il Gran vizir avesse comandato il silenzio, per non turbare la guarigione del giovane Leone di Damasco, che infine non era altro che il figlio d’un pascià.
Capitan Tempesta e il suo tenente aspettavano la spiegazione di questo fatto assolutamente straordinario da El-Kadur, l’unico forse che avrebbe potuto dire qualche cosa, ma l’arabo, dopo il colloquio di quella notte, non era più rientrato in Famagosta.
L’improvvisa inattività dei nemici non incoraggiava affatto gli assediati, pel motivo che i viveri scemavano tutti i giorni e che la fame si faceva sentire sempre più aspra, specialmente per gli abitanti i quali vedevano diminuire ogni giorno le loro provviste d’olio e di cuoio, l’unico loro nutrimento già da parecchie settimane.
Erano trascorsi così parecchi giorni, collo scambio di qualche raro colpo di colubrina da una parte e dall’altra, quando una notte che Capitan Tempesta e Perpignano erano di guardia sul bastione di San Marco, videro un’ombra arrampicarsi, coll’agilità d’un quadrumane, su per la scarpa semidiroccata dalle mine dei turchi.
— Sei tu, El-Kadur? chiese Capitan Tempesta, afferrando, per precauzione, un archibugio che stava appoggiato al parapetto e che aveva la miccia accesa.
— Sì, padrone rispose l’arabo. — Non fate fuoco.

Con un ultimo slancio s’aggrappò ad un merlo e balzò agilmente sul parapetto, cadendo dinanzi a Capitan Tempesta.
— Eravate inquieto della mia prolungata assenza, è vero, padrone? —
chiese l’arabo.

— Temevo che ti avessero scoperto e ucciso, — rispose Capitan
Tempesta.

— Non hanno alcun dubbio su di me, rassicuratevi, padrone, — disse l’arabo — quantunque il giorno in cui voi vi misuraste col Leone di Damasco m’avessero veduto armare le pistole per ucciderlo, nel caso che vi avesse ferita.
— Migliora?

— Muley-el-Kadel deve avere la pelle ben dura, padrone. Egli è già convalescente e fra un paio di giorni rimonterà a cavallo. Ah! Ho anche un’altra notizia importante da darvi e che vi stupirà assai.
— Quale?

— Che anche il polacco migliora rapidamente.

— Laczinki! esclamarono ad una voce il capitano ed il suo tenente.

— Sì, lui.

— Non è stato ucciso da quel colpo di scimitarra?

— No, padrone. Sembra che gli orsi delle foreste polacche abbiano le ossa solide.
— E non l’hanno finito?

— No, perchè ha rinnegata la croce abbracciando la fede del Profeta rispose El-Kadur. — Quell’avventuriero ha l’animo molto largo, a quanto pare, e adora tanto la Croce quanto la Mezzaluna.
— È un miserabile! — esclamò Perpignano, con indignazione. —
Combattere contro di noi, i suoi fratelli d’arme!

— E appena guarito sarà nominato capitano dell’esercito turco aggiunse l’arabo. — Uno dei pascià gli ha promesso quel grado.
— Quell’uomo deve odiarmi mortalmente, senza che io gli abbia fatto mai nulla di male, se invece non mi…
— Che cosa, capitano? chiese il veneziano, vedendolo interrompersi bruscamente.
Capitan Tempesta, invece di rispondere, chiese all’arabo:

— Ancora nulla?

— Nulla, padrone, — rispose El-Kadur, facendo un gesto desolato. — Non so il perchè si mantiene ostinatamente il segreto sul luogo ove fu condotto il signore Le Hussière.
— Eppure è impossibile che tutti lo ignorino, — disse Capitan Tempesta, con un sospiro. — Che l’abbiano ucciso? Dio mio! Quale sospetto!
— No, padrona, sono certo che egli vive. Io credo che sia stato relegato in qualche castello della costa, colla speranza d’indurlo ad abbracciare la religione islamita.
Egli è un gran valoroso ed i turchi accolgono volentieri fra le loro file i valenti, di cui hanno molto bisogno per guidare le loro orde innumerevoli sì, ma indisciplinate.

Capitan Tempesta si era lasciato cadere su un mucchio di macerie, come se fosse stato colto da una improvvisa debolezza.
Perpignano e l’arabo lo guardavano, entrambi profondamente commossi.
— Che io non possa sapere più mai che cosa è avvenuto di lui?
mormorò la giovane duchessa con un sordo singhiozzo.

— Non disperate, padrone disse l’arabo. — Non rinuncerò alle mie gite notturne, finchè non mi avranno detto dove lo hanno condotto. Saper che egli è vivo è già molto.
— Tu non ne hai le prove, mio buon El-Kadur.

— È vero, ma se l’avessero ucciso, al campo lo si saprebbe di certo.

— E perchè sono tanto riluttanti a dire dove si trova prigioniero?

— Questo non lo so, padrone. Capitan Tempesta si era alzato.

— Sì, forse ho torto a disperare, — disse.

In quel momento un baccano spaventevole ruppe improvvisamente il silenzio della notte.
Nel campo turco si udivano squillare le trombe e rullare i timballi della cavalleria ed un vociare furioso e scoppi d’armi da fuoco.
Migliaia e migliaia di torce si erano accese come per incanto e correvano per la vasta pianura, raggruppandosi verso il centro del campo, dove giganteggiava la tenda del gran vizir, il comandante supremo delle orde.

Capitan Tempesta, Perpignano ed El-Kadur si erano accostati rapidamente al parapetto del bastione, mentre le trombe delle sentinelle cristiane suonavano a tutto fiato l’allarme ed i guerrieri veneti, che riposavano nelle casematte, afferravano le armi accorrendo sulle mura.
— Si preparano all’assalto generale, — disse Capitan Tempesta.

— No, padrone disse l’arabo, con voce tranquilla. — È una rivolta che scoppia nel campo turco e che era già preparata fino da stamane.
— Contro chi?

— Contro il gran vizir, Mustafà.

— Per quale motivo? — chiese Perpignano.

— Per costringerlo a riprendere vigorosamente l’assedio della città. Sono otto giorni che le truppe rimangono quasi inoperose e che rumoreggiano.
— Infatti tutti lo abbiamo notato, — disse Perpignano. — Forse che il
Gran vizir è ammalato?

— Sembra anzi che stia benissimo. È il suo cuore che è incatenato.

— Che cosa vuoi dire, El-Kadur? — chiese Capitan Tempesta.

— Che una fanciulla cristiana della Canea, lo ha affascinato. Il vizir è innamorato e forse, dietro consiglio di quella beltà, vi ha accordato una lunga tregua.
— Possibile che gli occhi d’una donna possano esercitare tanta influenza su quel crudele capitano? — disse il tenente.

— Si dice che sia d’una bellezza meravigliosa. Tuttavia io non vorrei trovarmi al suo posto, perchè l’esercito intero reclama la sua morte considerandola come l’unico ostacolo alle operazioni di guerra.
— E credi tu che il vizir cederà dinanzi alla volontà dei suoi soldati? —
chiese Capitan Tempesta.

— Vedrete che non oserà resistere rispose l’arabo. — Il sultano tiene delle spie al campo e, se venisse informato del malumore che regna fra i suoi guerrieri, non indugerebbe a regalare al comandante supremo un laccio di seta, e voi sapete che cosa significhi un simile dono: o appiccarsi o venire impalato.
— Povera fanciulla! — esclamò Capitan Tempesta, con voce commossa. — E dopo?
— Quando quell’adorabile candiotta non esisterà più, potete aspettarvi un assalto furibondo. Le orde islamite sono stanche della lunghezza di questo assedio e si rovesceranno su Famagosta, come un mare in tempesta e spazzeranno via ogni cosa.
— Saremo pronti a riceverle come si meritano, — disse Perpignano. — Le nostre spade e le nostre corazze sono solide ed i nostri cuori non tremano.
L’arabo scosse il capo, guardando con angoscia la duchessa, poi disse con un sospiro:
— Sono troppi.

— A meno che non prendano la città per sorpresa.

— Ci sarò sempre io per avvertirvi in tempo. Devo tornare al campo turco, padrone?

Capitan Tempesta non rispose.

Appoggiato al parapetto, ascoltava le vociferazioni spaventevoli degli assedianti e seguiva con uno sguardo inquieto le miriadi di torce che s’agitavano burrascosamente intorno all’alta tenda del gran vizir.
In mezzo a quel baccano assordante, che pareva il muggito d’un mare sconvolto dai venti, s’udivano ad intervalli migliaia di voci che urlavano:
— Morte alla schiava! Vogliamo la sua testa!

Poi i timballi, le trombe e gli spari coprivano quelle grida feroci e tutte quelle urla, che sfuggivano da centomila petti, si fondevano in un ruggito spaventevole, come se il campo degli infedeli fosse stato improvvisamente invaso da legioni e legioni di belve feroci, sbucate dai deserti africani ed asiatici.
— Debbo tornare, padrone? — tornò a chiedere l’arabo. Capitan Tempesta si scosse e rispose:

— Sì, va, mio buon El-Kadur. Approfitta di questo istante di tregua e non stancarti nelle tue ricerche se vuoi vedermi felice.
Negli occhi del figlio del deserto passò come un’ombra d’infinita tristezza, poi disse, con accento rassegnato:
— Farò quello che vorrete, padrone, pur di veder le vostre belle labbra a sorridere e la vostra fronte serena.
Capitan Tempesta fece cenno al suo tenente di rimanere, poi accompagnò l’arabo verso il parapetto del bastione.
— Tu mi hai detto che il capitano Laczinki è ancora vivo, — disse.

— È vero, signora, nè pare che per ora abbia alcuna voglia di morire.

— Veglia su di lui.

— Che cosa temete, padrona, da quel rinnegato? — chiese l’arabo levandosi minaccioso in tutta la sua altezza.
— Sento in lui un nemico.

— Per quale motivo dovrebbe odiarvi?

— Egli ha scoperto che io sono una donna invece d’un uomo.

— Che vi ami invece? — chiese El-Kadur, mentre il suo volto si trasfigurava sotto un improvviso scoppio d’ira terribile.
— Chi lo sa, — rispose la duchessa. — Potrebbe odiarmi perchè la donna ha abbattuto il Leone di Damasco e potrebbe anche segretamente amarmi. Non è facile comprendere il cuore umano.
— Il visconte Le Hussière sì, ma quel polacco, no! — disse l’arabo con voce fremente.
— Supporresti che io amassi quell’avventuriero?

— Non lo crederei mai, signora, ma se così fosse… El-Kadur ha un
jatagan nella cintura e lo immergerà tutto nel petto di quel rinnegato.

Si leggeva in quel momento sul viso del selvaggio figlio dell’Arabia una tale espressione di collera, che Capitan Tempesta ne fu impressionato. Vi era una disperazione intensa, terribile.
— Non temere, mio povero El-Kadur, — disse la duchessa. — O le
Hussière o nessuno. Amo troppo quel valoroso.

L’arabo si portò una mano sul cuore, conficcandosi le unghie nella carne, come se avesse voluto soffocarne i battiti e chinò il capo, nascondendo il viso nell’alto colletto del suo mantello.

— Addio, signora, — disse dopo qualche istante. — Veglierò su quell’uomo nel quale sento anch’io un nemico della vostra felicità, ma veglierò come il leone spia la preda che agogna. Quando lo comanderete il povero schiavo ucciderà.
Poi, senza attendere la risposta della duchessa, balzò sul parapetto e si lasciò scivolare giù dalla scarpa, scomparendo rapidamente fra le tenebre.
La giovane duchessa era rimasta immobile, cercando di discernere attraverso le ombre della notte il taub del suo fedele schiavo.
— Come deve sanguinare il suo cuore! — mormorò. — Povero El- Kadur. Sarebbe stato meglio per te che mio padre non ti avesse liberato dal tuo crudele padrone.
Perpignano, vedendola sola, s’era fatto innanzi.

— Pare che i turchi si siano calmati, — le disse. — Che abbiano assassinata la cristiana? Quelle canaglie sono capaci di tutto: quando la collera li prende non rispettano nè donne, nè fanciulli.
— Purtroppo, — sospirò la duchessa.

Infatti le grida erano cessate nel campo turco e non si udivano più nè i timballi della cavalleria, nè gli squilli delle trombe. Si scorgevano invece sempre quelle miriadi di fiaccole radunarsi or qua ed or là, ed ora disperdersi per l’immenso campo in lunghissime file che formavano delle capricciose linee di fuoco, spiccanti vivamente fra la profonda oscurità della notte piovigginosa.
I capitani cristiani, accortisi che almeno per quel momento gli infedeli non avevano alcuna intenzione di muovere all’attacco della città,

avevano rimandate le loro compagnie nelle casematte, non lasciando che delle forti guardie sui bastioni principali, specialmente intorno alle colubrine.
La notte, come già El-Kadur aveva predetto, passò senza allarmi e gli assediati poterono riposarsi tranquillamente.
Appena l’aurora comparve, fugando le ultime stelle, quattro cavalieri turchi che portavano sulle alabarde dei drappi di seta bianca e che erano preceduti da un trombettiere, si presentarono sotto il bastione di San Marco sulla cui piattaforma si radunavano ordinariamente i capitani cristiani, chiedendo ad alta voce un breve armistizio, onde farli assistere ad uno spettacolo straordinario, che, assicuravano, avrebbe dovuto influire assai sulle sorti della guerra.
Credendo che si trattasse di qualche nuova sfida, come succedeva di frequente, i comandanti veneti, che non volevano d’altronde irritare troppo quei barbari, che tenevano ormai nelle loro mani le sorti della disgraziata città, dopo un breve consiglio, acconsentirono, promettendo che non avrebbero aperto il fuoco prima del mezzodì.
Dieci minuti dopo che i cavalieri erano tornati al campo, gli assediati che si erano radunati sulle mura e sui bastioni, non fidandosi delle promesse di quei barbari, videro spiegarsi nella pianura le innumerevoli orde nemiche, sfilando per battaglioni, come in una grande rivista.
S’avanzavano prima gli artiglieri dalle vesti variopinte e gli ampi calzoni, seguiti da duecento colubrine trainate da superbi cavalli arabi impennacchiati e infioccati e con ricche gualdrappe rosse; poi s’avanzavano le compagnie dei giannizzeri, quei terribili guerrieri che formavano il nerbo dell’esercito turco, uomini che non avevano paura

della morte e che una volta lanciati, nè spade, nè colubrine, nè moschetti potevano arrestare.
Poi si avanzavano gli albanesi, coi loro sfarzosi costumi, le sottanine bianche ed ampie ed i ricchi e vasti turbanti e le fasce riboccanti di pistoloni e di jatagan; gli irregolari dell’Asia Minore, armati di archibugi, di alabarde e perfino di balestre usate cent’anni prima, coperti di cotte d’acciaio scintillanti e forniti di ampi scudi che forse datavano dal tempo delle crociate ed infine immense colonne di cavalieri arabi ed egiziani, avvolti nei loro mantelli bianchi, abbelliti all’estremità da larghe righe rosse ed infioccati.
Al suono delle trombe ed al fragore dei timballi, lo sterminato esercito si schierò su varie colonne nella vasta pianura, formando un immenso semicerchio, i cui margini si perdevano all’orizzonte.
— Che vogliano spaventarci mostrando la potenza dei loro reggimenti?
— chiese Perpignano a Capitan Tempesta, che guardava, non senza un fremito di terrore, sfilare quelle masse enormi.
— Non lo so rispose la giovane duchessa. — Qualche cosa però deve succedere.
Aveva appena pronunciate quelle parole, quando le trombe cessarono bruscamente di echeggiare ed i timballi diventarono muti.
Le colonne si aprirono dinanzi al bastione di San Marco e gli assediati videro avanzarsi il Gran vizir Mustafà, tutto coperto di ferro brunito, con un ampio turbante sormontato da un gran pennacchio, che scintillava come se fosse cosparso di diamanti.
Montava un cavallo arabo dal pelo bianco, dalla criniera lunghissima, bardato con lusso inaudito. Aveva un enorme ciuffo di magnifiche penne

di struzzo fissato sulla testa, briglie larghe come usano oggidì i marocchini e i berberi, intagliate e dorate, una grande gualdrappa di velluto cremisi con frange d’oro che gli scendeva fino al garrese e le fonde delle pistole di velluto azzurro con due grandi mezzelune d’argento.
Lo seguiva un araldo con una lunga tromba ed uno stendardo di seta verde, poi veniva su una giumenta bianca una fanciulla, tutta avvolta in un lungo velo candidissimo, adorno di piccole stelle d’oro che impediva di poterla vedere in viso, quindi pascià e capitani, tutti risplendenti nelle loro corazze argentate e cavalieri superbamente vestiti, con turbanti giganteschi e sorreggenti delle aste sormontate dalla mezzaluna con sotto delle code di cavallo.
Il gran vizir, che procedeva al passo, trattenendo con mano ferma il suo ardente destriero, mentre teneva l’altra posata fieramente sull’anca, s’inoltrò fino a trecento metri dal bastione di San Marco, guardando fissi i capitani cristiani, affollati sugli spalti, poi snudò la sua scimitarra e si volse verso i suoi guerrieri, gridando con voce tuonante:
— Ecco come il vostro vizir spezza le sue catene!…

Con una improvvisa speronata fece fare al suo arabo un gran salto che lo portò presso la giumenta, si rizzò sulle corte e larghe staffe e con un terribile colpo della sua arma tagliò netto il collo della fanciulla, facendo volare lontano il capo, senza dubbio bellissimo.
Il corpo della decapitata si mantenne per alcuni secondi ritto sulla sella mentre i bianchi veli si coprivano di sangue, poi stramazzò al suolo, mentre un grand’urlo di raccapriccio s’alzava fra i cristiani.

Il gran vizir asciugò sulla gualdrappa del proprio cavallo la scimitarra, la ringuainò freddamente, poi tendendo il pugno chiuso verso Famagosta, gridò con voce terribile che parve uno scoppio di tuono:
— Ed ora, giaurri, pagherete pel sangue che ho sparso! Ci rivedremo questa notte!

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