Le bizzarrie d’Haradja

Il drappello era partito a corsa sfrenata, avendo Haradja lanciato il suo arabo, tormentandolo con dei leggeri colpi di mano ed aizzandolo con delle grida selvagge.
Pareva che quella strana donna provasse una vera ebbrezza in quella corsa furiosa, che forse le ricordava le bordate delle galere di suo zio e il fischio furibondo dei venti del Mediterraneo.
Nè i soprassalti improvvisi del suo destriero, costretto a superare talvolta dei crepacci, nè le scosse, la muovevano o la impressionavano. Si manteneva ritta in sella come se il suo corpo formasse un essere solo con quello del cavallo.
Col volto animato, gli occhi neri ardenti, la capigliatura lunghissima svolazzante, spingeva senza posa il suo arabo, respirando a pieni polmoni l’aria e gridando, fra uno strappo delle briglie ed una carezza rude sulla folta criniera del destriero:
— Aizza il tuo cavallo, mio capitano! Un arabo non può rimanere indietro!
La duchessa che cavalcava superbamente, forse meglio d’un uomo, faceva fare al suo animale degli sforzi prodigiosi per mantenerlo a fianco di quello che montava la nipote del Pascià.

La scorta invece, a poco a poco, rimaneva indietro, allungandosi sempre più, nonostante le grida ed i colpi di sperone dati senza misericordia ai poveri animali.
Solamente il capitano turco e Perpignano riuscivano a tenersi vicini alle due donne.
Quella corsa infernale durò venti minuti e non cessò che sul piazzale del castello.
La duchessa, dopo d’aver fatto fare al suo cavallo un volteggio fulmineo per arrestarlo, era balzata a terra per aiutare Haradja a scendere, ma questa l’arrestò con un gesto imperioso, dicendo poi:
— La nipote di Alì pascià scende da cavallo e monta all’arrembaggio senza aver bisogno nè di scudieri, nè di marinai.
Saltò agilmente a terra, senza servirsi delle staffe e volgendosi verso la duchessa le disse con un sorriso provocante:
— Mio bel capitano, sei mio ospite nel mio castello ed ogni tuo desiderio sarà per me un ordine.
— Troppo gentile, signora: cercherò di non abusare troppo della tua ospitalità.
— Anzi: esigo che ne abusi, — rispose Haradja.

— Allora non sarò più io che comando, — disse la duchessa, ridendo.

La nipote del grande ammiraglio parve che pensasse un momento su quella risposta, poi disse pur ella ridendo:
— Hai ragione, capitano. Cominciavo invece io a dare dei comandi. È
una pessima abitudine; ma che cosa vuoi? Sono sempre stata abituata

a dare degli ordini e mai a riceverne. Sèguimi, la colazione è pronta, perchè odo il muezzin ad intonare la preghiera del mezzodì.
Poi, facendo un gesto colla destra ed alzando impercettibilmente le spalle, aggiunse a mezza voce:
— Il Profeta si accontenterà delle preghiere del suo sacerdote. Dio è grande e può fare a meno delle nostre, almeno per un giorno.
— Che specie di donna è questa? — mormorò la duchessa che l’aveva udita. — Feroce contro i cristiani, perchè non sono mussulmani, e se ne ride della religione del Profeta e d’Allah. È un enigma? Stiamo in guardia, Capitan Tempesta!
Haradja abbandonò i due cavalli a due palafrenieri, che erano usciti dal castello correndo, raccomandò loro la scorta, poi, prendendo familiarmente la duchessa per una mano, attraversò il cortile, salì uno scalone ed entrò in una vasta sala dinanzi alla cui porta vegliavano due arabi avvolti in lunghi mantelli di lana bianca, con grandi fiocchi rossi ai cappucci e colle scimitarre snudate in mano.
— È pronta la colazione? — chiese Haradja, senza nemmeno guardarli in viso.
— Sì, signora, — risposero i due guardiani, inchinandosi fino a terra.

La sala era, come tutte quelle turche, assai elegante, quantunque ammobiliata semplicemente, non essendovi nè grandi tavole nè mobili massicci scolpiti.
Pochi divani di seta fiorata a vivaci colori, molte tende, molti tappeti scintillanti di ricami d’oro e d’argento, delle mensole leggerissime agli angoli e panoplie d’armi disposte artisticamente sulle pareti,

appartenenti a tutti i paesi dell’Europa e dell’Asia, essendovi archibugi grossi dalla canna lunghissima senza arabeschi nè intarsi sui calci, archibugi turchi e persiani, superbi per dorature e sculture, scimitarre, jatagan, spade francesi e italiane, pugnali, “misericordie” ecc.
Nel mezzo vi era una tavola elegantemente imbandita, con una tovaglia di seta gialla a grandi fiori bianchi, piatti d’argento meravigliosamente scolpiti e bicchieri e bicchierini e vasi di cristallo di Murano.
— Siedi, mio bel capitano, — disse Haradja, accomodandosi su una poltroncina di broccato antico. — Faremo colazione soli, così potremo discorrere liberamente senz’essere disturbati.
— Non preoccuparti, effendi, della tua scorta. Avrà trattamento scelto, e non potrà lagnarsi dell’ospitalità ricevuta nel castello d’Hussif, avendo dei cuochi abili e dei provveditori che mi portano ciò che vi è di meglio a Costantinopoli e nelle isole dell’Arcipelago.
Ah! Sei giunto anzi in un buon momento. Ti farò assaggiare i pesci miracolosi di Baloukla.
— Di Baloukla! — esclamò la duchessa — Che pesci sono?

— Come! Non conosci quella leggenda?

— Niente affatto, signora.

— Allora te la racconterò mentre li assaggeremo, effendi.

— Che strana creatura, — mormorò la duchessa.

Haradja prese dalla tavola un martelletto d’argento e batté un colpo su una campana d’oro.

Tosto una tenda che nascondeva una porta si alzò e quattro schiavi negri si avanzarono, recando una quantità di piatti d’argento contenenti dei minuscoli pasticcini dolci, dei pasticcini profumati con diverse essenze e che piacciono così tanto alle donne mussulmane.
— Ti stuzzicheranno l’appetito, — disse Haradja alla duchessa. — I
famosi pesci giungeranno poi.

La gentildonna ne assaggiò alcuni, lodandone la squisitezza, poi entrarono altri due schiavi portando su un piatto d’oro una dozzina di pesci colle scaglie dorate e che, particolare strano, avevano tutti una grossa macchia nera sul fianco destro.
— Ecco un piatto raro, che sono felice di offrirti, effendi, — disse Haradja.
— Credo che nemmeno Selim, il nostro Sultano, ne mangi sovente, essendo i mollah eccessivamente avari nel cederli. Mi costano assai: anzi credo che l’oro pesi molto meno di questi abitanti delle vasche del monastero di Baloukla.
— Un monastero che non conosco, non avendo mai guerreggiato fuori dell’Arabia e dell’Asia Minore.
— Assaggiali prima, — disse Haradja, porgendo alla duchessa un coltello dalla lama dorata.
La gentildonna ne squarciò uno e si mise a mangiare.

— Squisito, signora disse poi. — Nel Mar Rosso non vi sono pesci così eccellenti.
— Sfido io!… I monaci non li vendono a tutti, preferendo mangiarseli loro rispose Haradja, sorridendo. — Ora comprendo perchè li vendano così cari! Tuttavia non rimpiango affatto il denaro speso, trattandosi di offrirti

un piatto degno dei Sultani di Costantinopoli. Chi direbbe che questi pesci un giorno sono saltati da soli fuori dalla padella?
— Questi pesci! — esclamò la duchessa.

— I loro avi, — rispose Haradja.

— Che cosa mi racconti, signora?

— Una storia autenticissima, effendi. Si racconta dunque, — riprese Haradja senza interrompere il pasto — che Maometto II, il nostro Grande Sultano, aveva deciso di assalire Costantinopoli in un giorno fissato.
— Il 29 maggio del 1453, — disse la duchessa.

— Conosci molto bene le epoche, mio bel capitano. Saresti anche molto istruito?
— Molto poco, signora. Ti prego di continuare.

— Allora, giacchè sai che cosa è accaduto nei tempi passati, non ignorerai che i greci di Costantino XIV, soprannominato Dracosès e che doveva essere l’ultimo dei Paleologhi, aveva organizzata una poderosa difesa dopo d’aver fatto pubblica penitenza nella chiesa di Santa Sofia.
— Sì, ho udito raccontare ciò dai vecchi incaricati d’istruirmi, — disse la duchessa.
— Le truppe di Maometto, che avevano giurato d’impadronirsi a qualunque costo della vecchia Bisanzio e di formare della chiesa di Santa Sofia la più superba moschea dell’Oriente, ai primi chiarori dell’alba si erano slanciate furiosamente all’assalto, espugnando con valore più che sovrumano le torri, nonostante la difesa accanita che opponevano i guerrieri del Paleologo.

Vedendosi finalmente i greci sopraffatti dalle armi dei nostri impavidi soldati, i quali s’avanzavano senza tregua, noncuranti degli uragani di frecce che venivano scagliate contro di loro, un soldato fu incaricato di recarsi nei conventi, onde avvertire quei sacerdoti della caduta della città.
In uno di quelli, chiamato il convento di Baloukla, stavano cucinando dei pesci d’una razza speciale, molto apprezzati per la delicatezza delle loro carni, che quei monaci allevavano in certe piscine.
— Il cuciniere che stava per levare dalla padella colma d’olio bollente alcuni di quelli, udendo la notizia recata dal soldato, alzò le spalle, parendogli impossibile che i mussulmani fossero riusciti ad impadronirsi della città, poi si mise a gridare:
— Se ciò che si dice è vero vorrei vedere questi pesci, già fritti, saltare a terra e nuotare. Diversamente non credo a ciò che ha detto quell’uomo.
Aveva appena pronunciate quelle parole, quando, fra lo stupore generale di tutti i presenti, si videro quei pesci balzare fuori dalla padella, ritornare immediatamente vivi e mettersi a guizzare sul lucido pavimento.
La notizia di quel miracolo non tardò a giungere agli orecchi di Maometto e, credendo di vedere in quello un segno della potenza del Profeta, fece ricercare quei pesci e avendoli ritrovati ancora vivi, li fece mettere in una vasca del suo palazzo.
E questi sarebbero i discendenti di quelli? — chiese la duchessa.

— Sì, effendi: guardali bene e vedrai che tutti hanno una macchia nera al lato sinistro.

Sarebbe come la loro marca di fabbrica.

Credi tu che quel miracolo straordinario sia veramente accaduto?

— Ho i miei dubbi, signora.

— Ed io non ci credo affatto, — disse Haradja che rideva allegramente.
— Il Profeta doveva avere ben altro da fare quel giorno, per occuparsi dei pesci del convento di Baloukla. Comunque sia, non negherai che sono veramente eccellenti.
— Squisiti, — rispose la duchessa, che guardava con crescente meraviglia, osservando quella donna che pareva si deridesse perfino del Profeta e che anzi, cosa inaudita in una turca, si divertisse a canzonarlo.
Ai pesci seguirono altri piatti, tutti serviti in tondi d’oro o d’argento, poi delle frutta deliziose dell’Egitto e della Tripolitania, dei dolciumi fortemente profumati, quindi uno schiavo servì del vero moka, che anche la duchessa gustò moltissimo, essendo il caffè piuttosto raro in quell’epoca e solo usato dai grandi signori turchi, costando quasi a peso d’oro.
Haradja non aveva cessato di chiacchierare con molto brio, provocando sovente delle risa, poi quando le chicchere furono portate via, si fece recare un ricchissimo cofanetto d’argento, meravigliosamente cesellato e adorno di pietre preziose di molto valore e levò due piccoli rotoli bianchi offrendone uno alla duchessa.
— Che cosa sono? — chiese questa, osservandoli con curiosità.

— Si fumano, perchè sotto questa leggera carta vi è del tabacco. Non ne hai mai vedute nel tuo paese, effendi?
— No, signora.

— Non fumano in Arabia?

— Sì, alcuni usano la pipa, ma di nascosto, onde non correre il pericolo di farsi tagliare le labbra od il naso. Sai che Selim ha proibito l’uso del tabacco e che ha dato ordini severissimi contro coloro che ne fanno uso.
Haradja proruppe in uno scoppio di risa.

— E tu credi che io abbia paura di Selim? Lui è a Costantinopoli ed io sono qui. Mandi i suoi giudici a condannarmi e vedrà come li tratterò io. Ho dei pali piantati sulla cima delle Torri e quelle genti potrebbero servire benissimo da mostra-vento.
Fuma liberamente, mio bel capitano. Ci troverai piacere ad inebriarti un po’ con questo fumo dolcissimo e profumato.
Accese la sigaretta — le prime che si cominciavano a fabbricare allora
— aspirò una boccata di fumo, che poi lasciò sfuggire lentamente attraverso le sue belle labbra, rosse come corallo, appena socchiuse, quindi riprese:
— Selim! Un sultano indolente, che per evitare ogni fatica, si fa condurre in lettiga attraverso i giardini del suo serraglio e che non possiede altra forza, che quella di ordinare continuamente dei massacri per compiacere le belle del suo harem.
Oh! Non somiglia certo a Maometto II, nè a Solimano. Se non avesse due grandi capitani come Mustafà e mio zio Alì, Cipro sarebbe ancora nelle mani dei veneziani e forse le galere della Repubblica minaccerebbero nuovamente Costantinopoli.
— Eppure ho udito raccontare, signora, che anche a te non spiacciono le stragi.

— Io sono una donna, effendi.

— Non ti comprendo rispose la duchessa.

— Nell’Arabia che cosa fanno le tue donne?

— Si occupano a preparare il pranzo ai mariti ed accudire le tende ed i cammelli.
— Sicchè hanno delle distrazioni, — disse Haradja, che continuava a fumare placidamente la sigaretta con studiata lentezza.
— È vero, signora.

— E le donne turche quali distrazioni hanno? Rinchiuse nei loro harem, lontane dai rumori della città, quasi sepolte vive, si stancano ben presto e dei profumi e delle danze delle schiave e dei racconti delle vecchie. Una noia profonda si impadronisce di loro ed un prepotente bisogno di emozioni forti, siano pure crudeli, le prende.
Sentono allora il bisogno di vedere degli esseri umani soffrire, sognano sangue e stragi e diventano cattive.
Io ho passata la mia gioventù nell’harem di mio zio. Potevo diventare diversa dalle altre donne turche?
D’altronde, tutte si rassomigliano, siano turche o cristiane.

— Oh! — fece la duchessa, con un energico gesto di diniego.

— Ascoltami, effendi: una sera una giovine e bellissima cristiana, appena sedicenne, giocava sulle rive del Mediterraneo, assieme ad una delle sue governanti.

Ad un tratto dalle scogliere vicine sbucano, ratti come gazzelle, dei pirati turchi, e sfidando le frecce dei guardiani del vicino castello, trucidano la governante e rapiscono la fanciulla.
Non era una turca quella, bensì una cristiana, anzi una nobile italiana.

La portano, malgrado le sue lagrime e le sue preghiere, a Costantinopoli e la offrono come schiava ai provveditori di Solimano.
Quella bellezza colpisce il Sultano e ne fa la sua sposa favorita.

La fanciulla dimentica la sua patria, la sua religione, suo padre, che forse la piangeva ancora, e non tarda a venire colta da quella noia profonda, che non è una malattia esclusiva delle donne turche.
Quella cristiana diventò un mostro di crudeltà. Allorché s’accorse di essere invidiata pel fasto inaudito che ella amava sfoggiare, non visse che per far eseguire condanne di morte.
Le favorite del suo sposo, padrone e signore ad un tempo, furono da lei fatte strangolare dai lacci di seta dei muti e gettate di notte nel Bosforo: nemmeno le Figlie di Solimano ebbero grazia dinanzi a quella tigre in gonnelle e furono di notte gettate nel Mar Nero, rinchiuse in un sacco di pelle insieme ad un gallo e ad un gatto, onde la loro agonia fosse più tormentosa.
Che più? Fu col sorriso sulle labbra che fece strozzare le figlie maggiori del Sultano, sotto la stessa tenda di lui, trovandosi egli in quell’epoca al campo: e fu pure ridendo che tentò di avvelenare il giovane erede al trono, offrendogli un piatto di frutta candite.
Era quella donna turca o cristiana? Dimmelo, effendi!

— Come si chiamava?

— Kourremsultana.

— Roxelana, vuoi dire.

— Sì, la chiamavano anche così, — disse Haradja.

— Forse l’aria che si respira sul Bosforo l’aveva avvelenata, — rispose la duchessa.
— Può essere vero. Ah!

— Che cosa vuoi, signora?

— Mi ero scordata d’una cosa assai interessante.

— Quale?

— Tu sei l’amico del Leone di Damasco.

— Te lo dissi.

— Aggiungesti anzi che quel formidabile guerriero non ti avrebbe fatto paura, è vero, effendi?
— Mi sembra, — rispose la duchessa che si teneva in guardia, non riuscendo a sapere dove quella strana creatura andasse a finire, nè a che cosa mirasse.
— Vedi, effendi, qualche volta, dopo aver pranzato, mi sento prendere anch’io da quella noia sanguinaria che coglieva così sovente Kourremsultana. Io sono turca, quindi ho più ragione che quella Sultana.
— Non ti comprendo, signora, — disse la duchessa.

— Vorrei vederti, effendi, misurare col capitano Metiub, che si vanta di essere il migliore spadaccino della squadra di mio zio.

— Se lo vuoi, signora, — rispose la duchessa, aggrottando lievemente la fronte.
Poi mormorò fra sè:

— Fa pagare un po’ cari i suoi pranzi, questa donna. Che ci voglia sempre qualche morto per prepararle l’appetito per la cena?
Haradja si era alzata e accostandosi ad una panoplia piena d’armi, disse:
— Guarda, effendi, qui ci sono tutte le specie d’armi che un guerriero come te può desiderare: scimitarre, jatagan, kangiar persiani, lame diritte di Francia e d’Italia e pugnali. Il mio capitano sa adoperarle tutte: quindi non avrai che da scegliere quella che meglio ti conviene.
— Per meglio dimostrare la maestria d’uno spadaccino è più acconcia la spada dalla lama diritta, — disse la duchessa.
— Metiub sa maneggiare la scimitarra come la spada, — disse Haradja, quasi con trascuranza.
Ad un tratto parve però che avesse un lampo di pentimento. S’avvicinò alla duchessa e guardandola fissa le chiese:
— Mio bel capitano, dimmelo francamente, sei proprio sicuro di te? Mi rincrescerebbe vederti cadere, così bello e così giovane, morente ai miei piedi.
— Hamid Eleonora non teme nessuno, — rispose fieramente la duchessa. — Chiama il tuo capitano d’armi.
Haradja batté un martelletto d’argento su un disco di bronzo che pendeva da una mensola e volgendosi verso lo schiavo che era accorso, gli disse freddamente:

— Dite al capitano Metiub che l’aspetto qui, per vederlo giuocare la sua vita.

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