Capitolo II LE MERAVIGLIOSE TROVATE D’UN GUASCONE

 Il fiammingo, che si reggeva già male sulle gambe, non avendo la resistenza di Mendoza e di Buttafuoco, abituati alle sfrenate orge dei filibustieri e dei bucanieri, si era lasciato cadere sulla sedia, non cessando di guardare, con spavento, quelle tre spade che gli pareva gli si appuntassero contro il petto.

 –Pfiffer ! – esclamò, dopo aver mandato un profondo sospiro.

 – Questo è cattivo scherzo.

 – V’ingannate, mastro Arnoldo, – rispose Mendoza. – Questo non è affatto uno scherzo e le nostre spade non sono fatte di burro, bensí di puro acciaio di Toledo temprato nelle acque del Guadalquivir.

 Il fiammingo proruppe in una risata.

 – Datemi da pere, brafo amico.

 – Finché vorrete, mastro Arnoldo. La cantina d’El Moroè tutta a nostra disposizione, purché vi prepariate a rispondere alle domande che vi farò.

 – Pene!… Pene!… Dite… dite… – rispose il fiammingo, riprendendo un po’ d’animo.

 – Allora, – disse Mendoza, – ci spiegherete per quale motivo voi ci seguite ostinatamente da tre giorni, comparendoci sempre come un uccellaccio di malaugurio, nei luoghi che frequentiamo.

 – Foi ed il fostro amico siete molto simpatici.

 – Ma chi siete voi?

 – Fe l’ho detto.

 – Che cosa fate a Panama?

 – Niente; fifo di rendita.

 – Eh, messer Arnoldo, non cercare d’ingannarci, perché potreste uscire di qui conciato male.

 Il fiammingo divenne livido come un cadavere, tuttavia rispose con abbastanza fermezza:

 – Sono molto ricco.

 – E per questo vi divertite a pagare da bere alle persone che vi sono simpatiche, – disse Mendoza, ironicamente. – Compare Arnoldo, non saremo noi che berremmo queste frottole. Sapete come si chiamano nel mio paese le persone che s’attaccano alle altre, come tante mignatte, senza perderle mai di vista?

 – Calantuomini.

 – No, compare Arnoldo, le chiamano spie.

 Il fiammingo prese un bicchiere colmo e lo vuotò lentamente, certo per nascondere la sua emozione.

 – Spie, – disse poi. – Io mai afer fatto questo prutto mestiere.

 – Eppure vi ripeto che voi dovete essere la spia di qualche pezzo grosso di Panama: del marchese di Montelimar per esempio.

 Il bicchiere sfuggí dalle mani del fiammingo e si ruppe con fracasso.

 – Ohé, messer Arnoldo, vi piglia male? – chiese don Barrejo.

 – Siete piú giallo d’un limone. Volete che vi faccia preparare da mia moglie della camomilla?

 Il fiammingo ebbe uno scatto d’ira.

 – Taferniere della malora, occupati del tuo fino tu!… – gridò.

 – In questo momento le mie botti non hanno affatto bisogno di me, quindi posso prendermi la libertà di scambiare due chiacchiere anch’io.

 – Ebbene, mastro Arnoldo, – proseguí l’implacabile Mendoza. – Perché, quando ho pronunciato il nome del marchese di Montelimar, le vostre mani sono state prese da un tremito? Vedete bene che la tazza l’avete spezzata.

 – Io pagarla.

 – Il padrone d’El Moroè generoso e non vi farà pagare niente. Non approfittate però della rottura del bicchiere per cambiare discorso.

 “Ditemi invece come e dove m’ha veduto il marchese di Montelimar e come ha fatto a riconoscermi, dopo sei anni che manco da Panama.”

 – Non conoscere marchese di Montelimar, – disse il fiammingo asciugandosi la fronte che appariva bagnata di grosse stille di sudore.

 – Ah!… Non volete dirmelo!… – gridò Mendoza. – Vi avverto che quel signor lí, che non parla mai, è uno dei piú famosi bucanieri di Sandomingo, e che io non sono affatto un negoziante di muli, bensí un filibustiere che ne ha fatte di tutti i colori con David e con Raveneau de Lussan.

 – Quest’uomo sta male!… – esclamò don Barrejo. – Presto, Panchita, prepara una tazza di camomilla pel signore.

 “Gli farà molto bene.”

 Infatti pareva che il fiammingo fosse lí lí per svenire, tanto era pallido e disfatto.

 – Non vedete che vi tradite? – gridò Mendoza. – O vi decidete a parlare o vi caccio in gola tutta la vostra misericordia.

 – Aspetta che abbia almeno bevuta la camomilla, – disse don Barrejo, ridendo.

 – Confessate: lo conoscete il marchese di Montelimar, si o no?

 È inutile che vi ostiniate a negare ancora.

 Arnoldo fece finalmente col capo un cenno affermativo.

 – Finalmente!… – esclamò il biscaglino, mentre Buttafuoco, per dimostrare la sua soddisfazione, tracannava due bicchieri, uno dietro l’altro.

 – Messer Arnoldo, bevete una goccia anche voi di questo vecchioXeres , che si dice sia stato imbottigliato nientemeno che da papà Noè, – disse il guascone porgendogli un altro bicchiere. – Vi darà un po’ d’animo e vi rimetterà in gambe, ve l’assicura un vecchio taverniere.

 Messer Arnoldo, quantunque fosse completamente ubbriaco, non rifiutò il consiglio. Aveva ben bisogno, dopo tante emozioni e tante angosce, di rimettersi un po’.

 – Quando mi ha veduto? – riprese Mendoza.

 – Tre giorni fa, – rispose il fiammingo.

 – Tu sei dunque uno dei suoi confidenti, per sapere queste cose.

 Il fiammingo crollò il capo senza rispondere.

 – Dove? – continuò Mendoza, con voce minacciosa.

 – Sulle calate del porto.

 – Corpo d’un archibugio!… – esclamò il biscaglino, dandosi un paio di pugni sulla testa. – Ed io non mi sono accorto della sua presenza!..

 – Ti avevo detto di non mostrarti nei luoghi troppo frequentati, – disse Buttafuoco.

 – Sono trascorsi sei anni.

 – Si vede che non sei troppo cambiato, compare, e che sei rimasto sempre giovane, – disse don Barrejo. – Che uomo fortunato!

 Mendoza si accingeva a riprendere l’interrogatorio e s’avvide che il fiammingo si era abbandonato sulla sedia, lasciando penzolare le sue lunghissime braccia fino quasi a toccare il suolo.

 – Che sia morto? – si chiese.

 – È briaco fradicio, – disse il guascone, il quale si era avvicinato. – Oh!… Me ne intendo io di sbornie!… Quest’uomo, mio caro, non potrà sciogliere la sua lingua prima di ventiquattro ore.

 – Lasciamolo pure a digerire il suo vino e facciamo quattro chiacchiere fra noi. Ti dobbiamo delle spiegazioni, don Barrejo.

 – Le sospiro da tre ore, – rispose il taverniere.

 – Te le avremmo già date, senza la comparsa di questa mignatta.

 – Una parola, prima, Mendoza, – disse Buttafuoco. – Come avevi fatto a sapere che questo fiammingo era una spia del marchese di Montelimar?

 – Io ne sapevo quanto voi, signor Buttafuoco. Avevo avuto semplicemente un vago sospetto ed ho pronunciato il nome del marchese, cosí a caso.

 – Ed hai indovinato subito! – esclamò don Barrejo. – L’ho sempre detto io che tu eri un uomo meraviglioso.

 “Ora dammi le spiegazioni promessemi. Sono curioso di sapere il perché siete venuti a trovarmi e vi siete ricordati che in America esisteva un bravo guascone e fedelissimo amico.

 “In questa faccenda deve entrarci il figlio del Corsaro Rosso.”

 – O meglio sua sorella, – disse Mendoza.

 – Chi? La figlia del Gran Cacico del Darien!…

 – L’abbiamo condotta qui, noi.

 – È qui laseñorita !… Quale imprudenza! Se il marchese di Montelimar riuscisse a scoprirla, non la lascerebbe piú libera.

 – Oh!… Abbiamo prese le nostre precauzioni, amico, L’abbiamo nascosta in unaposada tenuta da un amico del signor Buttafuoco, un vecchio bucaniere anche lui, che trova piú utile ora fare l’albergatore anziché uccidere buoi selvaggi a Sandomingo od a Cuba.

 – E perché è venuta qui, mentre doveva trovarsi presso il conte di Ventimiglia, suo fratello e la Marchesa di Montelimar sua cognata?

 – Non si sa dunque nulla a Panama che il vecchio Cacico è morto quattro o cinque mesi fa e che ha lasciato erede delle sue favolose ricchezze la figlia del Corsaro Rosso?

 – Il Gran Cacico è morto!… – esclamò don Barrejo, picchiando un pugno sulla tavola. – Allora il marchese di Montelimar, che ha sempre aspirato d’impadronirsi di quei tesori deve essersi già messo in campagna.

 – Invece non pare, – rispose Mendoza. – Tre giorni fa era ancora qui.

 – Infatti quel Pfiffero l’ha detto. E come ha fatto a saperlo il conte di Ventimiglia?

 Abita sempre in Italia, mi pare.

 – Lo seppe da un vecchio bucaniere che aveva trovato asilo presso il Gran Cacico e che si recò appositamente al castello del conte per avvertire sua sorella che la tribú l’aspettava per proclamarla regina, non essendovi altri eredi.

 – Fu quel bucaniere che vi condusse laseñorita ?

 – Si, – rispose Mendoza.

 – E dov’è quell’uomo?

 – Veglia sullaseñorita nellaposada dell’amico del signor Buttafuoco.

 – E che cosa volete dunque da me? – chiese don Barrejo.

 – Sei sempre in relazione coi filibustieri del Pacifico?

 – Ne giungono spesso da me.

 – Si trovano sempre all’isola Taroga?

 – Sempre, malgrado i molti tentativi fatti dagli spagnuoli per sloggiarli.

 – Chi li comanda?

 – Sempre Raveneau de Lussan.

 – E David?

 – Si è diretto verso il capo Horn e non si è piú saputo nulla di lui.

 – Sono molti quei filibustieri?

 – Si dice che siano circa in trecento.

 – Allora, signor Buttafuoco, è necessario che noi andiamo a rivedere Raveneau de Lussan. Senza l’appoggio di quegli uomini sarebbe impossibile condurre in porto una cosí grossa impresa.

 “Se non sarà oggi, domani per lo meno gli spagnuoli sapranno che il Grande Cacico è morto e, sapendolo ricchissimo, si affretteranno ad impadronirsi del paese.”

 – Di questo puoi essere certo, – rispose Buttafuoco. – Il marchese di Montelimar da anni ed anni sospira il momento di mettere le mani su quei tesori, tanto piú che si dice che il re di Spagna abbia affidato a lui la conquista di quel paese.

 In quel momento, fra lo scrosciare della pioggia ed il rombare dei tuoni, udirono picchiare fortemente alla porta.

 Don Barrejo, il quale da qualche momento si era seduto, era subito balzato in piedi, dicendo a Panchita, la quale agucchiava dietro l’immenso banco:

 – Abbassa la lampada, amica.

 – Chi può essere? – chiese Buttafuoco. – Sono quasi le dieci e la notte è pessima.

 – Se fosse la ronda? – disse il guascone.

 – Viene qualche volta?

 – Si, signor Buttafuoco.

 – Eccoci in un bell’impiccio.

 – Niente affatto, – disse Mendoza, il quale da vero basco sapeva sempre trovare un pronto rimedio a tutto. – Prendiamo compare ArnoldoPfiffer e portiamolo in cantina.

 – Ed in caso di pericolo annegatelo dentro la grossa botte diXeres , – aggiunse il feroce guascone.

 Un secondo colpo, piú formidabile del primo, che per poco non mandò in frantumi i vetri della contro-porta, si fece udire.

 – Presto, andate e spengete il lume che illumina la cantina, – disse don Barrejo.

 Poi, voltandosi verso la moglie, aggiunse subito:

 – Porta sopra un paniere pieno di bottiglie, le piú vecchie che noi possediamo.

 Mendoza e Buttafuoco presero il fiammingo, lo avvolsero nel suo mantellone ancora bagnato e scesero a precipizio nella cantina, preceduti dalla bella castigliana, mentre don Barrejo si avvicinava alla porta, chiedendo con voce formidabile:

 – Chi vive? È tardi, corpo del diavolo, e la taverna d’El Moronon è un asilo notturno.

 – La ronda, – rispose una voce imperiosa.

 – Che cosa venite a fare qui, a quest’ora? Ho chiuso a tempo.

 – Aprite.

 – Aspettate che mi metta i calzoni e che mia moglie indossi la sottana. Che diavolo! Non si può dormire dunque a Panama?

 Panchita era ritornata, portando un’altra cesta piena di bottiglie coperte di venerande ragnatele e l’aveva deposta sul banco.

 Il guascone attese un momento ancora per prendersi il gusto di far ben bagnare la ronda, poi si decise finalmente ad aprire, non senza aver prima nascosta dietro il banco la sua formidabile draghinassa.

 Aperta la porta, tre uomini comparvero. Erano un ufficiale della polizia e due alabardieri delle guardie notturne.

 –Buena noche ,caballeros , – disse il guascone, facendo buon viso a cattiva fortuna. – Stavo per andarmene a letto. La notte è pessima è vero?

 – Siete solo? – disse l’ufficiale, facendo un gesto di stupore.

 – No, signor ufficiale, stavo dicendo delle galanterie a mia moglie. È castigliana, sapete.

 – E voi? – chiese l’ufficiale.

 – Dei Pirenei.

 – Il paese dei contrabbandieri.

 – Signore, sono sempre stato un galantuomo e la mia rispettabile famiglia da trecent’anni vende vino in Spagna ed in America, – disse il guascone, fingendosi offeso.

 L’ufficiale gli volse le spalle e scambiò alcune parole a voce bassa con i suoi due alabardieri, poi, volgendosi verso don Barrejo, il quale cominciava a mostrarsi inquieto di quella visita inaspettata, gli chiese:

 – Oggi in questa taverna è entrato un signore, che poi non è piú uscito.

 – Dalla mia taverna!… – Esclamò il guascone, fingendo di cadere dalle nuvole. – Che sia rotolato sotto qualche tavolino e si sia addormentato?… Panchita, hai guardato bene se non vi sono ubbriachi accucciati in qualche angolo?

 – Io non ho veduto nessuno, – rispose la bella castigliana.

 – Eppure quel signore non è piú uscito di qui, – insistette l’ufficiale.

 – Misericordia!… – esclamò don Barrejo. – Che si sia ammazzato nelle stanze di sopra?

 – Ma no, marito mio, sono scesa or ora, dopo aver preparato il nostro letto.

 –Carrai !… – esclamò l’ufficiale un po’ impazientito. – Come va questa faccenda?

 – Sí, come va questa faccenda? – ripeté don Barrejo.

 L’ufficiale scambiò ancora due parole coi suoi alabardieri, accompagnandole con dei larghi gesti, poi prese il partito di sedersi ad un tavolo, dicendo:

 – Portaci qualche cosa da bere, taverniere. Siamo inzuppati fino alla camicia e non si starebbe male, questa sera, dinanzi ad un buon fuoco.

 “Poi riprenderemo il nostro discorso, poiché io devo assolutamente sapere dov’è andato a finire quel signore.”

 – Se non era uno spirito, io sono sicuro che voi, signor ufficiale, lo scoverete fuori in qualche luogo.

 “Non si sarà cacciato, a mia insaputa, dentro qualche botte o una bottiglia… Ah! Panchita mia, noi volevamo assaggiare quella cassa di bottiglie che mio zio mi ha spedito da Alicante.

 “Approfittiamo per berne qualcuna insieme alla ronda.”

 – Ve n’è un paniere pieno, – disse la castigliana.

 – Stura, stura, amica mia: offro al signor ufficiale ed alle sue brave guardie.

 Fare una bevuta senza sborsare un quattrino, specialmente per un soldato, non era cosa che toccava tutti i giorni, perciò la ronda fece buona accoglienza alla proposta del furbo guascone.

 Cinque o sei bottiglie di diversa qualità furono portate e le tazze furono riempite a vuotate parecchie volte di seguito, facendo i piú vivi elogi di quello zio lontano, che non si scordava del nipote taverniere.

 – Un magnifico regalo, povero zio! – diceva il guascone. – Sessanta bottiglie, una migliore dell’altra e regalate veh, perché mio zio ama suo nipote.

 “Bevete liberamente, signori miei, già non costa nulla a me.”

 – Beviamo pure, taverniere, però non dimentichiamo quel signore che non è piú uscito dalla vostra taverna.

 – Mi supporreste capace di assassinare le persone che vengono a bere nella mia taverna! – chiese don Barrejo, con accento piccato.

 – Non vi credo capace di commettere cosí orrendi delitti, – rispose l’ufficiale. – Io però devo trovare qual gentiluomo.

 – Ah!… Era un gentiluomo?…

 – Credo. Sentiamo un po’ taverniere: chi è venuto a bere oggi qui?

 – Quindici o venti persone, fra europei e meticci, poiché io tengo anche dell’eccellentemezcal , che vi farò assaggiare se lo desiderate.

 – Lasciate ilmezcal , per ora. Fra quelle persone non avete notato un signore alto, vestito interamente di nero, colla pelle molto bianca ed i capelli biondissimi, anzi quasi bianchi?

 Don Barrejo si mise ad accarezzarsi il mento e guardare in alto come se chiedesse alle travi annerite del soffitto qualche ispirazione.

 – Alto… magro… coi capelli quasi bianchi… tutto vestito di nero… certo… deve essere quel signore che ha bevuto insieme con quei due sconosciuti.

 – L’avevate veduto dunque? – chiese l’ufficiale.

 – Me lo ricordo benissimo, perché l’ho servito io. Era in compagnia di due uomini entrati un po’ prima di lui e che io non ho mai veduti prima d’oggi.

 – Uno di mezza età e l’altro piú attempato, colla barba brizzolata?

 – Precisamente, – rispose don Barrejo. – Hanno vuotato in buona compagnia un bel numero di bottiglie a quel tavolino là, che è ancora ingombro di vetri, poi, approfittando del momento in cui la pioggia accennava a diminuire, se ne sono andati.

 – Tutti insieme?

 – Si reggevano tra loro, perché le loro gambe non erano troppo ferme. Diavolo!… Si beve vino squisito nella mia taverna.

 L’ufficiale si era voltato verso uno dei due alabardieri, dicendogli:

 – Hai udito, José?

 – Sí, signore.

 – Allora tu non eri al tuo posto in quel momento.

 – Eppure, signore, vi giuro che io non mi sono mai allontanato da quel portone, il quale o bene o male mi riparava dalla pioggia.

 – Forse in un momento di distrazione.

 – Lo escludo assolutamente, – rispose l’alabardiere, con voce recisa.

 – Eh!… Qualche volta, quando si scambia un’occhiata con qualche bella fanciulla, non si vede piú nulla, – insinuò il taverniere.

 – Non ho veduto altro che dell’acqua.

 – Ed allora, taverniere? – chiese l’ufficiale.

 – Panchita, – chiamò don Barrejo.

 La bella taverniera fu pronta ad accorrere.

 – Hai veduto anche tu quei tre signori che hanno vuotato a quel tavolino almeno sette od otto bottiglie?

 – Sí, Pepito mio.

 – Sono usciti di qui, sí o no?

 – Se non ci sono piú seduti intorno al tavolino, vuol dire che se ne sono andati.

 – Avete capito, signor ufficiale? – chiese il guascone. – Erano in tre e io non son uomo da ammazzare come cani tre cristiani, per poi gettare i loro cadaveri… dove? Non abbiamo nemmeno il pozzo in questa casaccia. Mi pare quindi impossibile che tre uomini di carne ed ossa siano scomparsi senza lasciare traccia di sé. Che fossero dei diavoletti? Si dice che se ne trovino fra quei cani dei filibustieri, almeno cosí affermano i frati della cattedrale.

 – L’uomo biondo non era di certo un diavolo, poiché era troppo buono cattolico, – rispose l’ufficiale, il quale pareva preoccupato.

 – Vuotiamo alcuni bicchieri ancora, poi procederemo ad una visita rigorosa alla mia casa. Oh!… Aspettate!… Ho in cantina una bottiglia che conta venticinque anni e quattordici giorni, lo so ci certo, perché l’ho presa in mano quest’oggi.

 “Volete che l’assaggiamo, signor ufficiale?”

 – Vada pure la bottiglia vecchia, – rispose il capo della ronda. – Avremo sempre tempo di visitare la vostra casa.

 – Panchita, un lume!… – gridò il guascone. – Dammi anche la mia draghinassa, perché questa istoria di uomini scomparsi mi ha un po’ guastato il sangue.

 Prese l’uno e l’altra e, mentre l’ufficiale, approfittando della sua assenza, faceva gli occhietti dolci alla bella taverniera, scese la scala che conduceva in una profonda e molto spaziosa cantina, occupata in buona parte da botti e da barilotti.

 Nel passare dietro il banco però, il furbo compare si era impadronito di un fascio di tovaglie.

 Aveva appena messo i piedi sull’ultimo gradino, quando si vide precipitare addosso Buttafuoco e Mendoza.

 – Dunque?… – chiesero ad una voce alta i due avventurieri.

 – La va male, amici. Quel Pfiffero era sorvegliato e la ronda è venuta a chiedermi che cosa ne ho fatto.

 – Bisogna farlo sparire, – disse Mendoza.

 – Cacciarlo dentro la botte diXeres ?

 – Almeno là non andranno a cercarlo.

 – Io ho trovato di meglio, – rispose il guascone.

 – Di’ su.

 – Voglio farvi fare la parte dei fantasmi.

 – Sei pazzo, don Barrejo?

 – Vi dico che se non riusciamo a spaventare quei tre poliziotti, le nostre faccende finiranno male, poiché intendono di fare una visita minuziosa alla mia casa ed alla cantina, per cercare quel maledetto Pfiffero.

 – Che cosa vuoi che facciamo? – chiese Mendoza, a cui sorrideva l’idea di far la parte dello spauracchio.

 – Vi ho portato qui delle tovaglie che indosserete quando l’ufficiale e gli alabardieri scenderanno. All’estremità della cantina poi vi sono dei ferrivecchi e vi troverete anche delle catene.

 “Fingetevi spettri o diavoli e vedrete che corsa prenderà la ronda!”

 – Risali? – chiese Mendoza.

 – Devo portare sopra un paio di bottiglie ancora, che faranno girare completamente la testa a quei brav’uomini.

 “Fra un quarto d’ora cominciate a rumoreggiare. Io rispondo di tutto.”

 – E se quei tre poliziotti non credessero affatto ai fantasmi? – chiese Buttafuoco.

 –Tonnerre !… Allora impegneremo risolutamente la lotta e nessuno di loro uscirà vivo dalla cantina, – rispose il guascone. – Vi lascio il lume che vi raccomando di spegnere dopo che avrete ben nascosto dietro le botti quel Pfiffero ubbriacone.

 Il bravo taverniere passò in rivista la sua biblioteca, formata di bottiglie di prima marca, almeno cosí assicurava lui, ne prese due che sembravano molto venerande e risalí la scala, impugnando la draghinassa.

 L’ufficiale stava in quel momento accarezzando il mento della bella castigliana. Don Barrejo finse di non vedere nulla e si precipitò verso il tavolo, sbuffando come una foca.

 – Pepito mio! – gridò Panchita, fingendosi spaventata. – Che cos’hai?

 – Io non so, – rispose il guascone, deponendo sul tavolo le due bottiglie, – ma dopo la comparsa di quell’uomo vestito di nero e dai capelli biondi e la sua scomparsa misteriosa, succedono qui certe cose che mi impressionano profondamente, moglie mia.

 I tre soldati erano diventati un po’ pallidi, cosa d’altronde non sorprendente in quei tempi, in cui tutti credevano alle apparizioni dei diavoli, dei folletti, delle streghe e degli spettri.

 – Che cosa avete veduto? – chiese l’ufficiale.

 – Posso essermi ingannato, eppure giurerei di aver scorto, all’estremità della cantina, una figura bianca che danzava intorno alla mie botti.       

 – Volete spaventarci, taverniere?

 – Niente affatto, signor ufficiale. Non vi pare che io sia pallidissimo?

 – Veramente lo eravate anche prima.

 – No, perché la mia pelle è sempre abbronzata, è vero, Panchita?

 – Verissimo, – rispose la castigliana, la quale si studiava di secondare il marito, senza sapere che cosa stava per succedere.

 – Mi viene un sospetto, signor ufficiale, – riprese il guascone, il quale stava sturando le due bottiglie.

 – Quale?

 – Che quell’uomo vestito di nero non fosse affatto un buon cristiano e che invece di uscire dalla porta si sia tramutato in uno spirito per succhiarmi tutto il vino della mia cantina.

 – Che storie ci narrate, taverniere? – chiese l’ufficiale. – Io ho conosciuto quel signore e vi posso garantire che è un buon cattolico, poiché il marchese di Montelimar non prende ai suoi servigi degli eretici.

 – Il marchese di Montelimar! – esclamò don Barrejo. – Chi è?

 – Alto là, taverniere, – rispose l’ufficiale. – Voi non avete il diritto di conoscere i segreti della polizia di Panama.

 – Allora beviamo.

 Il guascone stava per empire i bicchieri, quando sotto terra si udirono dei rumori indistinti e tuttavia non meno impressionanti. Pareva che delle persone martellassero delle lastre di ferro, mentre altre si divertivano a trascinare catene o ferravecchi.

 L’ufficiale, i due alabardieri e Panchita erano balzati in piedi, mentre don Barrejo si lasciava cadere su una sedia, mandando un sospirone che avrebbe intenerito perfino i sassi.

 – Chi produce questo baccano? – chiese l’ufficiale, sfoderando la sua spada.

 – È l’anima dell’uomo che voi cercate, ve l’assicuro io, – disse don Barrejo. – L’ho scorto nella mia cantina.

 – Volete burlarvi di noi, taverniere?

 – Burlarvi!… Andiamo dunque a vedere!… Siamo in quattro e bene armati e anche mia moglie, se vuole, sa maneggiare benino il spiedo.

 Il guascone aveva pronunciate quelle parole con tanta gravità che le guardie della ronda erano rimaste non poco impressionate. Quella storia di diavoletti nella cantina e la scomparsa misteriosa, assolutamente inesplicabile per loro che ignoravano come fossero andate le cose, cominciava a seccarli moltissimo.

 L’ufficiale vuotò un bicchiere pieno di vecchia Malaga, che doveva fargli girare non poco la testa, poi, asciugandosi i baffi col dorso della mano, disse con voce grave, volgendosi verso i due alabardieri:

 – Noi dobbiamo compiere il nostro dovere, camerati, e riportare al signor marchese il corpo o l’anima di quel signore che è venuto qui a bere.

 “Vuotate anche voi un altro bicchiere per farvi animo e andiamo a vedere che cosa succede nella cantina di questa taverna.

 “Por Dios!… Siamo uomini d’armi!…”

 – Panchita!… – gridò don Barrejo. – Prendi lo spiedo tu e porta un altro lume.

 – Ne avevi già uno quando sei sceso nella cantina, – rispose la castigliana.

 – L’ho lasciato cadere quando mi è sembrato di vedere lo spettro dell’uomo biondo.

 – Tu finirai per diventare un don Fracassa, marito mio.

 – I miei malanni li pagano i meticci che vengono qui a bere ilmezcal , tu già lo sai.

 “Siamo pronti? A me il lume e, corpo d’un cannone!… voglio battagliare cogli spettri se realmente si sono rifugiati nella mia cantina.

 “Signor ufficiale, vi prego di starmi molto vicino. Sapete… io non sono un uomo d’armi e non ho maneggiato fino ad oggi altro che bottiglie.”

 – Ci siamo noi, – rispose il capo della ronda, a cui pareva che la vecchia Malaga avesse dato un gran colpo alle gambe. – Siete pronti, alabardieri?

 – Sí, signore, – risposero i due soldati, i quali non si trovavano in migliori condizioni.

 – Partiamo e non diamo quartiere né ai diavoli, né ai folletti, né ai fantasmi.Caramba !… Metteremo a soqquadro la cantina della taverna d’El Moro.

 Ed i tre poliziotti, pieni di ardore pel troppo vino bevuto, si mossero, preceduti da don Barrejo il quale reggeva la lampada ed impugnava fieramente la sua fida draghinassa e seguiti dalla bella castigliana armata d’un formidabile spiedo.

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