Capitolo XIV FRA LE BOSCAGLIE DEL NICARAGUA

– Al fuoco!… Al fuoco!…

 Questo grido, lanciato nel cuore della notte, in una città che ha di fronte un nemico formidabile, capace di tutto, si propagò colla rapidità del lampo, di casa in casa.

 I cittadini, in preda ad uno spavento indescrivibile, si precipitano nelle vie spingendo le donne ed i fanciulli strillanti e fuggono, senza nemmeno pensare a mettere in salvo le loro ricchezze.

 Alla testa di quella turba vi sono tre uomini che non cessano di urlare a squarciagola:

 – Al fuoco!… Al fuoco!… I filibustieri!…

 Sono i due guasconi ed il basco, i quali cercano di giungere primi a qualche ponte levatoio per guadagnare la montagna.

 La taverna d’El Morobrucia come un zolfanello e le case che le stanno presso, tutte costruite con tavole di pino dellasierra , fiammeggiano anch’esse.

 Cortine di fuoco scagliano al di là della strada una tempesta di tizzoni ardenti e nembi di scintille, provocando altri incendi.

 Le trombe squillano, le truppe accorrono da tutte le parti, mentre le batterie della montagna, credendo che i filibustieri avessero attaccata la città, fanno rimbombare i loro cannoni.

 Ogni tentativo per salvare la città, costruita quasi interamente in legno, eccettuato il palazzo del governo, è subito riconosciuto vano dai primi accorsi, i quali si trovano costretti a battere in ritirata dinanzi a quel fiammeggiare spaventoso che aumenta di momento in momento.

 Degli scoppi avvengono e fanno saltare degli appartamenti interi, mandando tutto all’aria ed accrescendo il terrore: sono le provviste di polvere che prendono fuoco.

 Ormai tutti fuggono, perfino i soldati che temono per la polveriera.

 Don Barrejo ed i suoi due compagni sono sempre alla testa di quella moltitudine di fuggiaschi e non cessano di urlare.

 Hanno delle gambe solide i due guasconi ed anche il basco e fanno degli sforzi prodigiosi per giungere primi, per non correre il pericolo d’imbattersi nel marchese di Montelimar o nel suo segretario.

 Con un ultimo slancio raggiungono il ponte levatoio di levante, già precipitosamente calato dai soldati di guardia, e si gettano attraverso alla valle, lasciandosi subito molto addietro i cittadini.

 Per una diecina di minuti continuano a scendere la valle, che le fiamme illuminano sinistramente, poi si gettano verso la montagna che s’alza verso il mezzodí e la scalano per alcune centinaia di metri.

 – Basta, – disse don Barrejo, il quale soffiava come un mantice. – I guasconi non hanno mai avuto né le zampe, né i polmoni dei cavalli.

 Si era lasciato cadere sotto un gigantescopinou ed i suoi due compagni, non meno sfiatati di lui, l’avevano tosto imitato.

 Da quell’altezza potevano assistere, senza alcun pericolo, alla distruzione della disgraziata città.

 Segovia-Nuova non era altro che un mare di fuoco, spaventoso a vedersi.

 Giganteschi turbini di fumo, che avevano delle tinte sulfuree, salivano verso il cielo come sospinti da un vento impetuoso, mentre miriadi e miriadi di scintille volteggiavano in tutte le direzioni per ricadere in mezzo alle cupe boscaglie della valle.

 Di quando in quando una colonna di fuoco si slanciava fuori da quella bolgia infernale, con le selvagge contrazioni dei serpenti, poi vi tornava dentro.

 Gli abitanti si affollavano nella valle, spingendo innanzi muli, cavalli e buoi piú o meno carichi, fra un urlío di donne spaventate e di fanciulli terrorizzati, mentre i soldati proteggevano la ritirata occupando fortemente le due falde dei monti, per impedire un improvviso attacco da parte dei filibustieri.

 – Per bacco!… – disse don Barrejo, il quale si era rialzato. – Nuova Segovia si potrebbe chiamare ora Nuovo Forno.

 “Non avrei mai creduto che un miserabile caratello d’aguardientepotesse scatenare un simile incendio.

 “Ah! i filibustieri non potranno lamentarsi di noi. Se non abbiamo potuto prendere il marchese di Montelimar, abbiamo almeno aperta la strada. Che cosa dici, Mendoza?”

 – Che schiaccerei un sonnellino, – rispose il basco, il quale sbadigliava come un orso.

 – Qui no. il vento comincia a spingere verso di noi il fumo, e poi i filibustieri potrebbero sorprenderci e mandarci all’altro mondo senza riconoscerci.

 “Fortunatamente ho detto a Buttafuoco, prima di lasciarlo, che avremmo segnalato il nostro ritorno.”

 – Accendendo la pipa?

 – No, con dei fuochi disposti in croce.

 – Che non potranno vedere con tutte queste gigantesche piante che ci coprono. Bada a me, camerata, gettati al mio fianco ed aspettiamo che il fuoco abbia divorata la città.

 “Domani ci apriremo la via attraverso il bosco ed i filibustieri non saranno cosí imbecilli da fucilarci senza nemmeno dire: ehi!… guardati!… Buttafuoco manderà degli uomini a cercarci.”

 – C’è troppa luce per dormire.

 – Copriti gli occhi colle mani, – disse De Gussac. – Io accetto il consiglio del tuo amico, e fino allo spuntare del sole non mi muoverò.

 – Allora monto la guardia.

 – Come vuoi, amico: buona notte, e guarda che le fiamme non si spingano fino a noi, – disse Mendoza.

 – Potete dormire tranquilli quando veglia un Barrejo.

 La risposta fu data da due grugniti. Il guascone numero due ed il basco russavano già, mentre la valle fiammeggiava sempre piú intensamente, illuminando perfino le creste delle altissime montagne.

 Tutta la notte il fuoco avvampò con furia incredibile, facendo crollare case, caserme, chiese, campanili, magazzini, poi verso l’alba le fiamme, per mancanza di alimento, gradatamente si abbassarono, contorcendosi, come fossero furiose di non aver piú nulla da distruggere.

 Segovia-Nuova non esisteva piú.

 La geniale, quantunque feroce, trovata del guascone era stata sufficiente ad aprire, il poche ore, la via ai filibustieri di Raveneau de Lussan e disperdere i grossi corpi spagnuoli che il marchese di Montelimar poteva opporre a loro, e con molte speranze di aver ragione di quel pugno d’uomini.

 Quando il sole riapparve sulle alte vette dell’impotentesierra , che si stendeva da ponente a levante, fronteggiata da un’altra minore, i tre avventurieri, non vedendo piú nessuno nella valle, si misero in cammino per raggiungere Buttafuoco e Raveneau de Lussan.

 I filibustieri, vedendo il passo libero, potevano approfittare e scendere dalle loro posizioni, senza attenderli.

 Si ricacciarono sotto i foltissimi boschi che coprivano i fianchi dellasierra e si misero animosamente in cammino, preceduti da De Gussac, il quale si era provvisto d’un moschetto prima di lasciare la sua tavernaccia.

 Nello scendere la valle si erano considerevolmente allontanati dalle trincee tenute dai loro compagni, sicché dovettero rimontare faticosamente lasierra per una mezza dozzina d’ore, aprendosi il passo a colpi di draghinassa.

 – Si vedono, – disse ad un tratto don Barrejo.

 – Chi? – domandò Mendoza.

 – Le trincee.

 – Ed i filibustieri?

 – O che dormono tutti come ghiri o sono partiti – rispose il guascone. – Non vedo nessuna sentinella vegliare sui punti avanzati.

 – Che ci abbiano abbandonati?

 – Mio caro, avranno pensato che era meglio salvare trecento uomini, invece di due soli.

 – Gl’ingrati!… – esclamò Mendoza.

 – Non siamo ancora dentro le palizzate, – disse De Gussac.

 – Forse si riposano all’ombra delle cinte.

 Don Barrejo scosse la testa.

 – Uhm!… – fece poi. – Noi abbiamo lavorato per gli altri, e gli altri hanno piantato in asso noi.

 “Forse, non vedendoci ritornare presto, avranno creduto che gli spagnuoli ci avessero appiccati.”

 Un odore insopportabile giungeva dalla parte delle trincee, sopra le quali vedevano volteggiare stormi immensi diurubu , i falchi dell’America centrale.

 I cadaveri degli spagnuoli, abbandonati sul campo di battaglia, cominciavano a corrompersi.

 –Tonnerre !… – esclamò don Barrejo, il quale cominciava ad avanzarsi con prudenza. – Sarà un affare serio mettere i piedi dentro a quel carnaio.

 “Che i nostri compagni siano fuggiti per non prendersi la peste?”

 – Lassú non vi è nessun essere vivente, – disse De Gussac, il quale aveva raggiunto l’orlo della prima trincea. – Mi rincresce dirvelo, ma voi siete stati abbandonati.

 – Andremo al Darien per nostro conto, – rispose don Barrejo, il quale non si spaventava mai di nulla. – Ora non abbiamo piú gli spagnuoli ai fianchi.

 – Aspetta: vedo un segnale piantato in mezzo alla trincea.

 – Andiamo a vederlo, – disse il basco. – Lo hanno innalzato certamente per noi.

 Superarono la trincea, turandosi il naso per non respirare quelle esalazioni pestifere prodotte da quell’ammasso di corpi umani ormai in completa dissoluzione, e si diressero verso un’asta di lancia la quale reggeva un drappo rosso con qualche cosa di bianco piantato sulla cima e che non doveva essere un pezzo di lama.

 Mendoza non si era ingannato.

 Era un biglietto di Buttafuoco, col quale dava loro l’appuntamento sul Maddalena, nel caso che fossero riusciti a sfuggire agli spagnuoli.

 – Hanno approfittato dell’incendio per passare, coperti dalle nuvole di fumo, sotto le batterie spagnuole, – disse don Barrejo.

 – E noi? – chiese De Gussac.

 – Seguiremo la medesima via.

 – È lontano però il Maddalena, perché scorre lungo le frontiere del Darien. Non vi potremo giungere prima di una diecina di giorni.

 – Daremo un po’ d’olio di palma ai nostri piedi e non ci fermeremo finché non avremo raggiunti i compagni.

 – Vorrei sapere quale vantaggio hanno su di noi.

 – Notevole certamente, ma noi cercheremo di guadagnare via. Prima però di metterci in marcia cerchiamo delle armi da fuoco e delle munizioni, disse don Barrejo. – Ne vedo tante là in mezzo a quei morti.

 – Non sarò certamente io che metterò i miei piedi in quel carnaio, – disse Mendoza facendo un gesto di ribrezzo.

 – E nemmeno io, – aggiunse De Gussac.

 Il guascone li guardò quasi con commiserazione, poi disse.

 – Diventate un po’ schizzinosi voi, camerati. Don Barrejo però non lo è mai stato.

 Scavalcò la trincea e si lasciò cadere su quell’ammasso di cadaveri, sopra i quali battagliavano ferocemente gliurubu .

 Tenendosi uno straccio al naso, si avanzò con precauzione, temendo una caduta, e giunse finalmente dinanzi ad un gruppo dove archibugi e munizioni abbondavano.

 Stava per prendere un paio di armi da fuoco, quando si vide piombare addosso uno stormo di volatili.

 I divoratori di carogne, disturbati nel loro nauseabondo pasto, si precipitavano addosso al vivo, tentando di levargli gli occhi.

 – Ah!… furfanti!… – urlò il guascone, furibondo, sguainando subito la draghinassa. – Avete fatto alleanza cogli spagnuoli? Ora vi accomodo io.

 Chiacchierava e battagliava ad un tempo, tagliando ali e teste, seppellendosi fra una nuvolaglia di penne.

 Mendoza e De Gussac ridevano a crepapelle, senza accorrere in suo aiuto.

 Gliurubu dovettero però ben presto convincersi che i loro becchi erano meno robusti della draghinassa del guascone e finirono per andarsene. Don Barrejo raccolse i suoi due archibugi e le sue munizioni, ripassò sui cadaveri brulicanti già di vermi e scalò la palizzata.

 – Guardate un po’, – disse. – Perfino gli uccelli l’hanno con noi!

 “Questa è la terra della maledizione e…”

 Un colpo di fucile, sparato a non molta distanza, gli ruppe la frase. Degli uomini che indossavano corazze ed elmetti erano improvvisamente comparsi sulla cresta dell’altura e si preparavano a fucilare i tre avventurieri senza nemmeno dire loro: Ohé, guardatevi!

 – Fulmini!… – esclamò Mendoza, mettendosi prontamente al coperto della seconda trincea. – Gli spagnuoli!…

 –Tonnerre !… Da dove sono sbucati costoro? – si chiese don Barrejo, il quale aveva fatto altrettanto.

 – Devono essere quei trecento che ci seguivano alle spalle per toglierci i bagagli, – rispose Mendoza. – Gambe, amici, e rifugiamoci nella foresta.

 Le palle cominciavano a fioccare sulle palizzate, però gli spagnuoli, temendo forse di aver dinanzi a loro forze rilevanti, non avevano osato abbandonare la cresta dell’altura.

 I tre avventurieri, tenendosi curvi e ben vicini alla cinta di mezzo, guadagnarono d’un fiato il fianco dellasierra , coperto da alberi immensi e da cespugli colossali che s’intrecciavano ai festoni di liane e vi si gettarono dentro, mentre i colpi di fuoco spesseggiavano con maggior frequenza.

 – Se non si sono accorti che siamo in tre soli, forse ci lasceranno in pace, – disse don Barrejo, il quale sciabolava rabbiosamente le piante per aprirsi il passo.

 – T’inganni, compare, – disse Mendoza. – Ho udito dei cani latrare e li lanceranno sulle nostre tracce.

 “Ti ricordi quella famosa corsa attraverso i boschi di Sandomingo?”

 – Lasciami correre: è il meglio che possiamo fare.

 Avevano trovato uno squarcio nella foresta, forse aperto dai tapiri, i quali hanno l’abitudine di costruirsi delle vere strade, e si erano messi a correre con lena affannosa, spronati dalle archibugiate che la montagna opposta ripercuoteva con un rimbombo assordante.

 Quella corsa disperata, lungo il fianco dellasierra , durò una buona ora, poi i tre avventurieri, non udendo piú far fuoco, si fermarono, non poco stupiti di essere scampati miracolosamente all’agguato.

 – Che cosa dici tu, Mendoza, di tutta questa faccenda?

 – Che se avessi una buona colazione la divorerei subito in mezzo minuto, – rispose il basco.

 – Io penso invece che navighiamo ora in un mare di fastidi.

 – Sono inezie, pei guasconi.

 – Corpo di bacco!… Se abbiamo alle spalle quei trecento uomini finiremo per essere presi.

 – Abbiamo delle gambe anche noi.

 – E loro hanno i cani. Hai proprio udito dei latrati?

 – Qualche mastino urlava fra gli spagnuoli.

 – Io ho sempre avuto una paura tremenda di quelle bestiacce, perché quando si mettono su una pista non la lasciano piú.

 “Che bel guadagno che abbiamo fatto a recarci a Segovia! Siamo rimasti tagliati fuori dal grosso e colla retroguardia degli spagnuoli alla spalle.

 “De Gussac, tu che sei guascone come me, hai qualche idea meravigliosa?”

 – Se avessi qui qualche bottiglia saprei forse trovarcela nel fondo, – rispose il guascone numero due. – Il vino, purtroppo, non s’incontra nelle boscaglie.

 – Allora non ci rimane che di metterci in cammino.

 – Finché avremo la lingua asciutta e le gambe rotte, – aggiunse Mendoza. – Non bisogna fidarsi di questo silenzio.

 “Se gli spagnuoli non sparano piú, è segno che si sono messi già sulla nostra pista.

 “Amici, gambe!…”

 Si erano internati in un superbo bosco di passiflore, arrampicanti che in quelle regioni acquistano rapidamente delle dimensioni straordinarie, col fusto irto di spine e che si attorciglia facilmente ai pini od alle palme, formando dei festoni d’una magnificenza incredibile.

 Quasi tutto il tempo dell’anno sono coperte di fiori purpurei con pistilli e stami bianchi i quali rappresentano, con esattezza meravigliosa, dei martelli, dei chiodi, dei ferri di lancia, delle piccole corone di spine e tutti gli altri strumenti della passione.

 I tre avventurieri, che cominciavano a provare le prime strette della fame, si gettarono sulla frutta di quei profumati vegetali, grossi come un piccolo popone, colla buccia giallastra, eccellenti se conditi con vino e zucchero, e dopo d’averne fatto un’ampia raccolta, si rimisero in cammino seguendo sempre l’aspra falda dellasierra .

 Di quando in quando, quasi sotto i loro piedi, si alzavano deibotauro , volatili alti quasi due piedi, colle penne brune, rigate sopra, il ventre grigiastro ed il becco acutissimo, oppure deicurlam , trampolieri appartenenti alla famiglia dei francolini, bruno-purpurei e la testa picchiettata di bianco, che non avrebbero dovuto trovarsi in mezzo a quelle foreste essendo uccelli palustri. Vedendo passare i tre avventurieri, i quali si guardavano bene dallo sparare pel timore di attirare l’attenzione degli spagnuoli, volavano via gridando:carò …carò …

 – Ehi, don Barrejo, – disse Mendoza, il quale seguiva cogli sguardi ardenti un branco di scoiattoli volanti, che avrebbero potuto fornirgli una deliziosa colazione. – Cantano per te quei trampolieri.

 – Per me!… – esclamò stupito il guascone, il quale non cessava di battagliare, con De Gussac, contro le passiflore.

 – Questi sono messaggeri gentili, mandati da tua moglie: carocaro…

 – Che il diavolo ti porti!… – Tu sei sordo come una campana!.Carò …carò … la castigliana non mi ha mai dettocarò .

 “Lascia stare le donne e cerca di catturarmi invece un paio di quegli scoiattoli volanti. Credi tu che io sia un uomo da vivere solamente di poponcelli di passiflore?”

 – Se vuoi, sparo!

 – Ah, no!… – disse don Barrejo. – Gli spagnuoli ci sono alle calcagna.

 “Odi quel maledetto cane?”

 – Mi pare di udirlo di quando in quando.

 – Già!… I baschi sono diventati anche sordi ora.

 Pur chiacchierando non si arrestavano. Colle spade e con la draghinassa battagliavano ferocemente contro le passiflore, le quali formavano sopra di loro dei festoni sempre piú folti.

 Verso il mezzodí fecero una breve fermata dinanzi ad una grossa pianta, la quale cresceva solitaria in mezzo a quel caos di verzura.

 – Unpalo de vaca !… – aveva esclamato don Barrejo. – La colazione è assicurata. Anche i boschi qualche volta servono, benché facciano sovente disperare i poveri diavoli che sono costretti ad attraversarli.

 “Ehi, Mendoza, tu che hai un buon naso, senti gli spagnuoli?… Io che posseggo due orecchi larghi come due ombrelli non odo piú il cane.”

 – Io credo che si siano fermati a fare colazione, – rispose il basco. – Non sono già dei muli dei Pirenei per marciare senza un momento di sosta.

 – De Gussac, prestami il tuo elmetto. Non vi saranno delle bestie dentro?

 – No, camerata, te lo assicuro.

 – D’altronde se vi è qualche schizzinoso, tanto peggio per lui.

 Prese la draghinassa e l’elmetto e s’appressò alla pianta, la quale cresceva dritta, tenacemente abbarbicata a una roccia, con una corona di foglie larghissime.

 Vibrò un terribile colpo e dal tronco si vide scaturire subito uno zampillo di liquido biancastro, che pareva non avesse nulla da invidiare al latte.

 – Questo vale meglio dei poponcelli, – disse, porgendo a Mendoza il casco che traboccava. – Che peccato non diventare piantatore dipalo de vaca !… Ciò mi risparmierebbe la fatica di tenere delle mucche.

 – Sarà per un’altra volta, – rispose Mendoza, il quale beveva a lunghi sorsi il dolcissimo e denso liquido.

 La fermata alla base dell’albero non durò piú di dieci minuti. Un lontano latrato li persuase a rimettersi subito in marcia, per non venire raggiunti.

 – Come sono lesti gli spagnuoli a fare colazione, – disse bon Barrejo. – La nostra pelle deve valere piú dell’oro… Bestia!… Sono pelli guascone e basche!… Sfido io che sono ansiosi di levarcele di dosso!

 Avevano ripresa la corsa, ma non piú attraverso ad una boscaglia di passiflore. Delle palme magnifiche sorgevano dinanzi a loro, a gruppi, lanciando i loro tronchi snelli e flessibili a piú di cinquanta metri d’altezza. Sulle cime cadevano elegantemente delle immense foglie dentellate, che portavano una spola d’un bel violetto iridiscente, listata di porpora e fiocchi di frutta che sembravano mele verdi.

 Ai piedi di quelle piante crescevano, in grande quantità, delletigridie , le quali spiegavano al sole i loro fiori in forma di coppa, chiazzati ed occhialuti come il pelame d’un giaguaro o d’un pavone.

 Quella seconda corsa, piú affannosa della prima, durò fino al cader del sole.

 Tutto il giorno avevano udito i latrati del maledetto cane, sempre lontani è vero, ma anche sempre sulla loro pista.

 – Cerchiamoci un rifugio, – disse De Gussac. – Se non lasciamo passare gli spagnuoli, ci faranno correre fino alle cateratte del Maddalena.

 – Cercalo tu, – disse don Barrejo. – Sarei ben felice di lasciar passare quel cane dannato.

 – Se ci arrampicassimo…

 – Taci, Mendoza, – disse il guascone, il quale da qualche istante tendeva gli orecchi. – Si direbbe che noi siamo vicini a qualche fonte.

 “Ascolta tu, De Gussac.”

 – Odo infatti dell’acqua gorgogliare, – rispose il guascone numero due.

 – Sarebbe quel che ci vorrebbe per far perdere al cane le nostre tracce.

 – Andiamo un po’ a vedere se si potrà usare quell’acqua a nostro vantaggio, – disse Mendoza. – Se si tratta d’un ruscello, addio tutte le nostre speranze.

 I tre avventurieri, all’incerta luce crepuscolare, sfondarono un ammasso enorme di cespugli, massacrarono colle spade una ventina di cactus giganti e si trovarono improvvisamente dinanzi ad un bacino il quale si stendeva dinanzi ad una roccia.

 Da una spaccatura, piuttosto ampia, che pareva conducesse a qualche antro, l’acqua entrava e da un’altra spaccatura, aperta sul margine del bacino, usciva, precipitandosi giú pei selvosi fianchi dellasierra .

 Don Barrejo aveva subito fissati i suoi sguardi sulla roccia.

 – La sorgente è là dentro, – disse. – Se potessimo trovare un rifugio? Il cane avrebbe un bel cercare le nostre tracce.

 – Credi che vi sia qualche caverna piena d’acqua? – chiese Mendoza.

 – Un serbatoio di certo.

 – E tu vorresti passare la notte là dentro coi piedi in acqua?

 – Rimani fuori e sbrigatela da solo cogli spagnuoli.

 – Non ho mai avuto simpatia per gli antri oscuri, dentro i quali si possono nascondere anche dei serpenti.

 – E le nostre spade non sono state temprate nelle acque de Guadalquivir? Compare, tu diventi, da qualche tempo, noioso. Invecchi forse?

 – Può darsi, – rispose il basco, ridendo.

 – Ho trovato, disse in quel momento De Gussac, il quale da qualche minuto si frugava le tasche.

 – Che cosa? – domandarono ad una voce i due amici.

 – Un pezzo di candela che mi è servito a dar fuoco al barile dell’aguardiente.

 – Leviamoci gli stivali e andiamo ad esplorare la sorgente, – disse don Barrejo. – I latrati si odono sempre piú distinti, e scommetterei che gli spagnuoli non si trovano a piú di mille passi da noi.

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