Capitolo XV IL PITONE DELLE CAVERNE

I tre avventurieri, profondamente impressionati dall’ostinazione degli spagnuoli, i quali parevano risoluti a non accordare loro un momento di tregua, si tolsero gli stivali di pelle gialla, appendendoseli agli archibugi ed entrarono nel bacino il cui fondo era coperto di erbe acquatiche.

 De Gussac aveva già accesa la candela, essendo ormai scomparso anche l’ultimo barlume di luce e si era messo dinanzi ai compagni tenendo in pugno la spada.

 Pratico delle regioni dell’America centrale, temeva che sotto quelle acque tranquille sonnecchiasse fra le erbe qualcuno di quei mostruosi serpenti acquatici, particolarmente temuti dagl’indiani, potendo sviluppare una forza non inferiore a quella dei pitoni dell’India e della Malesia.

 La traversata del bacino, non molto vasto d’altronde, si compí felicemente ed i tre avventurieri si trovarono presto dinanzi alla spaccatura dalla quale l’acqua sfuggiva gorgogliando dolcemente.

 – Possiamo passare, De Gussac? – chiese don Barrejo, che era in coda.

 – Non avremo alcuna difficoltà, – rispose il guascone numero due.

 – Cacciati dentro, dunque. Quel maledetto cane si avvicina sempre.

 De Gussac alzò la candela ed attraversò lo squarcio.

 Dinanzi a lui, come aveva già supposto, s’apriva uno splendido bacino naturale, di forma quasi circolare, abbastanza ampio per contenere anche due dozzine di uomini.

 Dalla vôlta e dalle pareti l’acqua cadeva abbondantemente, alimentando cosí la sorgente.

 De Gussac aveva fatto alcuni passi innanzi, tastando con precauzione il fondo, quando Mendoza e don Barrejo lo videro improvvisamente arrestarsi.

 – Hai veduto qualche satanello? – chiese il terribile guascone. – I miei li ho lasciati tutti nella cantina della mia taverna, sotto la guardia di Rios.

 – Non scherzare, camerata, – rispose De Gussac, con voce un po’ alterata.

 – Non ci saranno dei caimani qui, m’immagino.

 – Ho udito all’estremità del serbatoio l’acqua subito agitarsi.

 – Eppure non soffia vento qui dentro.

 De Gussac, invece di rispondere, alzò piú che poté la candela e si mise a guardare attentamente, ma la luce non poteva giungere fino in fondo alla sorgente.

 – Eppure, – disse, – sono certo di non essermi ingannato. È precisamente in questi rifugi tranquilli che amano ritirarsi i grossi serpenti d’acqua dolce.

 “Amici, fuori le spade!…”

 Aveva appena pronunciate quelle parole, quando l’acqua del bacino, quantunque non fosse piú alta di cinquanta centimetri, si gonfiò improvvisamente formando una vera ondata, ed un mostruoso serpente acquatico, che rassomigliava ad uno di quei terribilisucuriu brasiliani, colle scaglie tutte nere, si eresse sibilando rabbiosamente.

 Era piú grosso della coscia di un uomo e misurava, su per giú, almeno otto metri.

 I tre avventurieri, spaventati da quella improvvisa comparsa, si erano appoggiati contro la parete, per non farsi avvolgere dalle possenti spire del rettile stritolatore.

 – Mano agli archibugi!… – aveva gridato De Gussac, piantando la candela entro una fessura, per avere le mani libere e non correre il pericolo di rimanere senza luce.

 – Guardatevene!… – aveva invece esclamato don Barrejo. – Volete attirarci addosso gli spagnuoli?

 “Abbiamo delle spade e daremo battaglia a questo signor abitante delle caverne.”

 Il serpente, disturbato nel suo sonno, manifestava una collera terribile, però non osava ancora assalire, abbagliato forse dalla luce della candela.

 Fischiava rabbiosamente, si alzava e si abbassava ed agitava burrascosamente la sua coda, cercando di allungarla verso gli avventurieri per avvolgerla intorno alle loro gambe.

 La situazione era terribile. Dal di fuori giungevano, ad intervalli, i latrati del maledetto cane che guidava gli spagnuoli, ed il rettile si preparava per l’assalto.

 – Preveniamolo!… – gridò don Barrejo, alzando la sua terribile draghinassa. – Fra cinque minuti gli spagnuoli saranno qui.

 “Animo, camerati: proviamo il nostro acciaio sulle squame di quel mostro.”

 I tre avventurieri, decisi a uscire in qualche modo da quella situazione che di momento in momento si aggravava, si scagliarono a corpo perduto contro l’abitatore della caverna, menando colpi disperati.

 La spada di Mendoza, troppo leggiera, rimbalzava sulle scaglie del mostruoso rettile, senza riuscire a produrre alcuna ferita seria; le due draghinasse dei guasconi, piú solide e piú pesanti, tagliavano invece in pieno.

 Il serpente, coperto di sangue dalla testa a mezzo corpo, raddoppiava i suoi attacchi, cercando di avvolgere in un sol colpo i suoi assalitori e stritolarli.

 La sua possente coda si agitava in tutti i sensi, scagliando addosso ai combattenti sprazzi d’acqua che non li sgominavano affatto.

 – Picchia sodo, De Gussac!… – gridava don Barrejo, saltando a destra ed a sinistra per non farsi avvolgere. – Cacciagli la tua spada in gola, Mendoza, se non fa presa sulle scaglie.

 – E picchia duro anche tu, – rispondevano i camerati, menando colpi terribili.

 Il rettile, ferito in dieci punti, si esauriva rapidamente senza riuscire a sbarazzarsi dei suoi avversarî che gli piombavano incessantemente addosso come mastini arrabbiati.

 Finalmente il lungo corpo si ripiegò su se stesso, scosso da fortissime convulsioni, poi si stese lentamente sul fondo del serbatoio, proprio nel momento che don Barrejo lo finiva con un tremendo colpo di draghinassa vibratogli sulla testa.

 Intorno ai combattenti l’acqua era diventata tutta rosa, però essendo la bocca di sfogo abbastanza ampia, sfuggiva rapidamente.

 –Tonnerre !… – esclamò don Barrejo, tergendosi il sudore che gli colava dalla fronte. – Mi pare di aver battagliato contro qualche mostruoso drago. Sono veramente pericolosi, questi rettili, De Gussac?

 – Non sono velenosi, però posseggono una tale forza da stritolare, fra le loro spire, perfino un giaguaro.

 “Non vi è un animale che possa resistere loro.”

 – L’orso forse?

 – No, Il tapiro, e deve la sua salvezza alla capacità ed alla resistenza dei suoi polmoni.

 “Quando si sente avvincere, e ciò gli succede di frequente, abitando i luoghi frequentati da questi rettili, si sgonfia tutto.

 “Quando il rettile ha ben chiuse le spire, beve aria in gran copia, diventando un terzo piú grosso e spezza le vertebre del suo avversario se…”

 – Taci!… – disse Don Barrejo, curvandosi verso l’apertura. – Gli spagnuoli sono qui.

 Un latrato sonoro si era fatto udire a non molta distanza dal bacino. Il cane doveva aver trovata la pista dei fuggiaschi e la seguiva ancora con ostinazione feroce.

 – Io ho quasi piú paura dei mastini degli spagnuoli che dei giaguari, – disse Don Barrejo. – Che riesca a trovarci anche qui dentro, Mendoza?

 – È impossibile, – rispose il basco. – Se noi restiamo tranquilli e silenziosi, sfuggiremo ancora una volta ai nostri nemici.

 – Vediamo se à possibile trovare un posticino almeno per sederci.

 Non sarebbe piacevole rimanere tutta la notte coi piedi nell’acqua tutt’altro che calda e sempre ritti.

 – Cerchiamo pure, – rispose Mendoza, il quale ci teneva pure a riposarsi un po’, dopo una cosí lunga marcia.

 Prese la candela e fece il giro della sorgente. All’estremità scoprí una specie di nicchia, scavata dalle acque, bastante a contenerli tutti tre. Era tutt’altro che asciutta, poiché dai pori del suolo sfuggivano, con un allegro rumore, dei getti di acqua che poi si radunavano un po’ piú in basso.

 – Ci si può stare, – disse Mendoza. – Saremo costretti a prendere un bagno fino a domani mattina. Tutte le comodità d’altronde non si possono trovare.

 – Hai guardato bene se vi è nascosto dentro qualche altro serpente? Qualche volta questi brutti rettili si appaiano.

 – Non ho veduto che dell’acqua colare.

 –Tonnerre !… Spegni la candela!

 Il cane che guidava gli spagnuoli, un mastino di certo capace di tener testa anche a due uomini, aveva lanciato tre sonori latrati i quali si erano ripercossi sinistramente entro il serbatoio.

 La candela fu immediatamente spenta, ed i tre avventurieri si rannicchiarono nello speco, puntando gli archibugi verso l’apertura, quantunque dubitassero assai che la polvere fosse asciutta.

 Al di fuori, sulle rive del bacino, si udivano gli uomini parlare ad alta voce.

 – Il cane si è fermato, – diceva uno che aveva un vocione da toro. – Se Lopez si è arrestato, vuol dire che quelle canaglie hanno fatto qui una sosta.

 – Bella scoperta!… – aveva risposto un altro soldato, che aveva invece una voce squillante come una campana d’argento. – Anch’io, senza essere un cane, avrei sospettato che qui avessero fatto una fermata.

 “Caramba!… Non si trova sempre dell’acqua cosí fresca e cosí limpida.”

 – Dove si saranno nascosti quei demoni? – aveva ripreso il primo. – Che abbiano dei muscoli d’acciaio? È da stamane che corriamo come lupi affamati senza un momento di tregua.

 – Cerca Lopez!… Cerca!… – avevano gridato parecchie voci.

 Il cane continuava a latrare lungo le rive del bacino senza decidersi a riprendere la corsa.

 La pista che da dodici ore seguiva ostinatamente, gli era ad un tratto mancata.

 – Ehi, Mendoza, – disse don Barrejo, urtando il basco che gli stava vicino. – Che cosa ti dice il cuore, vecchio mio?

 – Che anche questa volta la passeremo liscia, – rispose il filibustiere. – La notte è scesa e non potranno scorgere la spaccatura per la quale siamo entrati!

 – Un’idea!… – esclamò don Barrejo, picchiandosi la fronte. – Talvolta si hanno nelle mani delle fortune e non si afferrano.

 – Ora quest’uomo metterà a soqquadro il serbatoio, – disse Mendoza.

 – Non si tratta che di prendere quel serpentaccio e di collocarlo presso l’apertura, – rispose il terribile guascone. – È cosí grosso che la otturerà completamente.

 “Vedremo se gli spagnuoli avranno il coraggio di assalirlo.”

 – Dopo che noi l’abbiamo accoppato, – disse De Gussac.

 – Ora che è morto difenderà noi.

 – Quest’uomo ha una fantasia inesauribile, – disse Mendoza.

 – Eppure le sue trovate, devo convenirne, sono sempre efficaci.

 – Allora si va a ripescare quel serpente? – chiese De Gussac.

 – Andiamo, – rispose Mendoza.

 Deposero gli archibugi, si presero per mano, regnando ormai là dentro un’oscurità perfetta, dopo che avevano spento il pezzo di candela, e si misero a cercare il mostruoso rettile coricato in fondo al bacino.

 Non fu difficile trovarlo poiché era cosí lungo che occupava quasi tutto l’antro, essendosi disteso dopo la sua morte.

 – Issa, – disse Mendoza, che pel primo l’aveva scoperto. – È pesante come dieci gomene delle âncore di speranza d’un tre ponti.

 – Issa, – risposero a loro volta i due guasconi.

 L’impresa però non fu cosí facile come si potrebbe credere, poiché quell’abitatore delle caverne pesava come se avesse dentro i suoi intestini del piombo.

 Tirando e spingendo e guidandosi colla debole luce che entrava dalla spaccatura, riuscirono finalmente a trascinarlo sul posto.

 – Prima di chiudere il passaggio vediamo cosa fanno gli spagnuoli e se sono sempre in buon numero, – disse don Barrejo.

 Dall’altra parte del serbatoio giungevano dei riflessi rossastri e si udivano molte voci parlare.

 Il guascone salí con precauzione fino alla spaccatura e lanciò al di fuori uno sguardo.

 – Corbezzoli!… – disse. – Si sono accampati proprio nei pressi del bacino ed hanno acceso molti fuochi.

 “Passeranno la notte qui; in attesa che il loro cane ritrovi le nostre tracce.”

 – Sono molti? – chiese Mendoza che gli stava dietro.

 – Non posso scorgerli tutti, – rispose don Barrejo. – Mi pare però che siano una grossa compagnia.

 “Devono essere quei famosi trecento che seguivano i filibustieri di Raveneau, per togliere loro i bagagli.

 “Dammi la testa di questo bestione per metterla bene in vista: anche se è spaccata produrrà un certo effetto. Ohé, issa!…”

 Il rettile fu nuovamente sollevato, spinto ed accomodato attraverso lo squarcio della sorgente, in modo da sembrare addormentato.

 Don Barrejo aveva avuta la precauzione di mettere la testa bene in vista, dopo d’averla pulita del sangue coagulato.

 – Ecco uno spauracchio che ci lascerà tranquilli, – disse. – Camerati, in ritirata nel nostro buco e cercate di dormire.

 Riattraversarono silenziosamente il serbatoio e raggiunsero il loro rifugio pullulante d’acqua freschissima, accomodandosi alla meglio per prendere un po’ di riposo.

 Dal di fuori non giungeva piú alcun rumore. Gli spagnuoli, stanchi da quella lunga corsa, dovevano essersi addormentati intorno ai fuochi.

 Neppure il cane urlava piú; solo l’acqua del bacino continuava a gorgogliare dolcemente, invitando a dormire.

 Potevano riposarsi tranquillamente gli spagnuoli che avevano per materasso dell’erba folta e profumata, ma non certo i tre disgraziati avventurieri, che si sentivano correre l’acqua sotto e sopra, cadendo anche dalla vôlta dei larghi goccioloni che stizzivano specialmente don Barrejo.

 Tutta la notte non fecero che agitarsi e cambiare di posto, nella speranza di trovare un posticino asciutto, mentre invece pareva che sopra la grande roccia esistesse un altro serbatoio importante, impaziente di scaricarsi per far posto alle nuove piogge.

 Anche quella notte, per quanto tormentosa passò come tante altre e finalmente un po’ di luce rischiarò il serbatoio, filtrando attraverso le spire del serpente.

 Gli spagnuoli al di fuori recitavano, come era loro costume, le preghiere del mattino e si udiva un fruscío ed un cozzare di spade e di archibugi.

 Don Barrejo che non aveva chiuso gli occhi un solo momento, stava per balzare fuori dal buco volendo sgranchirsi le gambe, quando si udirono echeggiare delle urla di terrore.

 – Serpente!… Serpente!… – gridarono gli spagnuoli, mentre il cane urlava a squarciagola.

 Sette od otto colpi di fucile rimbombarono un momento dopo e parecchie palle attraversarono il serbatoio, piantandosi nelle rocce friabilissime.

 – Ci assaltano? – chiesero Mendoza e De Gussac, svegliati di soprassalto.

 – Si, il rettile, – rispose il terribile guascone, ridendo. – Guardatevi dalle palle di rimbalzo.

 Il guascone numero due ed il basco, senza aspettare il suo ordine, si erano già coricati dentro il crepaccio, affinché i grossi proiettili, che fischiavano sempre attraverso il serbatoio, non li colpissero.

 Gli spagnuoli si accanivano contro l’enorme serpente e gli mandavano addosso una tal grandine di proiettili da farlo sussultare come se fosse ancora vivo.

 Quella tempesta durò parecchi minuti, quasi senza interruzione, poi finí in un clamore altissimo.

 Gli spagnuoli si erano probabilmente convinti che il rettile finalmente doveva essere morto.

 – Mendoza, – chiese don Barrejo, il quale seguiva le pareti del serbatoio tenendosi ben curvo. – Sei ancora vivo?

 – Si, compare, – rispose il basco.

 – E tu, De Gussac?

 – Piú vivo di prima.

 – Rendete grazie al serpentaccio, – disse don Barrejo, togliendosi il cappello ed inchinandosi. – Quella povera bestia ci ha salvata la pelle, figliuoli miei.

 “Purtroppo; senza la mia prodigiosa idea, a quest’ora voi sareste tutti morti.”

 – E le spade temprate nelle acque del Guadalquivir a che cosa servono dunque? – chiese il basco, ironicamente. – Se tagliando le ruvide e grosse scaglie dei serpenti, potrebbero tagliare anche qualche testa umana.

 – Qualche volta anche dieci teste, quando l’uomo che le impugna è valoroso ed ha il braccio solido, – disse il terribile guascone.

 – Anche cento, uomo ferocissimo, – rispose Mendoza. – Io ho passati molti anni fra i piú tremendi filibustieri e non mi è mai toccato d’incontrarmi in un avventuriero di tale fatta. Tu, compare, sei il vero calibro da 36.

 – Che cos’è?

 – Quando Wan Horn, il famoso filibustiere, scopriva fra i suoi uomini un accidente secco come te, lo insigniva dell’ordine calibro 36, che allora era la massima portata dei pezzi da caccia.

 Don Barrejo si scoprí e fece un profondo inchino.

 – Tu non sei un Wan Horn, né, un conte di Ventimiglia, – disse, colla sua solita comica gravità. – Siccome però sei sempre stato un famoso filibustiere, pur combattendo negli ultimi ranghi, io ti sono riconoscente del calibro che mi hai assegnato.

 “Corpo d’un cannone!… Se noi riusciremo a mettere le mani sul famoso tesoro del Gran Cacico del Darien, farò fondere per mia moglie unapepita grossa come una patata e su quello spillone farò incidere il 36.

 “Nuovo ordine cavalleresco di S. M. Mendoza 54°.”

 – Perché 54°?

 – Suppongo che tu avrai avuto degli antenati come qualche altro mortale e che non sarai nato dalla schiuma del mare. Tu dunque sarai il 54° successore del tuo antenatissimo.

 – Che il diavolo ti porti!… – rispose Mendoza, scoppiando in una risata.

 – È impossibile, camerata, – disse don Barrejo, – perché i diavoli ed i satanelli li ho lasciati tutti nella mia cantina sotto la guardia di Rios.

 “Suvvia, aiutatemi a togliere il serpentaccio, giacché gli spagnuoli se ne sono andati.”

 – Ne sei proprio convinto? – chiese De Gussac.

 – Non odi il cane latrare in lontananza? O cerca disperatamente la nostra pista o ne ha trovata un’altra.

 – Sí, se ne sono andati, – confermò Mendoza.

 Afferrarono il rettile che era ridotto in uno stato miserando e lo lasciarono cadere nel serbatoio, poi prese le armi e le munizioni lasciarono il rifugio per prendersi, dopo tanta acqua, un bel bagno di sole.

 Intorno al bacino fumavano ancora dei tizzoni, sui quali gli spagnuoli avevano abbrustolito delle pannocchie di mais, a giudicare dai molti grani che si vedevano a terra.

 Nemmeno essi dovevano essere ricchi in fatto di provviste.

 La giornata prometteva di essere splendida. L’astro diurno sfolgorava già sulle cime dellasierra di levante, inondando la vallata di raggi d’oro, ed una brezzolina fresca fresca passava attraverso i boschi, facendo sussurrare le gigantesche foglie delle palme ed ondeggiare le altissime cime deipinou .

 Ritto sui rami d’un cespuglio di anone grandiflore un bell’uccello, alto quasi due piedi, colle penne bruno rigate sopra ed il ventre grigiastro, col becco lungo ed acutissimo e gli occhi gialli e dilatati, pareva che salutasse il sole, lanciando a tutta gola e senza alcuna interruzione delle note curiose: dun ka-du… dun ka-du…

 – Quella sarebbe una magnifica colazione, – disse don Barrejo.

 – Ibotoko sono delicatissimi, noi però saremo costretti a guardarlo da lontano.

 “I nostri archibugi non possono sparare per ora. Peccato!…”

 – E poi non sarebbe prudente far fuoco in questo momento.

 Gli spagnuoli non dovevano essere molto lontani, – disse Mendoza.

 – Eppure i ventri brontolano minacciosamente. Abbiamo soppresso colazioni, pranzi e cene tutto d’un colpo.

 – Quando avremo varcata la cresta di questa montagna potremo arrischiare un colpo di fucile, don Barrejo. Lasciamoli quindi brontolare per ora.

 Il terribile guascone mandò un lungo sospiro.

 – A quest’ora, se io fossi nella mia taverna, avrei già fatte due colazioni.

 – E portato il caffè allaseñora moglie, – aggiunse Mendoza, ridendo.

 – Questa volta va’ tu al diavolo!…

 – Preferisco salire la montagna. Orsú, De Gussac, attacchiamo.

 Dato un ultimo sguardo alla profondissima valle che serpeggiava fra le duesierre e che appariva assolutamente deserta, i tre avventurieri, dopo avere imposto alle loro budella un rigoroso silenzio, si cacciarono attraverso la boscaglia colla speranza di lasciarsi molto addietro gli spagnuoli e di giungere prima di loro alle cateratte del Maddalena.

 La selvaggina abbondava sotto a quelle superbe piante, che lanciavano le loro cime a quaranta, a cinquanta e perfino a sessanta metri.

 Bande di coniglî dal pelo rosso chiaro e la coda lunga fuggivano attraverso ai cespugli; i galli dal collare, allora numerosissimi ed ora scomparsi sullesierre del centro americano, facevano per qualche istante la loro comparsa fra le liane che s’intrecciavano a festoni, mostrando le loro quattro ali, poiché ne hanno due piantate quasi sotto il collo, gonfiavano il loro gozzo rugoso di color arancio e salutavano con un grido acutissimo per poi scappare subito; sui tronchi dei pini i picchi capelluti, tutti neri, con un ciuffetto sulla testa, grossi come una cornacchia, picchiavano rabbiosamente contro il legno, col loro becco aguzzo e duro come l’acciaio, per cercare le larve depositate dagli insetti.

 In alto e quasi rasente al suolo poi, stormi di scoiattoli volanti non piú grossi d’un topo, col pelame grigio perla sopra e bianco sotto, il muso roseo e le piccole orecchie tutte nere, descrivevano degli zig-zag curiosi a vedersi, allargando la membrana dei fianchi che serve loro come paracadute.

 Don Barrejo, il quale non era ancora riuscito a far tacere i suoi intestini reclamanti imperiosamente la colazione, guardava malinconicamente quella selvaggina che pareva lo deridesse.

 –Tonnerre !… – borbottava. – Qui ci sarebbe da fare degli arrosti squisiti e devo contentarmi di guardarli. Cosí non la può durare.

 “Sono già abbastanza magro per diventarlo di piú.”

 A mezzodí, dopo d’aver attraversato parecchicañon , i tre avventurieri, piú affamati che mai, raggiungevano la cima dellasierra .

 Dinanzi a loro si stendevano altre vette che dovevano superare se non volevano cadere nelle braccia degli spagnuoli.

 Scaricarono gli archibugi, temendo che la polvere non servisse piú e si slanciarono attraverso i cespugli, ansiosi di guadagnarsi finalmente una colazione che mancava loro fino dal giorno innanzi.

 Ben presto dei colpi risuonarono a destra ed a sinistra, ripercuotendosi fragorosamente nella profonda vallata. Conigli, galline sultane, galli del collare erano caduti in buon numero sotto i colpi dei cacciatori i quali oltre ad essere spadaccini insuperabili, erano altrettanto famosi bersaglieri, specialmente Mendoza.

 Avevano già acceso il fuoco al riparo d’una roccia, soffiando un vento piuttosto forte sullasierra , e stavano spennacchiando i volatili, quando don Barrejo gettò in aria il gallo del collare che teneva in mano, accompagnando il gesto con una sfilza ditonnerre !

 – Ebbene, diventi pazzo? – gli chiese Mendoza, stupito. – È vero che lapuna della montagna guasta talvolta i cervelli.

 – Non ha però guasti i miei orecchi, compare, – rispose il terribile guascone. – Non odi nulla tu?

 – Dei torrenti scrosciare.

 – E tu, De Gussac, che sei un guascone al pari di me e che devi aver l’udito finissimo?

 – Ancora il cane?

 – Sí, urla sul fianco dellasierra . Quella bestia malefica ci ha fiutato anche a lunga distanza e cerca di raggiungerci.

 – Deve essere però molto lontano.

 Don Barrejo si diede due pugni sulla testa.

 – Corpo di tutti i satanelli chiusi nella mia cantina!… – esclamò furibondo. – Che non possiamo piú né dormire, né mangiare?

 – Compare, – disse Mendoza, – sai come fanno gli spagnuoli quando vanno alla guerra? Fanno colazione con una sigaretta, pranzano con una cipolla e cenano con una serenata fatta alla luna.

 – E se la luna manca?

 – Le chitarre continuano egualmente, – rispose Mendoza.

 – Ho udito infatti parlare della frugalità e della resistenza del soldato spagnuolo, – disse don Barrejo. – E cosí?

 – Si torna a scappare.

 – Senza aver assaggiati prima questi due galli del collare? Oh, mai!… Abbiamo anche noi il diritto di fare colazione e la faremo, corpo di tutti i satanelli!…

 “Il cane d’altronde è ancora molto lontano e forse segue un’altra pista e poi noi teniamo la cresta dellasierra , gli archibugi sono bene asciutti e sapremo difenderci.

 “De Gussac, soffia sul fuoco.”

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