Capitolo IV – L’insurrezione americana

Coll’atto memorabile del 4 luglio 1776, le colonie inglesi dell’est dichiaravano la propria indipendenza e la loro ferma volontà di staccarsi finalmente dalla madre patria, che da due secoli ne suggeva il sangue migliore, senza dare compensi.

Gli enormi balzelli che l’Inghilterra imponeva, sempre più gravi, alle sue colonie d’America per far fronte alle spese della guerra contro i Borboni di Francia e di Spagna e la negazione dei diritti politici ai coloni, furono le due cause da cui scaturirono le prime scintille, le quali non dovevano tardare a mettere in fiamme tutti gli Stati dell’est, poiché allora quelli dell’ovest e del sud si trovavano ancora sotto la dominazione spagnola.

Quantunque a corto di denaro, privi d’artiglierie e male armati, gli americani avevano salutato con entusiasmo la convenzione del luglio che proclamava l’indipendenza delle vecchie colonie inglesi.

Improvvisano generali, alla cui testa mettono il grande Washington, improvvisano colonnelli ed ufficiali, chiamano a raccolta la balda gioventù e dichiarano guerra alla possente Inghilterra.

La Francia e la Spagna, di sottomano, li aiutano. Corsari arditi li forniscono di artiglierie, di polvere, di fucili, e abili ufficiali francesi guidati dal giovane marchese Lafayette, accorrono in buon numero per offrire a quei coloni, ignari delle cose guerresche, la loro spada, la loro esperienza ed il loro sangue.

L’Inghilterra da principio non si era gran che preoccupata della proclamazione dell’indipendenza delle sue colonie d’oltremare. Si stimava troppo forte per non dover subito domare quegli insolenti piantatori di cotone e di tabacco e quei meschini mercanti che avevano osato sfidare la sua potenza.

Disgraziatamente per lei, s’ingannava. Aveva dinanzi a sé un nemico altrettanto formidabile, tenace, risoluto a tutto, pronto a sopportare con animo fiero tutti gli orrori della guerra che doveva, più tardi, rendergli la libertà e fargli innalzare lo stellato vessillo.

Dopo le prime avvisaglie, gli americani avevano subito deciso d’investire Boston, che era la più ricca e la più popolosa città del Massachussetts. Situata su una baia splendida, capace di contenere le più grosse squadre del mondo, e completamente riparata dalle ondate dell’Atlantico da una lunga isola, si prestava meravigliosamente ad una lunga difesa, specialmente per chi fosse sempre padrone del mare: e l’Inghilterra, come abbiamo detto, era tale, poiché gli americani non potevano opporre ai grandi treponti che piccole navi corsare.

Gl’inglesi, ai primi rumori di guerra, avevano arruolato dodicimila uomini, per la maggior parte assiani e brunswickesi, fanti saldissimi che godevano allora di una grande reputazione, ed avevano guarnito i forti di numerose e grosse bocche da fuoco. Per di più avevano raccolto nella baia una squadra di fregate e di nave d’alto bordo, per impedire ai corsari dell’Europa e delle Bermude di mandare agli americani munizioni ed armi, delle quali difettavano.

La difesa della piazza era stata affidata a tre valentissimi generali: Howe, Clinton e Burgoyne, ai quali si erano uniti il marchese d’Halifax e il brigadiere generale Pigot, tutti uomini di gran valore.

Gli americani, sebbene non disponessero nel Massachussetts di più di ventimila uomini e di poche navi corsare, avevano investito la piazza, costringendo la guarnigione inglese a rinchiudersi dentro le salde mura della città.

I fatti d’arme, succeduti nel Canada, favorevoli agl’insorti, i quali erano riusciti ad impadronirsi della fortezza di Skeenerborough, facendo prigionieri l’intero presidio ed il suo comandante generale Allen, avevano entusiasmato quei giovani combattenti. Con grande sorpresa di tutti, i generali americani erano riusciti a bloccare la città, in modo che il presidio non potesse più ricevere vettovaglie né rinforzi.

Boston non si poteva prendere d’assalto, specialmente da soldati improvvisati; unica risorsa era quella di costringere gli assediati ad arrendersi per fame. La impresa, che presentava gravi difficoltà fu decisa.

Una notte, traghettata la baia su gran numero di scialuppe ed elusa la vigilanza della squadra inglese, i soldati piombavano su due isole, distruggendo tutte le messi e portando via quanto bestiame si trovava nei villaggi.

Quel colpo era stato mortale alla guarnigione, già da tempo a corto di viveri, dovendo provvedere anche agli abitanti, rimasti in buon numero dentro le mura.

Un altro riuscito colpo era avvenuto pochi giorni dopo. Gli assediati, furiosi per lo scacco subito, disperando ormai di poter ricevere viveri dall’Inghilterra, avevano progettato una sortita, per poter correre il paese e rinnovare le provvigioni.

Due erano le via da tentarsi. Una di far impeto sull’istmo di Boston ed attaccare a fondo gli americani saldamente fortificati a Roxbury, allo scopo di invadere e saccheggiare la contea di Suffolk; l’altra di traghettare il braccio di Charlestown e dare addosso agli assedianti trincerati sulle alture che si stendevano fra Willis-Creck e il fiume Mistica e porre a sacco le terre di Worcester.

Ma i capi americani, che tenevano numerose spie in Boston, avevano avuto sentore di quei due disegni ideati dal generale Garge, e si erano affrettati a prendere le loro misure per impedire al nemico di nutrirsi. Ci tenevano anche a provare la saldezza ed il coraggio delle loro truppe, le quali fino allora non avevano avuto l’occasione di sostenere un urto poderoso da parte dell’agguerrito avversario.

Chiamarono a raccolta tutte le bande che scorrevano le terre vicine per approvvigionare il grosso dell’esercito e rafforzarono gagliardamente le alture di Bunkershill le quali dominavano l’entrata di Charlestown, mandandovi altri mille soldati al comando del colonnello Guglielmo Prescott.

Approfittando d’una notte oscurissima, quei giovani soldati occupavano lestamente e nel più profondo silenzio il monticello di Breed’s Hill, che stava sopra Charlestown, e, in meno di otto ore, lavorando con accanimento feroce costruivano un ridotto quadrato, guarnendolo di buon numero di pezzi di cannone.

Nel medesimo tempo, occupavano e rafforzavano con trincee un altro monticello dominante la città, situato sulla penisola più vicina che ripara la baia.

Grande fu lo stupore degl’inglesi, quando, verso le quattro del mattino, si accorsero dell’audace impresa eseguita con tanta abilità e in silenzio.

Una nave da guerra fu la prima a dare l’allarme e, senza attendere gli ordini del comandante, cominciò a tirare furiosamente contro il ridotto che costituiva una gravissima minaccia per la città.

I comandanti inglesi, assai inquieti. volsero tutte le artiglierie della piazza, delle navi e delle batterie galleggianti verso le due alture, sulle quali gli americani continuavano a fortificarsi, aprendo trincee fino quasi sulle rive della Mistica.

Dall’alba al tramonto fu un frastuono spaventevole, e uragani di ferro furono scambiati da una parte e dall’altra, senza grande risultato, poiché gli americani non cessarono né di lavorare, né di rispondere, lanciando palle arroventate dentro la città, colla speranza di scatenare incendi. Solamente a notte fatta le artiglierie della piazza e delle navi cessarono per non sprecare munizioni. Gli americani erano completamente riusciti nel loro scopo: Boston stava per subire tutti gli orrori del bombardamento, oltre quelli della fame.

Le cose erano giunte a questo punto quando, una notte tempestosa, la corvetta di sir William si presentò arditamente dinanzi all’imboccatura della baia, risoluta a forzare il blocco.

Il fragore delle cannonate era già giunto agli orecchi del corsaro e dei suoi uomini, ed immaginando che qualche grosso fatto fosse accaduto, il veliero s’era mantenuto bene al largo, quantunque l’Atlantico, sempre capriccioso, non avesse cessato di scagliare la sua furia in tutte le direzioni, mettendo a dura prova la resistenza dell’equipaggio.

Sir William, che non si fidava che di se stesso, non aveva abbandonato un solo momento il ponte. Disposti i suoi uomini nelle posizioni dì combattimento, poiché non era improbabile che qualche nave inglese piombasse addosso alla sua appena entrato in porto, fece chiamare il colonnello americano che conosceva a menadito tutti i porti delle coste orientali dell’America.

– Signor Moultrie, – gli disse nel momento in cui la corvetta tirava una lunga bordata dinanzi al porto – affido a voi il timone. Quali segnali dobbiamo fare per non farci bombardare dai vostri compatrioti? Tutt’oggi il cannone ha tuonato e può darsi che siano collocate batterie sulla penisola.

– Alzate sugli alberi due fanali rossi – rispose l’americano – e teneteveli per cinque minuti. I nostri hanno uomini lungo le spiagge, incaricati appunto di segnalare le navi corsare e di guidarle. Vedrete che qualcuno giungerà.

– Se potessi sapere dove incrociano le navi inglesi!…

– Si spostano continuamente e nessuno, che venga dal di fuori, potrebbe indovinare dove si trovano in questo momento. Desiderate altro?

– No: al timone, colonnello, e badate di non mandare il mio Tuonante su qualche secca.

– Conosco la baia come le mie tasche, quindi potete essere tranquillo.

Il Corsaro lo accomiatò con un cenno della mano, poi scese sulla tolda e passò rapidamente in rivista i suoi uomini. Tutti erano ai loro posti di combattimento.

Raggiunto il castello di prora chiamò Testa di Pietra il quale stava confabulando su uno dei due pezzi da caccia.

– Vieni – gli disse. – Mi fido del colonnello americano ma ancora più di te. Conosci Boston?

– Ci sono stato una decina di volte, capitano – rispose il bretone. – Sono trascorsi molti anni, tuttavia saprei condurre la corvetta a sicura destinazione.

– È sulla Mistica che dovremo affondare le nostre àncore. Gli americani devono esser là!

– E noi andremo a trovarli, comandante. Conosco quel fiume e so che il fondo è buono anche per le grosse fregate.

– Fa’ alzare sui due alberi fanali a luce rossa; poi mi raggiungerai sul ponte.

Tornò sul ponte di comando, dopo aver scambiato alcune parole col suo luogotenente che, come sempre, aveva assunto il comando dei due pezzi da caccia poppieri e diede l’ordine:

– Imboccate!

La corvetta aveva terminata la sua bordata e si trovava dinanzi all’ampia baia di Boston, percorsa dalle grosse onde dell’Atlantico

Nessun luce brillava dentro la baia, né sulla città. Pareva che assedianti ed assediati si fossero finalmente decisi a prendere un po’ di riposo.

Ma il Corsaro non si fidava affatto di quella gran calma, la quale poteva essere più apparente che reale.

I suoi occhi interrogavano ansiosamente le tenebre e le sue orecchie ascoltavano attentamente.

I fanali erano stati innalzati nel momento in cui la corvetta superava l’estremità della penisola occupata, la notte prima, dagli americani.

Il mare era pessimo anche contro la baia e le ondate si succedevano senza tregua.

Erano appena trascorsi i cinque minuti d’obbligo ed i fanali erano stati riabbassati quando una voce si fece udire sotto la sinistra della nave.

How! Gettate una scala!

Testa di Pietra che si trovava ancora sulla coperta, fece eseguire prontamente l’ordine. Pochi momenti dopo un uomo coperto da un ampio mantello d’incerato e barbuto come un miass del Borneo, montava a bordo chiedendo:

– Il comandante?

Testa di Pietra munito d’una lanterna e accompagnato da due fucilieri guardò attentamente lo sconosciuto, il cui mantello grondava.

– Chi siete? – domandò, puntandogli contro il petto la pistola.

– Un pilota americano: ho scorto i vostri segnali e sono accorso per mettermi ai vostri ordini.

– E la scialuppa che vi ha condotto?

– Ha già preso il largo. È stato un vero miracolo se ho potuto prendere al volo la vostra scala.

– Vi nomino gabbiere di prima classe – rispose il bretone.

L’americano rispose con un «grazie» ed una risata.

– Seguitemi – riprese Testa di Pietra. – Il comandante è sul ponte.

– Sono ai vostri ordini. Portate polveri?

– Un carico completo.

– Era tempo. Aspettavamo il colonnello Moultrie che avevamo mandato alle Bermude con una giunca.

– È qui il vostro compatriota, ma il piccolo veliero lo abbiamo mandato a tenere compagnia ai pesci.

Attraversarono la tolda e salirono sul ponte di comando, dove il Corsaro attendeva in preda ad una viva impazienza..

– Ecco il pilota che gli americani hanno mandato – disse Testa di Pietra.

Sir William gli chiese:

– Dove possiamo affondare le nostre àncore, al sicuro dalle navi inglesi?

– Alla foce della Mistica. Le batterie del ridotto di Breed’s Hill saranno sempre pronte a difendervi.

– Andremo contro le inglesi?

– La notte è pessima, comandante, e credo che le navi da guerra non lasceranno i loro ancoraggi prima che spunti l’alba.

– Non faranno fuoco su di noi i vostri compatrioti?

– A quest’ora la scialuppa che mi ha portato qui deve essere giunta a terra e l’ordine di non sparare non tarderà a giungere sull’altura di Breed’s Hill. Potete passare.

– Raggiungete sul cassero il colonnello Moultrie e guidateci all’ancoraggio. Io penso alla difesa.

La corvetta s’avanzava cautamente, correndo lievissime bordate.

L’oscurità profonda la proteggeva, tuttavia non vi era che da fidarsi. Gli inglesi avevano conservato, dentro la baia, buon numero di fregate e di batterie galleggianti, le quali potevano, da un momento all’altro, scatenare un fuoco infernale ed impedire il passo.

– Aguzza gli occhi, Testa di Pietra, – diceva di quando in quando sir William.

– Sono tutti e due fuori dalle orbite, rispondeva il bretone – eppure non riesco a distinguer nulla.

– La notte non poteva essere più tenebrosa.

– Poche volte l’ho veduta così.

– Guarda!

– Guardo, comandante, e riesco a malapena a distinguere i fiocchi, e ciò è già molto. Scommetterei la mia pipa che un gatto non riuscirebbe a vederli.

Ad un tratto il bretone si curvò in avanti e si mise in ascolto.

– Che cosa senti? – chiese sir William.

– Ma… non so…

In quell’istante la corvetta piegò rapidamente sulla sinistra sotto un vigoroso colpo di timone. Che cosa avevano scorto i due piccoli americani? La risposta fu pronta. Una gigantesca ombra, che navigava senza fanale era comparsa improvvisamente sulla diritta a pochi metri di distanza.

– Chi vive? – gridò una voce.

– Inglesi – rispose prontamente sir William col portavoce.

– Poggiate verso la gettata per la verifica o vi coliamo a fondo.

– Obbediamo.

Si slanciò dal ponte e percorse a gran passi la tolda dicendo agli uomini che stavano a guardia dei bracci delle manovre:

– Bordate a sinistra! Lesti! Abbiamo una fregata addosso.

Poi raggiunse il colonnello ed il pilota americano e diede loro alcuni ordini.

La corvetta, pochi istanti dopo, invece di eseguire il comando ricevuto dagli inglesi, con una improvvisa bordata s’allontana in senso inverso, puntando sulla foce della Mistica. Quasi nello stesso momento il Corsaro, che era ritornato sul ponte di comando, lanciava il ben noto grido:

– Fuoco di bordata!

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