Capitolo V – Il bombardamento di Boston

La fregata si prestava magnificamente per farsi crivellare di sorpresa, poiché offriva alle artiglierie della corvetta la sua sinistra, non avendo ancora avuto il tempo di virare, né di prendere alcuna precauzione contro un improvviso attacco.

I due pezzi da caccia di poppa della corvetta furono i primi a scagliarle attraverso l’alberatura quattro grosse palle incatenate, poi i dodici pezzi di dritta esplosero quasi nello stesso momento, battendole terribilmente il fianco.

Si udì, appena cessate le detonazioni, un fracasso orrendo di legnami che cadevano dall’alto, poi seguì un intensissimo fuoco di fucileria. Gli americani del castello di prora appoggiavano gli artiglieri del Corsaro.

La corvetta, approfittando della confusione che doveva aver causata quella improvvisa scarica, continuò la sua bordata per raggiungere la foce della Mistica e mettersi al sicuro, prima che altre navi sopraggiungessero. Ma non poteva ritenersi fuori di pericolo, poiché in un lampo era stato dato l’allarme.

Le batterie galleggianti che si trovavano ancora dinanzi alle gettate, intuendo che qualche importatrice di polveri e d’armi, approfittando dell’oscurità, era entrata nella baia avevano subito cominciato a sparare, ma a casaccio, perché la corvetta non era visibile e continuava a filare, allontanandosi rapidamente dal luogo della bordata. Anche la fregata aveva cominciato a far tuonare i suoi pezzi. I ridotti e i bastioni della città non tardarono ad imitare le navi.

– Ecco un magnifico spettacolo che offriamo gratuitamente agli abitanti di Boston – disse sir William a Testa di Pietra.

– Speriamo che ce ne siano grati – rispose il bretone. – Per il borgo di Batz! Le palle sono infuocate, capitano, Se una entra nel deposito delle polveri, salteremo allegramente ed offriremo ai bostoniani uno splendido fuoco che non sarà artificiale.

– Non ci vedono.

– Il caso talvolta…

– Se conti sul caso, è un’altra questione. Bada invece che non ti cada qualche palla sulla testa.

– È dura come la pietra la mia testa, signore; la farà rimbalzare in mare.

– Uhm!

Le palle fioccavano da tutte le parti, specialmente dagli spalti della città.

Già qualche palla era caduta sulla corvetta ammazzando più di un uomo, quando gli americani, annidati sulle due alture di Bunker’s Hill e di Breed’s Hill, avvertiti che una nave corsara era entrata con carico per loro, cominciarono a sparare terribilmente. I due ridotti, situati in due splendide posizioni e già ben difesi, parevano due piccoli vulcani.

Gl’inglesi avevano subito cambiata direzione ai loro pezzi e non sparavano più sulla baia. Tentavano, invece, di sopraffare i pezzi americani.

Per una ventina di minuti fu un furioso scambio di palle, mentre la corvetta continuò ad avanzare verso la foce del fiume senza sparare un colpo.

Il Corsaro assisteva impassibile a quel furioso bombardamento, col sorriso sulle labbra. Accanto a lui il bretone fumava tranquillamente la sua pipa secolare, più che mai convinto che, se anche una granata gli fosse piombata sulla. testa, non sarebbe riuscita a sfondarla. Diavolo! Non era forse figlio del paese delle teste dure?

Già il fiume era vicino; la corvetta, che marciava sempre velocissima, stava per imboccarla, quando quattro lampi balenarono dinanzi alla sua prora, quasi a fior d’acqua, seguiti da quattro detonazioni assordanti e dal ben noto crepitìo del legno che s’apriva sotto la violentissima percossa dei grossi proiettili.

– Batteria galleggiante dinanzi a noi!

– Che nessuno risponda! – gridò subito sir William.

Poi, volgendosi verso la poppa, aggiunse:

– Date pure addosso ed affondatela! Rispondo della robustezza della prora.

I due piloti americani, che stavano già per spingere la ribolla al largo perché non avvenisse un incontro, la rimisero subito a posto, mantenendo il filo della rotta. Trascorsi cinque secondi, avvenne un urto violentissimo che fece cadere sui ponti la maggior parte dei fucilieri e degli artiglieri. La corvetta aveva sfondato, col suo tagliamare a prova di scoglio, la batteria galleggiante. tagliandola proprio nel mezzo.

Urla di spavento s’alzarono. I cannonieri inglesi affondavano insieme ai loro pezzi, travolti dalla corrente che il veliero si tirava sui suoi fianchi.

La corvetta, che si era per un momento fermata, riprese lo slancio sotto le violentissime sferzate del vento, disgregò completamente la batteria e passò oltre.

Era passata appena a tempo, poiché gli artiglieri della guarnigione che guardavano i pezzi volti verso il fiume avendo scorto quei quattro lampi, non avevano tardato a far piovere, in quella direzione una grandine di palle, ignorando che massacravano i loro compagni lottanti fra i rottami della batteria.

– Ora venite a prenderci – disse il Corsaro, stropicciandosi le mani. – Non sarà facile uscire da questa trappola, ma prima che abbia sbrigato i miei affari molte cose possono accadere. Che ne dici, Testa di Pietra?

– Che mio nonno, un famoso corsaro…

– Ah! quello che ti ha lasciata la pipa!

– No, capitano: era un altro, quello.

– Continua.

– Dico dunque che non avrebbe avuto maggior fortuna.

– Si vede che aveva anche lui qualche stella che lo proteggeva.

– Ma finì col penzolare all’estremità di un pennone!

– Bella fortuna! Ma ora, attenti ad affondare le àncore! Dobbiamo essere vicini alla cala; vero colonnello.

– Ancora cinque o seicento metri – rispose l’americano. – Tornate a issare i due fanali rossi.

L’ordine fu trasmesso ai gabbieri e le due lampade salirono fino ai pomi della maestra e del trinchetto. Era una precauzione necessaria, poiché gli americani, che occupavano già fortemente le due rive della Mistica, potevano, se non ricevevano a tempo l’avviso che si trattava d’una nave amica, scaricarle addosso cannonate.

La corvetta, sebbene ostacolata dalla corrente, avanzava abbastanza velocemente, sicché in cinque minuti raggiungeva una profonda cala sulla riva sinistra, dove gli americani avevano innalzato due piccoli, ma ben muniti ridotti.

Le àncore furono affondate, le vele prontamente imbrogliate, e i fanali di dritta e di sinistra accesi.

Una scialuppa montata dai sei rematori e da un timoniere, si era staccata dalla riva, abbordando la corvetta sotto la scala abbassata.

Il colonnello americano il pilota ed il Corsaro ricevettero il timoniere.

– Ah, voi, mister Pardell! – esclamò il colonnello. – Non credevo di trovarvi ancora qui!

– Corro sempre dove c’è da menar le mani – rispose il capitano.

– Ecco il Corsaro, il baronetto William Mac Lellan, di cui avrete già udito parlare, il più audace scorridore del mare delle Bermude.

– Vi aspettavamo impazientemente Sir, – rispose il capitano, stendendo la mano – e sono incaricato di portarvi i ringraziamenti del Congresso e quelli del generale Washington.

Il baronetto s’inchinò, poi disse:

– Vi porto quattrocento tonnellate di polvere, cinquemila fucili con relative baionette, duemila bombe e quattro grossi mortai. In più metto a disposizione della causa americana la mia corvetta ed i miei centocinquanta uomini, scelti fra i migliori corsari che scorazzino l’Atlantico.

– Il Congresso pagherà ogni cosa.

Sir William alzò le spalle.

– Dono tutto alla causa americana, – disse – ad una condizione però.

– Quale, sir? – chiese il capitano, stupito di tanta munificenza da parte d’un uomo che tutti credevano di puro sangue inglese.

– Mi si permetta di entrare, questa notte stessa, in Boston con un paio dei miei uomini.

– È impossibile, sir.

– Non è finita la galleria che doveva terminare sotto le casematte del gran bastione di Hamilton? – chiese il colonnello.

– Sì, mister Moultrie. Anche la mina per farlo saltare è stata preparata.

– Passeremo per di là – disse il Corsaro. – È assolutamente necessario.

– Incontrereste la morte, sir, – rispose il capitano. – Le nostre spie ci hanno informato che gl’inglesi questa notte tenteranno una sortita per cacciare i nostri compatrioti da Breed’s Hill e da Bunker’s Hill. A quest’ora gli assediati devono essere già in marcia e v’incontrereste subito con loro.

– Maledizione! – esclamò sir William.

– Affare rimandato mio caro baronetto, – disse il colonnello. Una giornata passa presto e domani potrete tentare l’impresa, con maggior successo.

Il Corsaro era rimasto silenzioso e, come era sua abitudine, si era messo a passeggiare nervosamente per la tolda.

Ad un tratto un fracasso infernale ruppe il silenzio che regnava nella baia.

Fumo rossastro s’alzava sopra i bastioni, sopra le lunette, sopra un ridotto di Boston, attraversato da lunghi getti dì fuoco.

– Vedete – disse il capitano americano. – Gli assediati cercano di mascherare le loro mosse, bombardando le nostre posizioni. Domani ci sarà grossa battaglia, per ributtare dentro le mura gl’inglesi.

– Proprio questa notte! – disse il Corsaro con rabbia.

La galleria è ben simulata e per quella potrete sempre entrare, ora che è stata finita – rispose il colonnello.

– Testa di Pietra! – gridò sir William.

Il bretone era in quel momento occupato a tagliare, con una grossa forbice da una lastra di zinco, piccoli triangoli, sui quali legava fette di lardo, aiutato da Piccolo Flocco.

– Per il borgo di Batz! – esclamò, udendosi chiamare. – Che non possa dedicare nemmeno cinque minuti alla pesca degli albatros?

Lasciò cadere a terra tutto, e raggiunse il Corsaro, che seguiva con lo sguardo le faville che sprizzavano dalle palle infuocate scagliate dai forti di Boston contro le due alture occupate dagli americani.

– Non odi tutto questo baccano?

– Per il Borgo di Batz! Lo udrebbero anche tutti i morti sepolti lungo le coste della Bretagna, se tanti cannoni si sparassero a Brest, e non volete che giunga agli orecchi d’un vecchio artigliere?

– Che cosa facevi in questo momento?

– Preparavo, insieme con Piccolo Flocco, gli ami per catturare gli albatros. Ne vengono molti è vero, signor colonnello, alla foce del fiume?

– Si, – rispose Moultrie, ridendo.

– Allora spero di prenderne parecchi. I miei uomini si fabbricheranno splendide borse da tabacco ed anche meravigliosi bocchini con le ali di quei predoni degli oceani.

– E la guerra? Non odi?

– Huff! Quando gli inglesi saranno stanchi di sparare, lasceranno dormire i loro pezzi – rispose tranquillamente il bretone, levandosi di tasca la sua storica pipa e preparandosi a caricarla.

– Abbiamo imbarcato quattro mortai che ci hanno mandati i nostri amici francesi – disse il Corsaro. – Dirai al signor Howard di farli collocare sulla tolda: così proveremo il loro tiro d’arcata.

– Preferisco i cannoni da caccia.

– Alza più che puoi anche quelli e prendiamo parte alla festa di fuoco. Va’!

Tutti i forti di Boston infuriavano con un fragore assordante, assecondati da tutte le navi da guerra che si trovavano in porto e dalle batterie galleggianti.

I due ridotti americani piantati sulle due alture, tenevano coraggiosamente testa al fuoco degli assediati e coprivano di palle la città, scatenando incendi fra le case di legno, che la guarnigione inglese a malapena riusciva a spegnere.

Tutta la baia era in fiamme. Lampi partivano da tutte le parti. A fior d’acqua, sulla riva della Mistica e sulle alture di Brunker’s Hill e di Breed’s Hill.

La corvetta non aveva tardato a prendere parte a quella festa del fuoco come l’aveva chiamata sir William.

Il secondo di bordo, insieme con Testa di Pietra ed i più abili artiglieri aveva fatto disporre sul larghissimo cassero dietro i cannoni da caccia, i quattro mortai ricevuti dai corsari francesi ed avevano fatto aprire un magnifico fuoco contro il bastione di Workart, tempestandolo di granate del peso di quaranta chilogrammi.

Anche i cannoni da caccia erano entrati in scena e spazzavano le basi e lo specchio d’acqua per impedire alle scialuppe inglesi di avvicinarsi.

Lo spettacolo era spaventoso ed il rimbombo assordante.

Nonostante il pericolo, gli abitanti di Boston si erano rovesciati in massa verso i bastioni, per godersi quel terribile bombardamento che doveva più tardi rammentare agl’inglesi quello celebre di Gibilterra.

Le due posizioni americane tenevano valorosamente testa a quel diluvio di palle, senza per questo interrompere i lavori che dovevano metterli in grado, all’alba, di respingere energicamente l’assalto nemico.

Le perdite erano considerevoli, ma maggiori quelle degli inglesi. i quali si lasciavano stoicamente mitragliare dai quattro pezzi da caccia del Tuonante, senza sparare un solo colpo di fucile, per non far conoscere le loro mosse agli americani. Tutta la notte le artiglierie dei forti, delle trincee, dei ridotti e delle navi rimbombarono con un crescendo orribile, poi, verso l’alba i colpi a poco a poco divennero più radi, finché cessarono completamente.

Gl’inglesi avevano lasciato la piazza e si preparavano animosamente ad assalire le due alture, le cui artiglierie recavano tanto danno alle case ed alle fortezze.

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