Capitolo XXII – Ultime scene

La squadra inglese, sorpresa dalla rapidità dell’attacco, non aveva avuto il tempo di radunarsi per accorrere in aiuto del forte Johnson, essendo dispersa per l’ampia baia.

La corvetta da un momento all’altro poteva vedersi piombare addosso l’intera squadra, la quale, quantunque vecchia, disponeva di un buon numero di bocche da fuoco e d’una fregata che poteva tener testa alla Tuonante.

Ritornare alla Mistica era impossibile, poiché la via era tagliata; alla corvetta non rimaneva che di fuggire in alto mare, dove avrebbe potuto essere di maggior giovamento agli americani, dando la caccia alle navi che tentavano d’introdurre nella baia grossi carichi di viveri e soprattutto di polveri.

Il Corsaro, accortosi del grave pericolo che lo sovrastava, fece sbarcare il colonnello, poi fece salpare le àncore e spiegare le vele.

Testa di Pietra, che era finalmente riuscito a far tirare la sua famosa pipa, si era messo alla ribolla, e guidava colle sue mani di ferro la nave.

– Quando giungeranno, saremo i gabbiani dell’Atlantico – disse a Piccolo Flocco ed al carnefice, i quali avevano cambiato subito i loro lugubri vestiti con quelli marinareschi. Alludeva alla squadra inglese, la quale, per sua disgrazia, aveva perduto troppo tempo a raccogliersi e riorganizzarsi.

Con una superba bordata uscì dal canale prese il vento in poppa e mosse velocemente verso l’uscita del porto, sparando i suoi pezzi da caccia di poppa.

Le navi inglesi erano state pronte a rispondere, ma ormai la distanza era troppa.

– Farebbero meglio a conservare le loro polveri – borbottò Testa di Pietra, il quale, pur fumando ferocemente, non abbandonava la ribolla.

La corvetta superò l’ultimo passo dell’avamposto e scomparve nella notte nebbiosa, salutando ironicamente la squadra con quattro colpi di mortai, i cui proiettili probabilmente caddero sullo specchio d’acqua.

Il Corsaro si era avvicinato, insieme col suo luogotenente, a Testa di Pietra, il quale, per rispetto, aveva deposta la sua vecchia pipa sul coronamento della poppa.

– Rotta per le Bermude – gli disse. – Dobbiamo raccogliere tutti i corsari e spazzare l’oceano dalle navi inglesi. La città deve cadere, e Maria di Wentwort ritornerà fra le mie braccia.

Tre giorni dopo la Tuonante dava fondo colle sue àncore dinanzi alla baia di Somerset, della grande Bermuda dove si trovavano già raccolti tre briks armati da gentiluomini francesi.

Sir William, che aveva corseggiato la Manica, era troppo noto.

Fu dunque accolto a braccia aperte dai tre valorosi e nominato seduta stante ammiraglio della piccola flottiglia. Fu deciso di tornare verso Boston per impedire l’approvvigionamento della piazza, nella quale, di giorno in giorno, venivano a mancare viveri e munizioni

Gli assedianti non si trovavano in migliori condizioni, poiché tutto, il territorio intorno a Boston era stato saccheggiato, e il lungo e feroce bombardamento aveva esaurito quasi completamente le loro provviste da guerra, sebbene navi americane velocissime fossero state spedite sulla costa della Guinea Africana per acquistare polveri ed armi, e i finlandesi avessero mandato una grossa giunca e i caroliniani una corvetta con barilotti di polveri.

Gli americani si erano dati d’attorno per provvedere polveri e viveri.

Il New Hampshire aveva già armata una nave di trentadue cannoni; il Massachussetts altre due di ventiquattro bocche da fuoco; un’altra il Connecticut di ventiquattro, e quattro altre l’isola di Rodi, il Maryland e la Pennsylvania.

Quella squadra, abbastanza potente per battere l’Atlantico, a poco a poco si era radunata intorno a quella di sir William, riconosciuto ormai il più abile ed intrepido marinaio ai servigi degli insorti americani.

Predavano, i corsari, le navi cariche di polveri e di armi destinate alla guarnigione di Boston, ma soprattutto facevano grande raccolta di viveri. Il governo inglese, informato delle gravi strettezze nelle quali si trovava la guarnigione di Boston, aveva con incredibili spese imbarcato un numero enorme di buoi, di capre, di vitelli, di carni salate e di vegetali, e su rapide navi li aveva inviati verso quella città.

La squadra americana comandata da sir William, che incrociava sempre dinanzi a Boston, era piombata improvvisamente su di essa, le aveva catturate.

Era una risorsa enorme, inaspettata per gli assedianti, anche perché, oltre a viveri e munizioni, c’era una quantità straordinaria di carbone.

Howe non vedendo nessuna risorsa giungere dal mare, aveva fatto cacciar fuori dalla città ben ottocento abitanti inabili, per la maggior parte affetti da vaiuolo. Suo disegno era di contaminare il campo americano e di portarvi dentro la strage, senza bisogno di bombe e di combattimenti furiosi. A questa infame guerra risposero gli americani stringendo sempre più l’assedio.

La Camera del Massachussetts, temendo che gli americani stringendo sempre più la piazza, se ne tornassero alle loro case prima che fosse presa la città, aveva prontamente emessi cinquantamila biglietti di sterline di credito, sui quali era rappresentato un soldato americano, impugnante una spada diritta, attorno alla quale si leggevano queste parole latine: Ente petit placídam sub libertate quietem.

Gli americani peraltro decisero di fare uno sforzo supremo per impadronirsi di Boston.

Washington, e i generali Lee e Gage, che armeggiavano nei dintorni di New York, avendo compreso che la buona riuscita della causa americana dipendeva dalla caduta di Boston, scesero verso il sud, conducendo seco parecchie migliaia di stanziali ed un buon numero di pezzi d’assedio Quel rinforzo fu di grande utilità agli assedianti, i quali cominciavano a trovarsi a mal partito a cagione del freddo sopravvenuto.

Washington e i suoi generali avevano prese le misure necessarie per stringere maggiormente la piazza ed impedire che la guarnigione potesse in qualche modo approvvigionarsi. Approfittando del ghiaccio, il prode americano aveva spinto grosse avanguardie fin quasi sotto le mura di Boston, affinché tribolassero giorno e notte, con finti assalti, agl’inglesi.

Per di più, aveva fatto costruire due grosse batterie galleggianti alle bocche del fiume Cambridge per battere la piazza anche da quella parte, Poi fu decisa l’occupazione di tutte le alture dominanti la città che gl’inglesi, affievoliti dagli stenti, poveri di munizioni, non si trovavano più in grado di difendere.

La notte del 3 marzo del 1776 tutti i pezzi americani, cominciarono a tirare, cagionando dentro la piazza molti incendi, e la notte del 4 marzo si impadronirono delle ultime alture.

Gli americani si erano messi nell’impresa con grande slancio malgrado il freddo intenso.

Protetti dalle batterie di Phipps Farm e di Roxbury, ottocento scorridori passavano l’istmo di Dorchester, seguiti subito da milleduecento stanziali e da molti carri pieni di gabbioni e di travi e di balle di fieno, onde improvvisare trincee che li mettessero al coperto dai tiri della squadra inglese. Gli americani giunsero felicemente sugli ultimi baluardi senza che la guarnigione se ne fosse accorta.

Al mattino, diradatasi la nebbia, Howe vide, con sua grande sorpresa e rabbia, che il nemico si era già rafforzato anche lassù e vi aveva piantato le artiglierie. Comprese che la piazza stava per venire rinchiusa in un cerchio di ferro e di fuoco, e decise di tentare un supremo assalto alle ultime posizioni americane.

Washington, avvertito di quel disegno, non aveva indugiato a prendere le sue precauzioni per respingere il presidio e distruggerlo. Aveva fatto rafforzare rapidamente le trincee improvvisate munendole di nuovi pezzi, fatto accorrere soldati da tutti i dintorni e stabilito i segnali che dovevano farsi su tutte le alture.

Non contento di ciò, considerando che la squadra di sir William avrebbe potuto forzare il blocco e gettare le àncore alla foce della Mistica, vi aveva aggiunto quattromila uomini scelti, affinché approfittassero della confusione della lotta per attraversare il Cambridge e tentare un assalto disperato.

Il generale Sullivan comandava le prime schiere incaricate di assalire le ultime alture; Greene lo seguiva con parecchie migliaia di soldati.

Dal canto suo Howe, comandante della piazza, aveva fatto costruire gran numero di scale per montare all’assalto delle trincee americane, affidando la temeraria impresa a lord Percy, ai suoi comandi aveva messo più di tremila soldati, il meglio di quanto gli rimaneva della sua stremata e affievolita guarnigione.

Già si erano mossi animosi gli assediati, quando scoppiò un violentissimo uragano, che respinse le acque fuori della baia, accompagnato da una pioggia dirottissima che rendeva quasi nulla l’efficacia delle armi da fuoco.

Howe, disperando di spuntarla per quella notte, aveva dovuto richiamare le sue forze, mentre gli americani si affrettavano a rafforzarsi.

Il colonnello Mifflin aveva apprestato gran numero di botti piene di sassi e le aveva collocate intorno alle alture, affinché muovendo il nemico all’assalto, le facessero rotolare con grande furia per romperne gli ordini.

Howe, accortosi dell’impossibilità di forzare le posizioni americane e disperando ormai di ricevere soccorsi dall’Inghilterra, decise, anche per consiglio di lord Durmonth, uno dei segretari di Stato, di evacuare la città e di fuggire a New York che gl’inglesi allora tenevano saldamente.

Non aveva una squadra potente, tuttavia i sette od ottomila uomini, che erano scampati alla fame, al vaiuolo, ai bombardamenti, vi potevano trovare rifugio.

Si trattava di centocinquanta navi, fra grosse e piccole già assai invecchiate dai lunghi ancoraggi, e d’una sola fregata, l’unica che avesse potuto forzare il blocco, poiché la squadriglia del baronetto e dell’ammiraglio americano si erano affrettate a tornare in mare per mettersi in agguato. Le grandi difficoltà consistevano nel trasportare gli abitanti fedeli alla causa inglese e le loro famiglie per sottrarli ad un massacro. Il viaggio era lungo e difficile, l’inverno infieriva, i viveri scarseggiavano, e le soldatesche incapaci ormai di opporre valida difesa.

Howe cionondimeno non esitò. Aveva preso la decisione di ritirarsi a New York o all’isola d’Halifax. Mandati a chiamare i notabili della città, espose loro la gravità della situazione e mostrò le materie incendiarie che aveva fatto preparare, affinché mettessero fuoco alla città nel momento in cui gli americani entravano.

Quella brava gente fu poi mandata al campo americano per pregare il generale Washington che non volesse disturbare la loro partenza.

Il comandante supremo delle forze americane, preso fra l’incudine ed il martello, e non volendo d’altronde la distruzione della città e la perdita di tutti gli averi di quei disgraziati abitanti, cedette, a condizione che Howe lasciasse indietro le artiglierie e tutto quello che non avrebbe potuto imbarcare.

Alle 4 del mattino del 17 marzo cominciò l’imbarco della guarnigione, alla quale si erano unite mille e duecento famiglie d’inglesi.

La squadra inglese si componeva, come abbiamo detto, di circa centocinquanta navi fra grosse e piccole.

Washington lasciò che la flotta, fra una grande confusione prendesse il largo, ed entrava poco dopo nella città, colle bandiere spiegate e i tamburi rullanti.

Il colonnello Moultrie, appena appresa la decisione di Washington di non ostacolare l’uscita della flotta, aveva subito pensato a sir William, ed aveva mandato uomini fidati a spiare l’imbarco dei. fuggiaschi.

Come già se l’era immaginato, Howe, il marchese d’Halifax, ormai completamente ristabilito, ed i generali inglesi avevano preso posto sulla fregata, e su quella avevano veduto imbarcarsi anche una giovinetta bionda, che non poteva essere altro che Mary di Wentwort.

Moultrie aveva fatto armare una scialuppa e si era portato a bordo della Tuonante, la quale aveva già messo a terra le truppe americane e si trovava in compagnia dei briks dei corsari delle Bermude.

Una breve spiegazione aveva avuto luogo fra i due uomini, dopo di che sir William, comprendendo benissimo che per una donna non si potevano compromettere i destini d’una nazione, spiegò le vele verso l’uscita del porto coi briks, risoluto ad abbordare la fregata o morire nella temeraria impresa.

Alle tre del pomeriggio la fregata, per la prima, lasciava la baia, guidando l’immensa turba delle sconquassate navi inglesi. Il baronetto, scorgendola, mandò un altissimo grido:

– In caccia! Abbordiamola! Salvate la mia fanciulla! Non fate fuoco sul quadro!

Il capitano della fregata, avvertito forse dal marchese dell’agguato che gli si tendeva, premendogli soprattutto di condurre in salvo, più che Mary di Wentwort, il generale Howe ed il suo Stato Maggiore, con una lunga bordata aveva subito appoggiato verso la costa, filando velocemente a settentrione.

Le due navi, in piena corsa, cercavano di stringersi da presso, ma anche la fregata, che, come sfida, aveva inalberato sul corno della mezzana i colori del marchese d’Halifax, era uno splendido veliero.

Le cannonate si succedevano alle cannonate. Mentre gl’inglesi sparavano sulla coperta, i corsari tiravano sull’alberatura dell’avversaria coi pezzi da caccia di prova, colla speranza di fracassarle un albero e di fermarla.

Già la squadra inglese non era quasi più visibile, quando due palle incatenate, partite dai cannoni poppieri della fregata, presero di traverso l’albero di trinchetto della Tuonante, un po’ sopra la coffa, spaccandolo di colpo.

Il Corsaro mandò un grido terribile:

– Mia Mary! Ancora una volta ti ho perduta.

La corvetta, oppressa dal peso dell’albero che le gravitava sulla dritta, si era inclinata sul fianco, fermandosi quasi di colpo.

La partita era perduta.

Ancora una volta il marchese d’Halifax trionfava.

Testa di Pietra, che teneva la ribolla del timone, vuotò sul coronamento di poppa la sua storica pipa, poi scuotendo la testa brontolò

– Corra pure a nascondersi in qualche angolo dell’America: lo ritroveremo.

Intanto la fregata, sbarazzatasi del suo pericoloso avversario, fuggiva lesta come un gabbiano verso il settentrione.

– Fine –

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