I prodigi dell’aria liquida

Il capitano si alzò, fece il giro del ponte guardando l’immensa pianura che si estendeva sotto la macchina volante, si fermò un istante dinanzi ai barometri ed ai termometri appesi alla balaustrata, scambiò alcune parole col macchinista in una lingua sconosciuta, poi tornando verso la tavola, accese una sigaretta e si sedette.

– Ditemi, signori miei, – disse, guardando con aria di grande condiscendenza i suoi due compagni di viaggio – siete soddisfatti delle evoluzioni compiute dal mio “Sparviero”?

– È una macchina perfetta, davvero stupefacente – disse Rokoff con convinzione.

– È lo scioglimento della questione della navigazione aerea – aggiunse Fedoro.

– Sì, il vero scioglimento – disse il capitano, – Da parecchi lustri, gli scienziati studiano invano per trovare un pallone dirigibile che permetta all’uomo di solcare l’aria con piena sicurezza e senza porsi in balia delle correnti aeree così mutabili e sovente così pericolose. Quali risultati hanno ottenuto i loro studi? Nessuno di certo che sia per lo meno pratico. E sapete il perché? Perché hanno trascurato la meccanica, ostinandosi invece coll’idrogeno. Le innumerevoli catastrofi che si sono susseguite dall’innalzamento delle prime mongolfiere agli ultimi e più perfezionati palloni, non li hanno ancora persuasi che col gas non si deve avere troppa sicurezza. Si è fatto un gran chiasso intorno agli esperimenti di Giffard e di Renard coi loro palloni dirigibili, perché quest’ultimo era riuscito, con tempo calmo, a compiere un breve tragitto tornando al punto di partenza; ha sollevato immenso entusiasmo il brasiliano Santos Dumont; si attendono meraviglie dal pallone del conte da Schio, un italiano, e da altri ancora. Ebbene si provino costoro a tentare una lunga traversata, a sfidare venti impetuosi, ad affrontare uragani. I loro palloni, nonostante le loro eliche e la forza delle loro macchine, verranno abbattutti, squilibrati, trascinati e altre catastrofi si seguiranno.

– Lo credo anch’io – disse Rokoff.

– Per molto tempo – proseguì il capitano – mi sono pur io ostinato coi palloni dirigibili. Ho fatto costruire fusi semplici e accoppiati, ho fatto perfezionare macchine a petrolio ed a benzina, spendendo somme enormi e senza risultati pratici. Eppure oggi abbiamo motori potenti e leggeri, abbiamo metalli del pari leggeri e solidi quanto il ferro, abbiamo mille perfezionamenti nella meccanica e anche delle forze che ieri ancora erano sconosciute e che se fossero state note trentanni or sono, avrebbero segnato un completo trionfo per Spencer e per Kaufmann.

– Chi sono costoro? – chiese Fedoro, il quale ascoltava attentamente il capitano.

– È qui che vi aspettavo per dimostrarvi che la questione della navigazione aerea, avrebbe potuto essere stata risolta da trenta e più anni. Nel 1868, all’esposizione del classico Palazzo di cristallo di Londra, fra i vari palloni più o meno dirigibili, venivano presentate due macchine volanti: una ideata da Spencer, l’altra da Kaufmann. Salvo alcune modificazioni da me introdotte, rassomigliavano nelle forme al mio “Sparviero”. Provate su corde tese, lunghe quattrocento metri, e trattenute da pulegge scorrenti, avevano dato risultati stupefacenti. Che fossero perfette, io non lo credo, ma se lo Spencer e Kaufmann avessero proseguito i loro studi, io sono convinto che a quest’ora gli uomini volerebbero per l’aria gareggiando cogli uccelli. Che cosa ho fatto io? Ho modificato le loro macchine, scartando però i loro motori a carbone, troppo pesanti e poco maneggiabili. Al ferro ho surrogato l’alluminio, molto più leggero ed egualmente resistente; al carbone… una forza ben più poderosa, poco costosa, ieri ancora ignota e che domani metterà in azione locomotive, corazzate, telai, automobili e che risolverà tutti i problemi della dinamica. Questa forza me l’ha data l’aria liquida.

– L’aria liquida! – esclamarono Rokoff e Fedoro.

– Quando Tripler pel primo riuscì ad ottenerla, non si immaginava certo di aver scoperta una forza che porterà la rivoluzione nel mondo. Solamente molto più tardi doveva accorgersi dell’importanza straordinaria della sua scoperta. Pensate che l’aria liquida ha circa cento volte il potere espansivo del vapore e che essa comincia a produrre la sua forza nel medesimo istante in cui è esposta all’aria esterna. Per ottenere il vapore è necessario che l’acqua raggiunga una temperatura di 212° Fahrenheit, ossia che se l’acqua entra nelle caldaie a 50° di calore, se ne devono immettere in essa altri 162° prima che possa fornire una libbra di pressione. L’aria liquida invece ne dà venti. Valendomi dunque degli studi fatti dal Tripler e da altri scienziati, e specialmente dall’Estergren, che ha già applicato l’aria liquida a molti meravigliosi congegni, ho costruito un motore d’una solidità a tutta prova, d’una leggerezza unica, il quale mi fornisce a esuberanza la forza necessaria per far muovere le ali del mio “Sparviero” e le eliche. Come vedete, una cosa semplicissima. Un’altra macchina, costruita nelle officine dell’Estergren, mi fornisce l’aria necessaria con una spesa modicissima ed in tale quantità da non saper che cosa farne, perché in una sola ora me ne procura tanta da bastarmi per una settimana. Ma vi è di più. Fa troppo caldo? Metto in azione il mio ventilatore e ottengo in pochi istanti una temperatura da Siberia. Ho dei viveri da conservare? Li metto nelle celle refrigeranti del mio fuso e li gelo ed ecco perché posso farvi assaggiare delle trote pescate due mesi or sono nel San Lorenzo o dei pasticci acquistati a San Francisco o della frutta raccolta nelle isole dell’Oceano Pacifico. Voglio sparare il cannoncino che tengo là dietro la macchina? È l’aria liquida che me ne dà la forza, senza ricorrere alla polvere. Voglio far saltare mezza città? Non faccio altro che immergere un pezzo di lana nella mia aria liquida ed ecco che infiammandosi esplode con tutta la terribile violenza del cotone fulminante. A suo tempo, se le circostanze lo esigeranno, ve ne darò la prova.

– Ma da dove venite voi? Chi siete? – domandò Rokoff, che lo guardava quasi con terrore.

– Da dove vengo? Dall’Oceano Pacifico, per ora. Chi sono io? Il capitano dello “Sparviero”. Venite: ecco delle cose interessanti da vedere. Le tombe dei Ming! Un’altra meraviglia che vale veramente la pena di guardare con attenzione.

Quello strano personaggio si era vivamente alzato dirigendosi verso la prora, dove la grande elica che serviva di rimorchio e fors’anche di direzione, turbinava velocemente.

Rokoff e Fedoro, che non si erano ancora rimessi dal loro stupore, stettero un momento seduti, guardandosi l’un l’altro, poi seguirono il capitano senza parlare.

Lo “Sparviero” si dirigeva verso una collina verdeggiante, sulla quale si vedevano biancheggiare delle strane costruzioni.

Sotto, la pianura s’alzava gradatamente, coltivata a piante di gelso e di cotone, intersecata da torrentelli che parevano nastri d’argento e cosparsa di capanne di fango secco e di paglia.

Dei contadini di quando in quando apparivano fra i solchi e dopo un momento di stupore, fuggivano urlando come ossessi, alla vista della macchina volante.

– Sapete come si chiama quella collina? – chiese il capitano ai suoi ospiti?

– No, signore – rispose Fedoro. – Non sono mai andato oltre Pechino. Dopo la distruzione di Taku, la presa di Tient-tsin e l’entrata delle truppe europee nella capitale, l’uomo bianco non osa più inoltrarsi nelle provincie interne della Cina.

– È vero – disse il capitano. – Gli europei e gli americani, colla loro grande spedizione, credevano di aprire per sempre le barriere cinesi ed invece le hanno chiuse più di prima. I boxer vivono ancora dovunque e la tremenda lezione non è bastata a calmarli.

– E quella collina? – chiese Rokoff.

– È la Scisan-ling, ossia dalle tredici fosse – rispose il capitano. – Là vi sono le famose tombe della dinastia dei Ming.

– E andiamo a vederle?

– Vi passeremo sopra.

Si appoggiò al bordo e si rimise a fumare, tenendo gli sguardi fissi sulla collina che pareva si precipitasse incontro allo “Sparviero” con velocità straordinaria.

Intanto nelle vallette, all’ombra di gruppi di pini e di ginepri, cominciavano ad apparire numerose tombe, appartenenti probabilmente a ricchi personaggi od a principi. Quasi tutte avevano la forma di tartarughe gigantesche, portanti sul clipeo delle tavole di marmo piene d’iscrizioni con ai lati colossali leoni e chimere di bronzo o di pietra bigia.

Lo “Sparviero”, rallentata la corsa, dopo essersi innalzato di altri trecento metri onde poter dominare tutta intera la collina, ridiscese imboccando una stretta valletta che s’inoltrava fra profondi burroni, e si arrestò al disopra d’un vasto spiazzo dove si vedevano delle superbe costruzioni.

Era il parco sepolcrale dei Ming, uno dei più splendidi che si vedono nel circondario di Pechino.

Esso si trova a circa quaranta chilometri dalla capitale, in un luogo solitario della catena dei Tiencia, fra gruppi di pini che formano dei bellissimi viali ombrosi e di querce grossissime.

Vi si penetra per un immenso porticato di marmo bianco, il quale mette in un viale abbellito da statue che rappresentano dei mandarini, dei sacerdoti e dei guerrieri, elefanti, cammelli, leoni, cavalli e liocorni mostruosi, alcuni in piedi ed altri inginocchiati e alti due, tre e perfino quattro metri.

Vi sono monumenti bellissimi, fra i quali spicca il tempio dei sacrifici sostenuto da sessanta colonne di lauro alte ognuna tredici metri, con una circonferenza di tre.

Lo “Sparviero” descrisse parecchi giri al disopra del parco, poi deviando bruscamente prese la corsa verso il nord-ovest, attraverso le montagne dei Tiencia.

Dove andava? Rokoff e Fedoro avrebbero desiderato saperlo, ma non osarono chiederlo.

Il capitano, d’altronde non pareva disposto a soddisfare la loro curiosità, perché li aveva bruscamente lasciati dirigendosi verso poppa, dove si trovava il macchinista.

Si sedette dietro la ruota e dopo aver scambiato alcune parole col suo compagno, si era messo a osservare il paese circostante, senza più occuparsi dei suoi ospiti.

– Ebbene, Fedoro, che cosa ne dici di tutto ciò? – chiese Rokoff. – A me pare di essermi risvegliato in questo momento e d’aver sognato.

– Anch’io mi domando ancora se sono vivo o morto – rispose il russo. – Vi sono certi momenti in cui dubito di non essere stato ammazzato. Se non avessi veduto coi miei occhi Pechino, mi crederei in un nuovo mondo.

– Infatti, l’avventura è strana, Fedoro, tale da far impazzire. Trovarci dinanzi alla morte e risvegliarci in aria in viaggio per l’Europa! Quando noi lo racconteremo ai nostri amici, non ne troveremo uno che ci crederà.

– Mostreremo loro lo “Sparviero”.

– Se ci porterà fino a Odessa. Il capitano ha detto che vuole raggiungere l’Europa, ma non dove ci deporrà – disse Rokoff.

– E chi credi che sia quell’uomo?

– Non te lo saprei dire, perché mi ha detto che parla tutte le lingue.

– Un gran dotto di certo.

– E anche un originale, Fedoro.

– E non vuole dirci dove ci trasporterà ora.

– Attraverso l’Asia.

– Un, viaggio meraviglioso – disse il russo.

– Che non mi rincresce affatto – aggiunse Rokoff.

– E che compiremo presto, perché questa macchina mi pare dotata di una velocità tale da sfidare gli uccelli.

– Filiamo come le rondini, Fedoro. Guarda come spariscono i campi, i boschi e i villaggi! Questa macchina volante è una vera meraviglia.

– Purché qualche accidente non le faccia spezzare le ali e ci mandi a fracassarci sulla superficie della terra!

– Non credo che ciò possa accadere – disse Rokoff. – Questo treno aereo è d’una solidità incredibile. Malgrado lo sforzo poderoso delle macchine, non si sente il più leggero fremito nel fuso. Leggerezza, potenza e solidità! Quel diavolo d’uomo non poteva ottenere di più. Ma e dove andiamo noi? Mi pare che lo “Sparviero” abbia deviato ancora.

– Si dirige verso quella città che vedo sorgere là in fondo – disse Fedoro.

– Una città?

– Forse quella di Tschang-pin, perché alla nostra sinistra vedo un corso d’acqua che deve essere molto voluminoso. Deve essere il Pei-ho.

– Allora ci dirigiamo al nord.

– E verso la grande muraglia, ne sono certo – rispose Fedoro. –

– L’Europa non si trova già al nord.

– Lo “Sparviero” piegherà poi verso l’ovest.

– No, signori – disse una voce dietro di loro. – Non ora; più tardi, molto tardi.

Il macchinista si era accostato loro tenendo fra le labbra una di quelle monumentali pipe di porcellana, usate dagli olandesi e dai tedeschi.

Il compagno del capitano era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura media, muscoloso e ad un tempo di taglia snella, colla pelle assai bruna, gli occhi nerissimi tagliati a mandorla e i capelli ondulati e biondissimi, che portava lunghi.

Dire a quale razza appartenesse, sarebbe stato molto difficile, perché pareva che i lineamenti degli uomini del nord e del sud si fossero fusi in lui. Aveva del semitico, del greco, del romano e dell’anglosassone. Da quale paese dunque veniva? Che però appartenesse alla razza bianca, malgrado la tinta oscura della sua pelle, non vi era da dubitare.

– Non piegheremo verso l’ovest? – chiese Rokoff dopo averlo osservato con curiosità.

– Non per ora – ripeté il macchinista in cattivo russo. – Continueremo dunque la corsa verso il nord.

– Sì, signore.

– Allora andremo in Siberia.

– Non lo so – rispose il giovane, quasi si fosse pentito d’aver detto troppo. – È il capitano che comanda.

– Eppure ci aveva detto di condurci in Europa – insistette Rokoff.

– Se lo ha detto, manterrà la parola.

– È molto tempo che viaggiate? – chiese Fedoro.

– Molto e poco.

– Vale a dire?

– Che non lo so.

– Ecco una risposta strana. Non siete partito col capitano?

– Può essere.

– Non sapremo mai nulla da costui – disse Rokoff in francese a Fedoro.

– Non devo parlare, tale è l’ordine – disse il macchinista nell’egual lingua e sorridendo.

– Ah! Voi parlate anche il francese! – esclamò il cosacco, confuso.

– Ed altre ancora, signore. Ecco Tschang-pin: la gran muraglia non è lontana.

– Faremo provare una gran paura ai cinesi.

– To’! Che cos’è quell’immenso recinto brulicante d’animali? – chiese Rokoff indicando una specie di parco che si estendeva per miglia e miglia verso l’ovest.

– Una delle riserve dell’imperatore – rispose Fedoro. – Ne ha parecchie nella provincia di Pechino.

– Vi sono migliaia di cavalli.

– E tutti di proprietà imperiale.

– E che cosa ne fa l’Imperatore?

– Non lo saprei, perché non cavalca quasi mai. Tuttavia posso dirti che tiene a sua disposizione quasi centomila destrieri, scelti fra i migliori del suo sterminato impero.

– Tanti da morire prima di averli provati tutti, anche se dovesse diventare vecchio quanto gli antichi patriarchi.

– Sì, Rokoff.

– Vedo anche dei buoi.

– Ne possiede dodicimila.

– E delle pecore.

– Si dice che ne abbia duecentoquarantamila.

– Ecco un proprietario che invidio, Fedoro. E quella massa enorme che s’innalza presso le mura del parco? La si direbbe una campana.

– Fedele copia di quella di Pechino – disse il capitano, che si era silenziosamente accostato a loro. – Solamente che quella è in pietra, mentre quella della capitale è di bronzo finissimo.

– Io non ho mai potuto vederla, ma se quella è una copia, deve essere ben mostruosa.

– La più grande che esista al mondo, avendo tra una altezza di cinque metri, un diametro di quattro e mezzo e un peso di sessantamila chilogrammi. Se la bella Ko-hi non si fosse sacrificata, non so se i cinesi, per quanto abili, sarebbero riusciti a fonderla.

– Ko-hi! – esclamò Rokoff, guardando il capitano. – Chi era?

– Una delle più belle fanciulle dell’impero.

– E che cosa c’entra colla famosa campana?

– Signor Fedoro – disse il capitano, volgendosi verso il russo. – Non conoscete la storia di questa campana?

– No, signore.

Il capitano s’appoggiò al bordo, guardò per alcuni istanti Tschang-pin che ingrandiva a vista d’occhio, poi disse, quasi bruscamente:

– Narrasi che l’imperatore Yung-ko avesse incaricato il mandarino Kuang-yo di fondergli una campana che, per mole, non avesse l’eguale nel mondo. L’impresa era così ardua, che per due volte l’immenso torrente di bronzo fuso si riversò nello stampo senza riuscire a dare una campana perfetta. L’imperatore, sdegnato, concesse una terza prova, minacciando di morte lo sventurato mandarino nel caso che non fosse riuscito. Interrogato un astrologo, questi aveva predetto che la fusione sarebbe riuscita se assieme al bronzo si fosse mescolato il sangue d’una vergine. Kuang-yo aveva una figlia, giovane e bellissima. Apprendendo la profezia dell’astrologo e temendo l’ira dell’imperatore contro suo padre, la fanciulla si decise per l’orrendo sacrificio. Ed ecco che, quando il fiume di bronzo usciva come lava ardente dall’immensa fornace, la bella giovane si slancia, gridando: “Per mio padre!” Un soldato si precipitò su di lei per trattenerla, ma già il giovane corpo si era immerso nel metallo, non lasciando in mano dell’uomo, che voleva salvarla, che una delle sue piccole scarpe. Il mandarino, che aveva assistito al sacrificio della figlia, impazzì, ma la fusione riuscì pienamente, come aveva predetto l’astrologo. Si dice che il primo suono che diede la campana sembrò un colpo di scarpetta. Era la disgraziata giovane che reclamava ancora, nelle vibrazioni del bronzo, la sua piccola shieh. Macchinista alziamoci! Ecco le prime case di Tchang-pin ed ecco i primi colpi di fucile destinati a noi. Non sono cortesi questi abitanti!

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