Le ambizioni d’un calmucco

I calmucchi in quel frattempo erano rimasti sempre in ginocchio, in una specie d’adorazione, colle mani sempre tese verso lo “Sparviero” che, presumibilmente, scambiavano per la luna o per qualche altro astro del firmamento.

Erano in tredici con cinque cammelli molto villosi e tre cavalli ossuti e così magri che mostravano le costole. Dinanzi a tutti, inginocchiato su un vecchio tappeto sfilacciato stava un sacerdote, un mandiki, ossia monaco d’un ordine inferiore, d’una obesità enorme, elefantesca, rassomigliante a una massa di grasso coperta di pelle, con un viso così paffuto da, rassomigliare a una vera luna piena, con due occhietti che si intravedevano a malapena attraverso due fessure carnose. Indossava una lunga e lurida tonaca di feltro giallo, cinta da un rosario di pallottoline d’osso ed aveva la testa nuda, con una sola ciocca di capelli in mezzo al cranio che formava un ciuffo untuoso. Gli altri erano tipi di briganti, coi lineamenti angolosi, la pelle bruno-giallastra, il viso piatto e molto largo, gli occhi un po’ obliqui e con barbe incolte. Avevano lunghe casacche di stoffa grossolana con maniche ampie, calzoni larghissimi, fasce ripiene di pistoloni a pietra e di coltellacci, e a terra si vedevano certe specie di tromboni colle canne che s’allargano in forma di imbuto.

– Che musi – disse Rokoff, che li osservava. – E voi dite, capitano, che questi uomini non sono da temersi? I calmucchi godono una fama incontrastata di essere ospitali quanto gli arabi.

– Giudicheremo dall’accoglienza che ci faranno.

Lo “Sparviero”, che al momento in cui il capitano aveva dato il comando al macchinista, si trovava a soli trecento metri d’altezza, in meno d’un minuto toccò il suolo a soli cinquanta passi dall’accampamento.

Rokoff, Fedoro e il comandante, dopo essersi armati di fucili a palla, lasciarono la navicella, dirigendosi verso quel gruppetto di nomadi.

Il monaco s’era alzato, mandando grida di gioia.

– Non abbiate alcun timore – disse il capitano in cinese.

– Ma voi siete uomini! – esclamò il calmucco, nella egual lingua.

– E chi volevate che fossimo?

– Figli del sole e della luna.

– Se vi piace crederci tali, noi non ci opporremo.

– E quella bestia? – chiese il monaco, accennando, con un gesto di terrore, lo “Sparviero”.

– Ah! Quell’uccello sì che è un figlio della luna.

– E, come si trova in vostro possesso?

– Gli uomini bianchi sono amici della luna e possono montare i suoi figli.

– E non vi mangia?

– Non ne ha bisogno. Quell’uccello fa a meno delle colazioni e dei pranzi, non vivendo che d’aria.

– Anche a noi non farà male?

– A nessuno.

– Signore – disse il monaco – voi che siete uomini così potenti, volete degnarvi d’accettare l’ospitalità d’un povero mandiki?

– Siamo discesi appunto per questo – rispose il capitano.

– Io ne acquisterò gran fama e riuscirò forse a realizzare il mio sogno di diventare finalmente ghetzull e chissà, fors’anche hellung.

– Il monaco è ambizioso, – disse Fedoro a Rokoff.

– Perché? – chiese questi, che non aveva capito niente.

– Questo monaco è un mandiki, ossia uno dei più infimi della casta e si capisce che vorrebbe guadagnare uno degli ordini superiori e diventare ghezull o, meglio ancora, hellung.

– Ciò non gli ha impedito però d’ingrassare enormemente.

– Sono tutti così rotondi i sacerdoti dei calmucchi.

– Devono condurre una vita beata.

– Sono i più neghittosi di tutti e anche i più formidabili mangiatori. Vivono alle spalle dei pastori e non pensano che a divorare, bere e dormire.

– I furbi!

– Sono volponi matricolati.

– E dove andava questo prete?

– A quanto ho udito, si reca a Turfan per la festa delle lampade.

– Una cerimonia religiosa?

– E delle più importanti e anche delle più curiose.

– Che il capitano voglia andare a vederla?

– Non mi stupirei.

Mentre chiacchieravano, il seguito del monaco aveva rizzato le tende, o meglio le kibitkas, formate da pali molto sottili che all’estremità superiore vengono piegati ad arco, in modo da formare una specie di cupola, che poi viene coperta da uno spesso tessuto di feltro.

Nel centro vi si attacca una grossa pietra sospesa a una fune, onde dare al leggero edificio maggior stabilità e porlo in grado di resistere ai venti, che talvolta soffiano impetuosissimi sugli altipiani dell’Asia centrale e nel deserto di Sciamo. Il monaco aveva invitato il capitano e i suoi due amici nella sua tenda, che era la più vasta e la più bella, offrendo tosto del koumis, miscuglio composto di latte di cammello agro e d’acqua, non sgradevole, e un mezzo agnello arrostito qualche ora prima.

Il capitano, dal canto suo, aveva fatto portare dal macchinista alcune bottiglie di whisky e dei pasticci, acquistati chissà quanti mesi prima in America o in Australia, ma che il freddo intenso della ghiacciaia aveva mirabilmente conservati. Il monaco non solo aveva assalito ingordamente i pasticci, ma si era attaccato anche alle bottiglie, tracannandone il contenuto con un’avidità da vero selvaggio. Alla seconda, era già tanto commosso che grosse lacrime bagnavano il suo faccione da luna piena.

Si era messo a raccontare le sue sventure. Da sette anni, nonostante tutta la sua buona volontà e la sua ambizione, era sempre rimasto un umile mandiki, mentre aveva sognato di poter diventare un giorno un potentissimo Lama, ossia capo della religione. Eppure aveva preso parte a tutte le feste religiose, aveva mangiato e bevuto a crepapelle per acquistare quella rotondità necessaria per far buona figura, rovinando una mezza dozzina di tribù di pastori, alle quali aveva divorato, a poco a poco, perfino l’ultimo agnello.

Ormai non contava più che sopra un avvenimento straordinario per diventare almeno ghetzull se non hellung.

– Voi soli potreste darmene il mezzo – disse finalmente, quand’ebbe vuotata la terza bottiglia.

– E in quale modo? – chiese il capitano, che rideva fino alle lagrime delle comiche sventure dell’obeso calmucco.

– Facendomi scendere dal cielo.

– Non vi comprendo.

– Prendetemi con voi, sulla vostra bestia e conducetemi a Turfan. Vedendomi scendere dalle nuvole, io acquisterò una tale fama, che i miei confratelli non esiteranno più a passarmi di grado. Un uomo che vola? Un uomo che è in relazione colla luna! Figuratevi che successo!

– Ah! Briccone! – esclamò Rokoff, a cui Fedoro aveva tradotte le parole del calmucco. – È più furbo di tutti! Se io fossi voi, capitano, lo accontenterei. L’avventura sarebbe buffa.

– Volete che andiamo a vedere la festa delle lampade? – chiese il comandante, che non riusciva a frenare il riso.

– Andiamoci, signore – disse Fedoro. – Sotto la protezione d’un monaco nulla avremo a temere.

– E il seguito? – chiese Rokoff.

– Se ne andrà a Turfan per suo conto – rispose il capitano.

Il progetto fu comunicato al monaco, il quale per la gioia si mise a piangere come una vite appena potata.

– La mia carriera è assicurata – gridava, sbuffando come una foca. – Sarò ghetzull, fors’anche hellung e chissà anche Lama. Oh! miei buoni figli della luna! Quanta riconoscenza vi dovrò! Metterò a contribuzione tutti pastori di Turfan per empire la vostra bestia di agnelli e di capretti.

– Compiango quei poveri diavoli – disse Rokoff. – Purché, invece di agnelli, non ci regalino del piombo o delle legnate!

– I monaci dei calmucchi sono onnipossenti e nessuno oserebbe ribellarsi ai loro voleri.

– Andiamo dunque a Turfan.

Il mandiki, dopo molti sforzi, era riuscito ad alzarsi. Traballava però così male sulle sue gambe elefantesche, che il troppo abbondante whisky aveva reso estremamente pesanti, che Rokoff e Fedoro si videro costretti a sorreggerlo per non fargli perdere la sua dignità di monaco buddista.

Quando gli uomini della scorta appresero la sua decisione di recarsi a Turfan su quella bestia alata, non poterono fare a meno di manifestare la loro ammirazione pel coraggio del loro sacerdote. Ebbero bensì qualche apprensione vedendolo dirigersi verso la bestia in compagnia di stranieri, però si rassicurarono, dopo che ebbero promesso di aspettarli a Turfan.

Ci volle anche l’aiuto del capitano e del macchinista per imbarcare quell’enorme massa, che non doveva pesare meno d’un quintale e mezzo.

– Siete sempre deciso? – gli chiese il comandante, prima di dare ordine d’innalzarsi.

– Sì – ebbe appena la forza di borbottare il monaco. – Ghetzull… hellung… Lama…

E si lasciò cadere di peso su un materasso, che fortunatamente si trovava presso di lui, chiudendo gli occhi.

– L’aria fresca gli farà passare presto l’ubriachezza – disse Rokoff. – Che bevitore! Sono curioso di vedere come finirà questa amena avventura.

Lo “Sparviero” aveva preso lo slancio e s’innalzava quasi verticalmente, battendo vivamente le ali.

I calmucchi, vedendolo andarsene, ebbero un’ultima esitazione.

– No! No! – gridarono, con voce singhiozzante. – Non portatelo via!

Ma già lo “Sparviero” fuggiva sopra il deserto, con una velocità di quaranta miglia all’ora, passando sopra gli ultimi contrafforti del Tan-Sciang.

– Ci vorrà molto a giungere a Turfan? – chiese Rokoff al capitano, il quale stava osservando una carta della Mongolia.

– Fra un paio d’ore ci saremo – rispose il comandante. – È un centro grosso?

– Eh! Una borgata perduta lungo la via carovaniera che attraversa lo Sciamo occidentale.

Lo “Sparviero” si era molto innalzato per poter superare la catena, la quale spingeva i suoi picchi rocciosi a settecento, a ottocento e perfino a mille metri. Era un ammasso enorme di rupi brulle, senza alcuna traccia di vegetazione verso le cime, con spaccature profondissime che disegnavano delle vallate selvagge, in fondo alle quali si vedevano scorrere dei torrentacci impetuosi. Laggiù la vegetazione non mancava, anzi si vedevano vere foreste di betulle, di pini e di larici, ma nessuna abitazione.

Solo degli argali, specie di stambecchi, con due corna molto ramose ai lati della testa, balzavano fra le rupi, fuggendo con rapidità fantastica; in alto invece qualche aquila in vedetta su qualche picco e che alla comparsa dello “Sparviero”, invece d’inseguirlo, fuggiva precipitosamente, calando sugli altipiani inferiori.

Il treno aereo avendo trovato un vallone profondo che pareva tagliasse in due la catena, si era abbassato fino a quattrocento metri, radendo talvolta, coll’estremità inferiore del fuso le punte degli abeti e dei pini.

Il capitano aveva ordinato al macchinista di abbassarsi sperando di fare un buon colpo sugli argali che si vedevano sempre numerosissimi, ma quei sospettosi e agilissimi animali non si lasciavano accostare.

Appena scorta l’ombra proiettata dallo “Sparviero” s’affrettavano a cacciarsi nei boschi, rendendo così impossibile l’inseguimento.

Verso le tre pomeridiane, ossia due ore dopo lasciato l’accampamento dei calmucchi, il treno aereo sboccava nello Sciamo meridionale, presso la via carovaniera di Chami e d’Urumei. Quasi subito, fra due colline, apparve un aggruppamento di costruzioni in legno e di tende.

– Turfan – disse il capitano.

– È ora di svegliare il monaco – disse Rokoff.

– Anche per nostra salvaguardia – aggiunse Fedoro. – È incaricato di proteggerci.

– Aprirà poi gli occhi? – chiese il cosacco. – Sarà ancora ubriaco.

– Gli somministreremo un po’ d’ammoniaca in un bicchier d’acqua – disse il capitano. – Se dovessimo sbarcarlo in questo stato, i calmucchi sarebbero capaci di prendersela con noi.

Il macchinista, il quale aveva ceduto il timone allo sconosciuto, che si era sempre tenuto da parte senza mai parlare, portò il bicchiere e forzò il monaco a berlo. Il povero diavolo lo mandò giù facendo delle smorfie e sternutendo sonoramente parecchie volte.

– Questo non è koumis! – esclamò. – Briganti di servi! Che cosa avete dato al vostro sacerdote?

Probabilmente credeva di trovarsi ancora sotto la sua tenda. Accortosi dell’errore e vedendo sopra di sé agitarsi le immense ali dello “Sparviero”, impallidì e si portò le mani alla fronte.

– Dove sono? – si chiese, con accento smarrito.

– Sopra Turfan – rispose il capitano, ridendo. – Su, in piedi, se volete diventare ghetzull o hellung.

– Turfan! – esclamò il calmucco, che penava molto a raccapezzarsi.

D’un tratto mandò un grido:

– I figli della luna!

– Pare che l’ubriachezza gli sia finalmente passata – disse Rokoff.

– E che sia molto spaventato – aggiunse Fedoro. – Non c’è più alcool nel suo corpo che gli dia del coraggio.

– Gliene faremo ingollare dell’altro.

Il monaco, aiutato dal capitano, si era alzato aggrappandosi alla balaustrata. Appena ebbe dato uno sguardo all’abisso che gli si apriva sotto i piedi, retrocesse vivamente, agitando le braccia come un pazzo.

– Ho paura! – esclamò. – Non gettatemi giù! Sono un povero mandiki.

– Che cosa vi salta pel capo, ora? – chiese il capitano. – Volevate andare a Turfan coi figli della luna e noi vi abbiamo accontentato.

– E non ci ammazzeremo tutti? – chiese il monaco, che sudava freddo.

– Giungerete in ottimo stato, ve lo prometto.

– E questa bestia non mangerà nessuno?

– Non le piacciono gli uomini, specialmente quelli della vostra razza.

Il mandiki, un po’ rassicurato, si riaccostò alla balaustrata, poi tornò a retrocedere, coprendosi gli occhi colle mani.

– Cadiamo! – gemette.

– Animo – disse il capitano. – pensate che da questa discesa dipende il vostro avanzamento. Ecco gli abitanti che vi acclamano.

Una folla numerosissima si accalcava sulla piazza del villaggio, mandando urla di sorpresa e anche di terrore. Si vedevano donne e fanciulle fuggire e uscire invece dalle tende uomini armati di fucili e di tromboni.

– Fatevi vedere – disse il capitano al monaco. – Se fanno fuoco io non scenderò e sarete costretto a rimanere con noi.

– Ho paura! Ho paura! – balbettava il mandiki.

– Se non obbedite vi getto giù!

A quella minaccia il calmucco impallidì come un cencio lavato e fu lì lì per lasciarsi cadere. Vedendo però il capitano avanzarsi, si fece animo e si curvò sulla balaustrata, gridando alcune parole.

Le urla erano subito cessate. I calmucchi avevano lasciato cadere le armi, facendo gesti di maraviglia e di stupore.

Il loro mandiki scendeva dal cielo, portato da quel mostruoso uccello! La cosa doveva sembrare ben meravigliosa a quei poveri nomadi, che non avevano mai udito parlare né di aerostati, né tanto meno di macchine volanti. La loro sorpresa era tale, che parevano come pietrificati.

Lo “Sparviero” intanto scendeva descrivendo dei larghi giri che a poco a poco si restringevano, poi le sue ali rimasero tese formando un paracadute assieme ai piani orizzontali e la massa si lasciò cadere proprio in mezzo alla piazza. La folla, vedendolo abbassarsi, si era ritirata precipitosamente per non farsi schiacciare, mentre il monaco, che aveva riacquistato il coraggio, ritto a prora con un’aria da trionfatore, trinciava benedizioni a destra e a manca, invocando Buddha.

Grida d’ammirazione scoppiavano da tutte le parti. Si urlava, si applaudiva il monaco che aveva saputo, certo per opera del dio, domare quell’enorme mostro e renderlo docile ai suoi voleri. Tuttavia nessuno osava accostarsi a quell’uccellaccio di nuova specie, anzi alcuni avevano armato i fucili, temendo un improvviso attacco. Il mandiki, con un gesto da sovrano, impose silenzio alla turba e gridò con un vocione da basso profondo:

– Giù le armi, figli miei. Questa bestia non farà male a nessuno, perché io l’ho domata e fate buona accoglienza agli uomini che mi accompagnano, che sono i figli di Buddha.

– Ah! Il volpone! – esclamò Rokoff. – Per lui eravamo figli della luna; ora siamo diventati, per gli altri, nientemeno che figli del dio. Sfrutta bene l’ignoranza di questi poveri calmucchi.

Il mandiki, dopo molti sforzi e anche coll’aiuto del cosacco e di Fedoro, era riuscito a scavalcare la balaustrata, muovendo, con incedere maestoso, verso la folla che gli si era subito stretta intorno disputandosi l’onore di baciargli l’orlo della veste.

I calmucchi parevano in preda a un vero delirio. Finirono per sollevare il monaco, nonostante il suo enorme peso, portandolo in trionfo per la piazza.

– Ci lascia? – chiese Rokoff. – Non sarei stupito che se ne andasse dimenticandosi d’inviarci i promessi montoni.

Ma il cosacco giudicava male il mandiki, perché questi, appena calmatosi un po’ l’entusiasmo della folla, si fece deporre a terra e s’avvicinò allo “Sparviero”, dicendo al capitano:

– Signore, degnatevi d’accettare l’ospitalità nella tenda della principessa che comanda in Turfan. Si sta preparando il pranzo pei figli di Buddha.

– Durante la nostra assenza nessuno toccherà il mio uccello?

– Oh! Non temete! Questi stupidi hanno troppo paura e non oseranno nemmeno accostarsi. Non sono sacerdoti essi.

– Per prudenza lasciamo qui il macchinista e quel signore – disse il capitano. – E noi, signor Rokoff e voi, Fedoro, armiamoci delle rivoltelle. Non si sa mai quello che può accadere.

Nascosero le armi sotto le larghe fasce, delle rivoltelle di grosso calibro, vere Colt americane e seguirono il monaco fiancheggiati da due o trecento calmucchi, i quali però si tenevano a una certa distanza.

– Sarà giovane o vecchia questa principessa? – chiese Rokoff al capitano.

– Se sarà bella e giovane, vi concedo il permesso di corteggiarla – rispose il comandante, ridendo. – Non rimarrà insensibile agli omaggi d’un figlio di Buddha.

– Non mi comprenderà.

– Ah, sì, mi dimenticavo che non parlate nemmeno il cinese.

– Ditemi, capitano, comandano le donne qui?

– Sarà la vedova di qualche capo.

– Allora sarà vecchia.

– Aspettate a giudicarla.

All’estremità della piazza s’alzava una vastissima kibitka di forma quasi ovale, coperta di grosso feltro impermeabile, con un’apertura sulla cima per lasciar penetrare la luce e uscire il fumo, non conoscendo i calmucchi, al pari dei duzungari loro vicini e anche dei mongoli, i camini.

Il mandiki alzò un lembo della tenda e li introdusse, pregandoli di aspettare la principessa, la quale stava abbigliandosi in una tenda vicina. L’interno era montato con un lusso, che stupì perfino il capitano. In un canto vi era un letto monumentale, con una coperta di seta azzurra a fiorami rossi e gialli, con baldacchino pure di seta e tende bianche e rosa.

Dinanzi stava un divanetto con un ricco tappeto di provenienza persiana o tibetana e in disparte un ricco cofano d’origine cinese, a colori brillanti e lacca, carico di coppe ricolme di riso e di frumento, di sonagliuzzi di varie grandezze, con due bambole vestite di seta, simili a quelle che vendono i cinesi. In mezzo si vedeva una statuetta di Buddha coperta da una mussola ricamata in oro. Intorno poi alla tenda v’erano numerosi cuscini di seta, posti su piccoli tappeti, destinati di certo ai visitatori.

– Che lusso! – esclamò Rokoff, che non poteva star zitto un minuto. – La principessa deve essere bella e molto graziosa per avere un così ricco letto. Mi rincresce di dover starmene muto dinanzi a lei.

– Eppure voi, che siete cosacco, dovreste conoscere qualche parola di calmucco – disse il capitano. – Questa razza, nomade fra le nomadi, si è sparpagliata fino ai confini dell’Europa e ha tribù numerose perfino nel Caucaso e nell’Astrakan.

– Ha invaso mezza Asia?

– Se non di più, signor Rokoff. È una razza di conquistatori, che ha avuto, secoli indietro, parecchie fasi di gloria e di potenza, e che sotto il famoso Genghiz Khan portò le sue armi vittoriose fino in Russia. Sapete che si dice che gli unni, che con Attila invasero perfino l’Italia, siano stati gli antenati di questi nomadi, che ora vedete così miserabili?

– Ne ho udito parlare. Ora però non sono capaci d’altro che di condurre al pascolo i loro montoni e i loro cammelli.

– Perché si sono troppo dispersi e suddivisi in un numero infinito di tribù indipendenti le une dalle altre.

– Ecco la principessa – disse Fedoro.

I tre aeronauti si erano alzati guardando curiosamente verso l’entrata della tenda, che l’enorme monaco teneva alzata.

– Ah! La brutta vecchia! – esclamò Rokoff. – Ma questa è una strega!

La principessa si era avanzata, facendo colle mani un saluto rispettoso.

Era una donna piccola, magra come un chiodo, colla pelle del viso color del pan bigio, grinzosa e incartapecorita, con due occhietti neri ancora vivaci e di una mobilità straordinaria. Quale età poteva avere? Ottanta o cent’anni? Rokoff gliene avrebbe dati anche di più.

Come tutte le ricche calmucche, indossava una lunga veste che le scendeva fino ai piedi, aperta in alto in modo da lasciar vedere la camicia di seta bianca. Sul capo portava una specie di berretto colla parte superiore quadrata e l’inferiore rialzata da una parte e aveva i capelli raccolti in trecce e ancora neri e abbondanti, chiusi in una fodera di seta nera.

Le dita ossute erano coperte di anelli d’oro e d’argento e anche al collo portava pesanti monili formati da tael cinesi e da grani d’oro. Nonostante quello sfarzo di gioielli, il colore azzurro della veste e le ricche babbucce di pelle rossa con ricami d’argento, la principessa era d’una bruttezza ripugnante.

Il monaco, che pareva all’apice del suo trionfo, presentò alla vecchia i figli viventi di Buddha, chiamandoli suoi amici e suoi protettori, poi li fece sedere sui cuscini mentre egli prendeva posto sul divanetto assieme alla principessa.

Quasi subito entrarono parecchi servi portando quattro capretti arrostiti interi, vasi ricolmi di koumis e focacce di frumento e di riso.

– Diamo un saggio della capacità degli stomachi dei piccoli Buddha – disse Rokoff.

Il mandiki, nella sua qualità di monaco, aveva servito agli ospiti dei pezzi enormi su piatti d’argento, invitandoli a far onore alla modesta cucina della principessa Khurull-Kyma-Chamik.

– Mi pare che abbia sternutato – disse Rokoff.

– No, ha pronunziato il nome della bella principessa – rispose Fedoro.

– Un nome superbo! Compiango suo marito, se ne ha avuto uno, costretto a sternutare forse cinquanta volte al giorno per chiamare la sua sposa.

Si erano messi a mangiare con molto appetito, trovando tutto squisito. Anche la principessa, quantunque quasi sdentata, si sforzava di tener dietro agli ospiti, masticando come meglio poteva e bevendo molto koumis. Durante quella laboriosa operazione, alzava sovente il viso, guardando di sfuggita i tre uomini bianchi e fermando soprattutto i suoi occhi su Rokoff, le cui forme erculee e la barba rossastra dovevano averle prodotto un certo effetto. Anzi, sovente si curvava verso il monaco, che divorava per quattro e beveva per otto, mormorandogli all’orecchio qualche parola e indicandogli il cosacco.

Il capitano, che si era accorto di quelle manovre, urto Rokoff, dicendogli:

– Badate! La principessa fa troppa attenzione a voi. Temo che le abbiate toccato il cuore.

– Per le steppe del Don! Non ditelo nemmeno per scherzo.

– E che, non vi piacerebbe diventare principe di Turfan?

– Con quella vecchia!

– Non è poi tanto brutta – disse il capitano, frenando a stento le risa.

– Che il diavolo se la porti!

– E sarà anche ricchissima.

– Non continuate, o scappo via.

– Non guastate le nostre buone relazioni con questi calmucchi. Sarebbero capaci di mandarci in pezzi lo “Sparviero”.

– Dopo il pranzo ce ne andremo.

– Dobbiamo assistere alla festa delle lampade. La popolazione sta già facendo i preparativi.

– Chi ve lo ha detto?

– Il mandiki.

– Avrei preferito andarmene.

– Più tardi, quando avremo ricevuto i montoni promessi.

Mentre chiacchieravano, la principessa continuava a guardare sottocchi il cosacco e bisbigliare col monaco il quale, troppo affaccendato a rimpinzarsi di pasticci e di focacce, si limitava a rispondere con dei cenni del capo.

Avevano appena terminato il pasto, quando al di fuori si udirono rullare dei tamburelli e strepitare dei gong. Il monaco si era alzato dicendo:

– Ecco che la sulla comincia. I figli del possente Buddha onorino la festa colla loro presenza.

Tutti uscirono dalla tenda, preceduti dalla principessa. La notte era calata, ma miriadi di lumi brillavano nelle vie della borgata e intorno alle tende, avanzandosi verso la piazza come un immenso serpente fiammeggiante.

Dinanzi alla dimora della principessa, dei servi avevano alzato una specie d’altare, il dender, formato con rami d’abete intrecciati e piantati su pezzi di legno coperti d’erba.

Su due lati ardevano due piccoli falò ed in mezzo ai rami s’alzava una statua di Buddha formata d’argilla seccata al sole e abbellita di pezzi di carta dorata e da collane di tael.

La festa della sulla ossia della lampada, è una delle più grandi ed anche delle più originali che celebrano i calmucchi ed ha qualche somiglianza coi quella delle lanterne dei vicini cinesi.

Giacché riesca di maggior effetto, si aspetta la notte. Allora tutta la popolazione della tribù si schiera, munita di lampade ripiene di grasso, i cui lucignoli sono formati dagli steli d’una pianta ben secca, avvolti in un po’ di cotone, e devono essere tanti quanti sono gli anni di colui che deve portare il lume. Preceduti da una musica indemoniata, devono fare tre volte il giro dell’altare, sempre ballando e procurando di non cadere, perché la via che devono percorrere deve essere prima stata interrotta da fossati e da buche scavate appositamente.

Un uso molto curioso poi, vuole che un bambino nato il giorno prima della sulla, debba venire considerato l’indomani come già vecchio d’un anno. Mentre la principessa attendeva l’arrivo della tribù che s’avanzava fra un clamore assordante, il monaco si era accostato al capitano, impegnando con lui una misteriosa conversazione, accompagnata da gesti maestosi.

– Che cosa può raccontare il mandiki? – si chiese il cosacco, il quale, senza conoscere il motivo, non si sentiva punto tranquillo. – Deve essere molto interessante, perché vedo che il capitano ride a crepapelle.

– Io non so, ma vedo una cosa.

– Quale?

– Che la principessa, a poco a poco si avvicina a te e che non ti stacca di dosso gli sguardi.

– Che quella vecchia pazza…

– Signor Rokoff – disse il capitano, che gli si era accostato. – Sono stato incaricato, dal mandiki, d’una commissione per voi. Permettete che fin d’ora vi faccia le mie congratulazioni. Corbezzoli! Quanto v’invidieranno i sudditi di Khurull-Kyma-Chamik.

– Una commissione per me? – chiese il cosacco, che si sentiva bagnare la fronte da freddo sudore.

– Quattromila montoni, trecento cammelli, sette tende e non so quanti cofani pieni di pezzi di seta e di gioielli ed un titolo! Sono fortune che non capitano tutti i giorni.

– Che cosa c’entrano i montoni… i cammelli…

Il capitano, fattosi serio disse, inchinandosi comicamente:

– Io saluto in voi il principe di Turfan.

– Io principe! – gridò Rokoff che pareva in procinto di scoppiare.

– Mi hanno pregato di chiedere la vostra mano da parte della bellissima, ricchissima e potentissima principessa Khurull-Kyma-Chamìk, che si è degnata di scegliervi per suo quinto sposo.

– Fulmini del Don!

– Fortunato amico! – gridò Fedoro, schiattando dalle risa. – E il briccone si lagnava d’avermi accompagnato in Cina!

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