L’ultimo addio

Verso il mezzodì del giorno seguente, dopo d’aver fatto a pezzi il labiato e d’averlo messo a gelare nella ghiacciaia, lo “Sparviero” lasciava il piccolo altipiano riprendendo la corsa verso le frontiere del Butan onde scendere nelle pianure boscose dell’Assam.

Questa regione, che fa parte dei possedimenti inglesi dell’India, e che ha una superficie di 126.965 chilometri quadrati, con una popolazione di oltre cinque milioni, è la più orientale dell’immenso impero, confinando coll’Alta Birmania.

In confronto al vicino Bengala, così ricco di opulenti città e poco popolato, è ancora mezzo selvaggio, essendo i suoi abitanti piuttosto birmani e kaltani, anziché indiani; dediti per lo più all’agricoltura e alle armi che ai commerci. Nondimeno si contano non pochi centri popolosi e alcune città notevoli per la bellezza dei loro palagi, abitati un tempo dai re assamesi.

Lo “Sparviero”, verso le due pomeridiane, varcava già la frontiera, entrando nell’Assam pel passo di Rangeah, ritrovando qualche ora dopo il Brahmaputra, il gigantesco fiume che gli aeronauti avevano già attraversato nel Tibet e che dovevano seguire per qualche tempo.

In quel luogo il paese appariva quasi deserto, non essendovi che pochissimi villaggi nell’Assam occidentale e una sola città d’importanza: Goalpara.

Alla sera anche l’Assam era stato attraversato e lo “Sparviero”, lasciate le sterili pianure che aveva seguito fino allora, entrava nel Bengala passando sopra la piccola borgata di Afgeav. Invece però di procedere direttamente verso il sud, il capitano aveva ordinato al macchinista di portarsi verso l’est, come se avesse voluto raggiungere i monti di Tipperah, che dividono il Bengala orientale dalla Birmania.

– Perché cambiate rotta? – chiese Rokoff, sorpreso.

– Vi è una città da evitare, che è abitata da troppi inglesi: Canilab – rispose il capitano.

– È già notte.

– Potrebbero scorgerci egualmente, essendo prossima l’alzata della luna.

– E dove andremo noi?

– Lo saprete presto.

– Su quei monti che si delineano laggiù?

– L’Arracan non è la mia mèta, per ora.

– Allora andiamo verso il mare.

– Sì, signor Rokoff.

Lo “Sparviero” affrettava sempre, toccando una velocità di sessanta miglia all’ora, velocità che non aveva mai raggiunto durante la traversata dell’Asia centrale. Si sarebbe detto che il capitano aveva molta premura di raggiungere le acque del golfo.

Qualche motivo doveva averlo, perché si mostrava di frequente irrequieto, nervoso, e scambiava di quando in quando delle parole collo sconosciuto in una lingua, che né Rokoff né Fedoro riuscivano a comprendere.

A mezzanotte lo “Sparviero” passava, colla rapidità d’una freccia, al disopra di Balloah, una delle ultime città di quella regione, e attraversata la larga foce del Migna, che in quel luogo pareva un braccio di mare, scendeva verso il sud, dove si vedeva estendersi una vasta isola fiancheggiata a oriente e a occidente da parecchie altre minori.

– Schalibaspav – disse il capitano additandola ai suoi compagni. – Un deserto popolato solamente da serpenti.

Quell’isola, che è una delle più notevoli che fronteggiano il golfo del Bengala, appariva infatti deserta. Non si vedevano altro che piante, per lo più canne gigantesche e acquitrini.

Lo “Sparviero”, in meno di un quarto d’ora, l’attraversò dal nord al sud e s’arrestò verso l’estrema punta che si bagnava fra le onde del golfo del Bengala.

– Scendiamo – comandò il capitano, additando la spiaggia.

Il treno aereo descrisse una immensa curva, e scese lentamente, sorretto solamente dai piani, adagiandosi sulle sabbie che coprivano la costa.

Il capitano, dopo aver dato uno sguardo all’intorno, era balzato a terra, mentre il macchinista sbarcava delle coperte e delle carabine.

– Venite – disse a Fedoro e a Rokoff.

– Noi ci fermeremo qui.

– Noi! – esclamò Fedoro.

– E gli altri?

– Devono andare altrove.

– Collo “Sparviero”?

– Sì, collo “Sparviero” – rispose il capitano. – Ah! La loro assenza non sarà lunga e poi devo sapere…

S’interruppe bruscamente, come si fosse pentito di essersi lasciato sfuggire quelle parole, poi cambiò discorso dicendo seccamente al macchinista che gli stava vicino in attesa dei suoi ordini:

– Puoi andare.

Lo sconosciuto si era fatto innanzi. Strinse silenziosamente la mano al capitano, poi s’avvicinò a Fedoro e a Rokoff e strinse le loro destre, dicendo in buona lingua russa:

– Spero un giorno di potervi rivedere, signori!

Prima ancora che il cosacco e il russo si fossero rimessi dal loro stupore, lo sconosciuto era già risalito sullo “Sparviero”, seguito dal macchinista. La macchina volante prese lo slancio e s’innalzò, allontanandosi velocemente verso il nord-ovest. Il capitano, ritto sulla spiaggia, colle braccia incrociate sul petto, lo guardava allontanarsi.

Quando scomparve fra le tenebre, si volse verso il russo e il cosacco, dicendo:

– Aspettiamo che il macchinista ritorni.

– Una parola, signore – disse Fedoro.

– Parlate.

– Quell’uomo è un russo, è vero? Un russo al par di me, perché nessuno, per quanto conosca bene la nostra lingua, può parlarla così bene e con quell’accento.

Il capitano lo guardò in silenzio per alcuni istanti, poi rispose:

– Può essere anche un russo, signor Fedoro. Vi rincrescerebbe?

– Tutt’altro, capitano.

– Non chiedetemi più nulla su quell’uomo che per voi deve rimanere uno sconosciuto. D’altronde voi non lo rivedrete più.

Non erano trascorse ventiquattro ore, quando Rokoff e Fedoro, con loro viva sorpresa, videro riapparire improvvisamente lo “Sparviero”.

Quasi nel medesimo tempo una scialuppa approdava a breve distanza dal loro accampamento improvvisato, una di quelle barche chiamate ponlar, armata d’un albero. Era montata da quattro indiani.

– Signori – disse il capitano. – È giunto il momento della separazione. Ecco la scialuppa che ho fatto noleggiare per voi, affinché vi conduca a Calcutta. Gli uomini che la montano sono fidati.

Lo “Sparviero” si era adagiato sulla sabbia, ma era montato dal solo macchinista.

Il capitano era rimasto silenzioso, guardando Rokoff e Fedoro. Pareva vivamente commosso.

– Tornate in Europa – disse poi, tendendo ad entrambi la mano. – L’ora della separazione è giunta.

– Non ci rivedremo mai più, signore? – chiese Rokoff con profonda amarezza.

– Si… un giorno… ve lo prometto… partite!…

Poi, senza attendere altro, né aggiungere alcuna altra parola, si slanciò sul fuso, il quale s’innalzò rapidissimo, descrivendo un’immensa spirale.

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