Prigionieri nell’abisso

Il cosacco che aveva la vista migliore di tutti, si era subito accorto che le loro disgrazie non erano ancora finite, malgrado avessero tentato quel pericolosissimo salto e avessero avuto la fortuna di salvare le gambe.

Quell’abisso, al pari del piccolo altipiano, non aveva che una sola uscita, quella aperta dal torrente e anche questa, disgraziatamente, assolutamente impraticabile.

Era una enorme conca, colle pareti perfettamente lisce, tagliate a picco, larga cento metri e lunga quasi altrettanto, limitata da una spaccatura che metteva in un secondo burrone ben più profondo.

Da una parte il torrente si precipitava da una rupe alta quanto l’altipiano e dall’altra usciva in cascata, rovesciandosi con fragore immenso nel burrone sottostante.

I tre cacciatori sfuggiti alle corna della mandria inferocita, mercé quell’arditissimo salto, non avevano migliorata la loro condizione e si trovavano ora imprigionati fra quelle pareti che non permettevano nessuna scalata.

– Che cosa ne dite? – chiese Rokoff al capitano.

– Che siamo caduti dalla padella nelle brace – rispose questi. – Tuttavia sono più contento di trovarmi qui che sull’altipiano, cogli jacks di fronte perché non avrei il coraggio di ritentare il salto. Senza la vostra pazza temerità, mi sarei lasciato piuttosto sventrare dalle corna di quegli inferociti animali.

– E avreste fatto male a non seguire il mio esempio – rispose Rokoff ridendo. – A quest’ora non sareste altro che una poltiglia di carne e di sangue, mentre invece, con quel capitombolo, avete salvato la pelle.

– Non ci voleva che un cosacco per decidermi, signor Rokoff.

– Anch’io senza di te non avrei mai saltato – disse Fedoro. – Che uomini sono quelli delle steppe!

– Lasciamo i salti e anche le steppe e pensiamo a trarci da questa situazione che non è molto allegra – disse Rokoff.

– Se pensassimo invece ad asciugarci un po? – chiese Fedoro, che batteva i denti. – Vedo degli sterpi qui.

– Mi pare che per ora sia il consiglio migliore – disse il capitano. – Non potremo resistere a lungo con queste vesti bagnate che si gelano sulle nostre carni. Ci prenderemo una buona polmonite, specialmente con quest’aria che ci sferza lo stomaco.

– Avremo di che accenderlo? – chiese Rokoff.

– Ho un acciarino e dell’esca chiusi in una scatola impermeabile – rispose il capitano. – Signor Rokoff, aiutatemi.

Lungo le rocce e fra le fessure delle pareti si vedevano sterpi e licheni in gran numero, già seccati dall’aria fredda della montagna. I tre cacciatori ne raccolsero una quantità enorme e vi diedero fuoco, poi si sedettero intorno, spogliandosi e torcendo le vesti che cominciavano già a coprirsi di ghiaccioli.

– E l’jack? – chiese a un tratto Rokoff, che esponeva il suo largo e villoso petto alla fiamma.

– È morto, – rispose il capitano guardando verso la riva opposta. – Peccato che non sia caduto qui.

– Per mangiarlo?

– Almeno la lingua.

– Andate a tagliarla, se l’acqua non vi fa paura.

– Non oserei affrontare ancora quel torrente. Per le steppe del Don!… È fredda come se quell’acqua scendesse da un ghiacciaio.

– Eppure qualcuno di noi dovrà ritentare il passaggio. Nella caduta le nostre tasche si sono completamente vuotate e non possediamo più nemmeno una galletta.

– E non abbiamo nemmeno più le carabine – aggiunse Fedoro. – Si trovano in fondo al torrente.

– Su chi vorreste far fuoco? – chiese il capitano.

– Su chi? Non vedete lassù gli jacks che ci guardano.

– Ostinati animali! – gridò Rokoff. – Se avessi ancora il mio fucile, ne farei cadere giù qualcuno.

– Come vedete, non ci resta che fare un altro salto nel torrente, se vorremo fare colazione. Per un cosacco è una cosa da nulla – disse il capitano un po’ beffardamente. – È vero, signor Rokoff?

– Per tutti i diavoli dell’inferno!… Volete proprio che prenda un altro bagno?

– Allora rinunciamo alla colazione e anche alla libertà e aspettiamo che i nostri compagni ci trovino.

– Alla nostra libertà! – esclamò il cosacco.

– Sì, mi è venuta un’idea.

– Quale?

– Di tentare la discesa della cateratta.

– E calarsi nell’altro abisso?

– Sì, Rokoff.

– Se fosse chiuso anche quello?

– Ho veduto una gola e suppongo che metterà in qualche burrone.

– E come faremo a calarci? Non abbiamo corde.

– Sì, le nostre fasce di lana – disse Fedoro.

– Non basterebbero – rispose il cosacco. – La cascata ha un salto di venticinque o trenta metri.

– Le corde ce le darà lo jack – disse il capitano.

– Tagliando a liste la sua pelle?

– Sì, Rokoff.

– Sono deciso.

– A che cosa fare?

– A riattraversare il torrente. Datemi il vostro acciarino onde accenda un fuoco sull’altra riva per riscaldarmi e asciugarmi.

– Rimanete qui; andrò io.

– No, capitano. I cosacchi hanno la pelle più dura degli uomini d’altre razze.

Fece un pacco delle sue vesti che erano quasi asciutte e si diresse risolutamente verso il torrentaccio, stringendosi ai fianchi la fascia di lana per passarvi il bowie-knife.

Il capitano si era alzato per trattenerlo, ma già il cosacco, con un magnifico salto di testa, si era slanciato fra le gelide acque.

– Che uomo! – esclamò il capitano. – Forte come un toro e temprato meglio dell’acciaio di Toledo.

Rokoff era subito rimontato a galla, nuotando precipitosamente.

Il torrente in quel luogo era largo cinque o sei metri e le sue acque scorrevano rapidissime, frangendosi con mille fragori contro le rocce delle rive. Il cosacco però, abituato ad attraversare i larghi fiumi del suo paese, nuotava con vigoria, tagliando la corrente diagonalmente.

– È fredda l’acqua, signor Rokoff? – chiese il capitano.

– Mi pare che lo sia meno di prima, nondimeno mi sento gelare perfino il cuore.

– Accendete il fuoco, prima di tutto. Vedo che anche sull’altra riva i licheni e gli sterpi abbondano.

Il cosacco, dopo essere stato più volte trascinato via dalla corrente riuscì finalmente ad aggrapparsi alla sporgenza d’una rupe e ad issarsi sulla riva. Appena fuori dall’acqua fece raccolta d’erbe e le accese, mettendosi a saltare intorno alla fiamma per sgranchirsi le membra rattrappite da quel bagno più che gelido.

Avendo trovato anche alcune betulle nane, piantò a terra dei rami per asciugare meglio le vesti che si erano nuovamente bagnate, quantunque le avesse legate sulla testa.

– È proprio morto lo jack? – chiese il capitano, che era tornato presso il suo falò.

– Mi pare che respiri ancora – gridò Rokoff. – Gli dò il colpo di grazia prima che gli salti il ticchio d’alzarsi e di fare un altro bagno.

Si levò dalla cintura il bowie-knife e glielo immerse nel collo, facendo uscire un abbondante getto di sangue, poi tornò sollecitamente presso il fuoco, riprendendo i suoi salti.

Una mezz’ora dopo, indossate le vesti che erano asciutte e ben calde, si metteva al lavoro.

Strappò prima la lingua che gettò ai suoi compagni, poi si mise a scuoiare quel corpaccio, impresa tutt’altro che facile per lui ma che tuttavia, bene o male, condusse a termine, seguendo i consigli datigli dal capitano.

Levata una costola ed infilzatala in un ramo verde la mise ad arrostire, non sentendosi in grado, almeno in quel momento, di fare il terzo bagno per recarsi a far colazione col capitano e con Fedoro.

Mentre l’enorme braciola si cucinava, si mise a tagliare la pelle in strisce che subito annodava prima che seccassero, ottenendo una corda d’una trentina di metri, lunghezza sufficiente per tentare la discesa della cascata.

– Signor Rokoff! – gridò il capitano. – Possiamo offrirvi un pezzo di lingua?

– Preferisco la mia bistecca – rispose il cosacco, che stava già levandola dal fuoco.

– Fate una buona scorpacciata perché sarete costretto a ripassare ancora il torrente.

– Se potessi fare a meno del bagno sarei ben lieto, quantunque mi sia ormai un po’ abituato – rispose Rokoff a bocca piena. – Delizioso questo jack, capitano! Peccato dover lasciar qui tutta questa carne.

– Abbiamo l’altro lassù.

– Andatelo a prendere.

– Non ho alcun desiderio di lasciarlo tutto alle aquile.

– Volete ritornare sull’altipiano?

– Ci saremo costretti per rinnovare le nostre provviste. Torneremo col macchinista e col mio amico e anche con una bomba ad aria liquida per far saltare in aria gli jacks, se li troveremo ancora.

– Un’idea, capitano.

– Dite, signor Rokoff.

– Dove credete che metta questo torrentaccio o fiume che sia?

– Certamente in qualche bacino o laghetto. Non dobbiamo essere lontani dal Tustik-Dung e dal Lob-nor.

– Se gettassimo questo animale nella corrente?

– Per riprenderlo abbasso?

– Sì, capitano.

– La vostra idea non mi sembra cattiva, anzi. Gli è che da solo non potrete muovere una tale massa, quantunque siate d’una robustezza eccezionale.

– Passate il torrente e venite ad aiutarmi.

– Ah! Rokoff! – esclamò Fedoro. – Tu giochi d’astuzia per non fare il terzo bagno. Io però sono pronto a tentare la prova.

– Se non sai nuotare!

– Hai la corda.

– Che noi terremo tesa, signor Rokoff – disse il capitano. – In quanto a me, non ne avrò bisogno.

– No – disse il cosacco, con tono risoluto. – Esporre Fedoro ad un simile pericolo mai; d’altronde possiamo spingere egualmente lo jack nel torrente. La corda è solidissima e non si spezzerà! Ora vedrete.

Legò le due gambe anteriori dell’animale, esaminò tutti i nodi per accertarsi se erano bene stretti, poi gettò l’altro capo della corda ai compagni, dicendo:

– Tirate, mentre io spingo. Vi dico che riusciremo.

Doveva possedere una forza più che erculea quel cosacco perché spingendo ora da una parte ed ora dall’altra, riuscì a smuovere l’enorme massa la quale, trovandosi su un pendio ed a soli pochi passi dalla riva, in causa anche delle frequenti scosse del capitano e di Fedoro, finì per rotolare nel fiume.

Essendo trattenuta dalla corda, l’acqua la spinse verso la riva opposta, dove il capitano l’attendeva per tagliare alcuni pezzi di carne, prima d’abbandonare l’animale alla corrente.

Rokoff intanto era tornato a spogliarsi per intraprendere la sua terza traversata che compì non meno felicemente delle altre due.

L’aver appena fatto colazione, non aveva recato alcun disturbo a quell’ercole che sembrava fosse corazzato con lamine d’acciaio.

Lo jack intanto, abbandonato a se stesso, veniva travolto dalla corrente impetuosa.

Fu veduto girare un momento su se stesso presso la cascata, poi inabissarsi.

– Buon viaggio – disse Rokoff, che alimentava il fuoco.

– Mentre vi asciugate, io e Fedoro andremo a vedere da qual parte potremo scendere – disse il capitano. – Sono già le due e chissà quanta via dovremo percorrere prima di ritrovare lo “Sparviero”. I nostri compagni saranno un po’ inquieti per la nostra prolungata assenza.

Seguirono la riva del torrente portando con loro la corda e s’arrestarono all’estremità del burrone.

Le acque, chissà dopo quanti anni di continuo lavoro, si erano aperte un largo passaggio fra la parete rocciosa e si precipitavano nel sottostante abisso da un’altezza di oltre venticinque metri, con un rombo assordante, che l’eco delle rupi ripercuotevano ed ingrossavano.

Le due pareti erano quasi lisce, ma lasciavano ai due lati del torrente un po’ di spazio sufficiente a lasciar passare un uomo.

– Potremo scendere – disse il capitano. – Prenderemo una doccia gelata, ma bah! Penseremo poi a riscaldarci.

– Dove legheremo la corda? – chiese Rokoff.

– A quella roccia, che sembra sia stata collocata lì per servire a noi.

– Non cadremo in una nuova trappola?

– Vi è una gola nel burrone – rispose il capitano, il quale si era spinto fino sull’orlo della cascata. – Speriamo che non sia chiusa.

Alcuni passi più indietro vi era uno scoglio aguzzo che s’alzava in forma d’obelisco. Il capitano legò la corda, poi lanciò l’altra estremità parallelamente alla cascata.

– Ce n’è a sufficienza – disse. – A me l’onore di tentare pel primo la discesa.

Prima che Fedoro avesse potuto rispondere, l’intrepido comandante si era aggrappato alla corda, lasciandosi lentamente scivolare.

Ben presto si trovò avvolto in una nube di schiuma e di acqua polverizzata. Degli spruzzi, tratto tratto, gli piombavano addosso accecandolo e quasi soffocandolo, mentre il rombo della cascata lo assordava, pure resisteva tenacemente, tenendosi ben stretto alla corda.

Fedoro lo seguiva cogli sguardi, fremendo. Se un nodo si fosse sciolto, quale spaventevole caduta! Il capitano non si sarebbe certamente salvato, il fondo della cateratta essendo irto di rocce sottili come aghi.

A un tratto lo vide scomparire dietro l’angolo della parete, poi udì confusamente la sua voce.

– Deve aver toccato il fondo – disse Fedoro a Rokoff il quale si era rapidamente svestito.

– A te ora – disse il cosacco. – Io scenderò ultimo per tenerti la corda ben tesa. Bada di non lasciarti andare prima del tempo e di non cadere in acqua; nessuno potrebbe salvarti e la corrente ti fracasserebbe subito contro le rocce. Se soffri le vertigini, chiudi gli occhi.

– Sì, Rokoff – rispose il russo.

Strinse la corda con tutta la forza delle mani e si lasciò scivolare adagio adagio per non scorticarsi le palme e le dita. Quella discesa era veramente terribile, con quella cascata che precipitava a pochi passi, fra tutta quella spuma che gli impediva di vedere la rupe, quel fracasso rimbombante e quei getti d’acqua che lo inondavano, freddi come se fossero di ghiaccio liquido. Due o tre volte, intontito, mezzo soffocato, fu lì lì per perdere la sua energia e lasciarsi andare, non sentendosi più in grado di poter resistere a quella prova tremenda.

A un certo punto sentì due braccia robuste afferrarlo ed attirarlo verso la parete.

– Qui, mettete i piedi qui! – gli gridò una voce agli orecchi. – La discesa è finita.

Era il capitano che lo aspettava su una piccola piattaforma che si trovava a pochi metri dal fondo della cascata.

– Aggrappatevi a questi sterpi – disse il comandante dello “Sparviero” – Poco piacevole questa discesa, è vero, signor Fedoro?

– Stavo per lasciarmi cadere – rispose il russo, afferrandosi, coll’energia che infonde la disperazione, ad alcune radici che uscivano da un crepaccio della parete.

– Vi sareste sfracellato. E Rokoff?

– Sta per scendere.

– Aspettiamolo, poi andremo a visitare quella gola.

Il cosacco non si fece aspettare molto. Quel diavolo d’uomo non aveva provato alcuna vertigine, né un momento di debolezza. Pure non sembrava troppo contento.

– Per le steppe del Don! – esclamò, appena mise i piedi sulla piattaforma. – Quasi avrei preferito fare un altro salto nell’abisso. All’inferno gli jacks e anche le cascate! Possiamo almeno uscire?

– Ora lo sapremo – rispose il capitano.

Saltarono su un’altra piattaforma che si trovava un metro più sotto e scesero nel burrone che era molto più ampio del primo e del pari attraversato in tutta la sua lunghezza dal torrente, il quale si precipitava, con un altro salto, entro un bacino profondo che sboccava in una stretta valle.

– Vedete lo jack in qualche luogo? – chiese Rokoff.

– No – rispose il capitano. – La corrente l’ha portato via.

– In quale stato giungerà abbasso con tutte queste cascate? Lo troveremo a pezzi.

– Abbiamo l’altro sull’altipiano – rispose il capitano. – Ecco la gola!

Attraversato il burrone giunsero dinanzi ad uno stretto passaggio aperto fra due rupi enormi che s’alzavano fino al piccolo altipiano e così lisce da rendere impossibile una scalata.

Il capitano ed i suoi compagni si cacciarono nella gola che descriveva delle curve e dopo dieci minuti giungevano in una valletta la quale scendeva ripidissima fino al deserto.

– Urrà’. – gridò Rokoff. – Ecco laggiù lo “Sparviero”! Siamo salvi! Infatti, adagiata sulle sabbie, si scorgeva la macchina volante, colle sue immense ali distese. Una macchietta nera si muoveva sulla sabbia, ora accostandosi e ora allontanandosi dal fuso.

– Un nostro compagno che veglia – disse il capitano. – Scendiamo amici.

– E il torrente? – chiese Fedoro.

– L’odo rumoreggiare sulla nostra destra.

– Andremo a cercarlo poi?

– Sì, signor Fedoro; preme anche a me lo jack.

Si misero a scendere la valletta, fermandosi di quando in quando per tema di fare un altro incontro con quei formidabili animali, incontro che avrebbe potuto avere gravi conseguenze, non avendo più le carabine che erano rimaste in fondo al torrente.

Alle sei di sera toccavano le sabbie del deserto. Stavano per dirigersi verso lo “Sparviero”, quando Rokoff segnalò uno stormo di grossi uccelli che s’alzava e s’abbassava dietro un ammasso di rocce.

– Capitano – disse. – Non sono avvoltoi quei volatili?

– Si – rispose l’interrogato, dopo averli osservati qualche istante. – Ci deve essere qualche carogna per averli attirati in così grosso numero.

– Che sia il nostro jack?

– Pensavo anch’io in questo momento a quell’animale. Forse il torrente o fiume che sia, scorre dietro a quelle rupi.

– E lo abbandoneremo a quegli ingordi uccellarci?

– No, l’abbiamo cacciato noi e l’avremo. Signor Fedoro, recatevi allo “Sparviero” e dite al macchinista di venire a raggiungerci. Non è che ad un miglio da noi.

Mentre il russo si allontanava, il capitano ed il cosacco girarono intorno a quell’ammasso di rupi, che formavano l’ultimo sperone della piccola catena. Il torrente, diventato un largo fiume, scorreva dietro di esse, dirigendosi verso l’est.-Era un affluente del Darja, oppure andava ad alimentare il lago di Tuslik-dung o quello più ampio del Lob-nor?

Le sue acque avevano cominciato a fertilizzare le aride terre del deserto. Sulle due sponde si vedevano numerose betulle nane e fitti cespugli.

– Ecco là gli avvoltoi – disse Rokoff. – Saccheggiano la nostra selvaggina; vedete che s’innalzano portandosi via dei pezzi di carne sanguinante? I bricconi!

Affrettarono il passo e giunsero sulla riva. Non si erano ingannati.

Lo jack si era arenato su un banco di sabbia e una quarantina di brutti avvoltoi, col collo spellato e rognoso, le penne oscure ed arruffate, stavano dilaniandolo con ingordigia feroce; ci vollero molte sassate prima di deciderli ad abbandonare l’enorme preda che avevano già intaccata in più parti, aprendo dei buchi considerevoli.

Vi era però ancora tanta carne, da assicurare i viveri per un mese intero ai cinque aeronauti.

Nelle continue cadute l’animale era stato ridotto in deplorevoli condizioni. Gambe e costole erano state fracassate e la carne in più luoghi sbrindellata.

– Sarà più frolla – disse Rokoff.

Lo “Sparviero” giungeva volando a pochi metri dal suolo. Si posò a cinquanta passi dalla riva ed il macchinista, e l’uomo silenzioso scesero armati di scuri.

Due ore dopo lo jack, ridotto a pezzi, gelava nella ghiacciaia dello “Sparviero”.

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