Un supplizio spaventevole

Mentre Fedoro e Rokoff venivano scaraventati nel lago dalla scarica elettrica che aveva colpito la prora del fuso e si salvarono miracolosamente dinanzi alla scogliera del monastero, lo “Sparviero”, impotente ormai a resistere ai formidabili soffi dell’uragano, veniva trascinato in una corsa vertiginosa verso il settentrione.

Il capitano, che era stato solamente atterrato dal fulmine, senza riportare male alcuno, eccettuato un breve stordimento, non vedendo più i due amici, aveva subito dato ordine di arrestare la macchina, sperando di calare sul lago e di poterli ancora raccogliere, ma i piani inclinati, sorretti dalle raffiche, avevano mantenuto all’altezza primiera il fuso, il quale si era rituffato fra i vapori delle immense nuvole turbinanti sulle acque del Tengri-Nor.

Per parecchi minuti lo “Sparviero”, in piena balìa dei venti, aveva girato su se stesso, preso da qualche nuova tromba, ora innalzandosi e ora abbassandosi, ora immerso in una oscurità profondissima e ora nuotante fra un mare di luce, poi una nuova corrente l’aveva ripreso, trascinandolo verso il nord con una velocità di sessanta o settanta miglia all’ora e che né le ali né le eliche potevano moderare.

Per tre lunghe e angosciose ore la macchina volante aveva continuato la corsa, mantenendosi sempre a un’altezza considerevole, passando sopra montagne e abissi, finché, cessata la furia del vento, era discesa sulle rive d’un nuovo lago, che non doveva essere più il Tengri-Nor. Era però uscita da quel tremendo uragano in condizioni disastrose. Le ali avevano resistito meravigliosamente, ma le eliche erano state portate via, parte della stoffa che copriva i piani inclinati era stata lacerata e il fulmine che era piombato sul fuso aveva guastato alcune lamiere della macchina e distrutto parte del timone. Non erano danni irreparabili perché il capitano, da uomo previdente, aveva altre eliche, un timone di ricambio, qualche pezza di seta ancora e buon numero di lamiere, però quelle riparazioni dovevano richiedere un certo tempo.

Appena toccata terra, il primo pensiero del capitano era stato per Fedoro e Rokoff. Che cosa era accaduto di loro? Erano caduti nel lago dopo essere stati fulminati o erano riusciti a salvarsi e a raggiungere quel monastero ch’egli aveva pure veduto nel momento in cui il cosacco glielo aveva additato? Ecco le domande che si era rivolte il capitano, con profonda angoscia.

– Non li avete veduti rimontare a galla? – aveva subito domandato ai suoi compagni.

– Io ne ho veduto uno – aveva risposto il macchinista.

– Chi?

– Il signor Rokoff.

– Sei certo di non esserti ingannato?

– No, capitano. Il signor Rokoff era vivo e per alcuni istanti l’ho veduto nuotare verso la spiaggia.

– Su quella dove sorgeva quel monastero?

– Sì, signore.

– E Fedoro?

– Mi è stato impossibile scoprirlo.

– E tu? – chiese il capitano, rivolgendosi allo sconosciuto che rimaneva, come sempre, silenzioso.

– Ero rimasto abbacinato da quel lampo accecante senza poter scorgere più nulla.

– Che si siano salvati?

Lo sconosciuto crollò il capo, senza rispondere.

– Che cosa faresti tu? – chiese il capitano.

– Al tuo posto tornerei verso il lago.

– A cercarli presso quel monastero?

Lo sconosciuto fece un cenno affermativo.

– Lo farò – rispose il capitano. – Non lascerò il Tengri-Nor se prima non avrò acquistato la certezza se sono vivi o se sono periti fra le onde. Macchinista, quante ore ti occorrono per riparare la macchina?

– Sei ore per lo meno, signore.

– Noi intanto rimonteremo le eliche di ricambio e accomoderemo alla meglio la stoffa dei piani inclinati.

Si erano messi subito febbrilmente al lavoro, ansiosi di tornare sul Tengri-Nor per ritrovare il russo e il cosacco.

Il capitano non era però molto tranquillo sulla sorte toccata ai due disgraziati. Non dubitava che Rokoff, forte come era e valente nuotatore, fosse riuscito a toccare la spiaggia e quindi chiedere ospitalità al monastero; era inquieto per Fedoro che non sapeva nuotare e che non possedeva la robustezza eccezionale del compagno. Nondimeno in fondo non disperava di poterlo ritrovare ancora vivo, essendo caduto quasi contemporaneamente al cosacco.

– Chissà… – mormorava, pur lavorando assieme allo sconosciuto. – Forse Rokoff lo ha veduto cadere e lo ha portato alla riva. So dove si trova quel monastero e andrò a chiederne conto a coloro che lo abitano. Se li hanno uccisi, farò cadere tante bombe ad aria liquida da non lasciare pietra su pietra.

Dopo sette ore lo “Sparviero” era pronto. Il macchinista aveva rinnovato le lastre fuse dal fulmine e il capitano e il suo misterioso e taciturno compagno avevano riparato i danni sofferti dai piani, ricollocato a posto un nuovo timone e anche le eliche, ma la bufera non si era affatto calmata, anzi era aumentata e il vento soffiava più forte che mai dal sud. Era impossibile voler affrontare quelle raffiche che minacciavano di contorcere le ali o produrre nuovi e forse più gravi guasti.

Il capitano, a malincuore, si vide costretto ad attendere che tutto quel diavolìo si calmasse.

Per quaranta ore l’uragano imperversò con furia indicibile, scuotendo il fuso e facendolo persino talvolta scorrere sul suolo, poi a poco a poco cominciò a scemare di violenza, la grande corrente d’aria gelata si spezzò, prendendo altre direzioni.

Era il momento d’innalzarsi e di far ritorno al Tengri-Nor.

L’uragano li aveva spinti a oltre cento miglia dal lago santo, verso il Duka-Nor, un bacino di estensione considerevole che si trova in mezzo all’altipiano di Nagtshucha e disabitato, distanza che lo “Sparviero”, anche con vento non favorevole, poteva superare in meno di tre ore, salvo incidente.

La macchina volante, che ora funzionava perfettamente, s’alzò senza difficoltà, raggiungendo i cinquecento metri per poter superare le catene rocciose che si estendevano in tutte le direzioni, formando un caos di picchi e prese la corsa verso il sud, in direzione di Iadoro Gorupa.

Due ore dopo si librava sul piccolo lago di Bul-tscho o del borace e un’ora più tardi passava, con velocità fulminea, sulla piccola borgata di Jador, senza nemmeno farsi notare dagli abitanti.

Il Tengri-Nor non era che a poche centinaia di metri.

Il capitano che si rammentava, quantunque un po’ vagamente, dove si trovava quel monastero, diresse lo “Sparviero” verso la sponda occidentale, seguendone le sinuosità.

Alcuni miseri villaggi apparivano come incrostati alle falde delle nevose montagne e qualche banda di cavalieri tibetani che guidava degli jacks domestici, carichi di mercanzie, si vedeva delinearsi sui sentieri che conducevano nell’interno della regione. Sul lago invece nessuna barca, forse in causa delle furiose ondate che ancora lo percorrevano e che si sfasciavano con furore contro le rocce delle rive.

Lo “Sparviero” aveva percorso una trentina di miglia, quando il capitano, che si era collocato a prora, scorse, piantata su una rupe, una massiccia costruzione che rassomigliava perfettamente a quella che gli aveva indicato Rokoff pochi momenti prima che la folgore scendesse sul fuso.

Alcuni monaci che si trovavano dinanzi alla spianata che si prolungava verso il lago, avevano già scorto lo “Sparviero” e si erano gettati in ginocchio, alzando le mani verso gli aeronauti e mandando acute grida.

Dal monastero accorrevano altri monaci e tutti si lasciavano cadere in ginocchio; mentre sulle terrazze echeggiavano strepitosamente gong e tam-tam.

– Signore – disse il macchinista al capitano. – È quello il convento; mi ricordo di aver veduto quelle torri cinesi.

– Anche a me sembra che sia lo stesso – rispose il comandante. – Puoi far scendere lo “Sparviero” su quella piattaforma?

– Sì, signore.

Le ali avevano cessato di funzionare e l’elica prodiera girava in senso opposto per arrestare lo slancio del fuso. Sorretto solamente dai piani, cominciò a scendere lentamente, adagiandosi proprio dinanzi al monastero.

Un vecchio Lama, riconoscibile per la sua tonaca gialla, usciva in quel momento accompagnato da altri monaci.

Vedendo il capitano scendere dal fuso, gli si era avvicinato dicendogli:

– Finalmente! Sono due giorni che vi attendevo!

Udendo quelle parole, pronunciate in lingua cinese, il capitano non aveva potuto trattenere un gesto di stupore.

– Voi mi aspettavate! – esclamò. – Chi vi ha detto che io sarei venuto qui?

– I due figli di Buddha caduti nel lago e che io avevo ospitato nel mio monastero. Voi siete il loro fratello, è vero?

– Sì… e li avete raccolti vivi? – chiese il capitano, con accento di gioia.

– Erano approdati qui, sotto la rupe.

– Conducetemi subito da loro, presto.

– Ahimè! – gemette il Lama. – Non sono più nel mio monastero. Il Bogdo-Lama di Dorkia me li ha portati via e non ho avuto il coraggio di resistere ai suoi ordini. Oh! Ma anch’io avrò un figlio di Buddha perché li surrogherete, anzi ne avrò tre e non li cederò, dovessi barricare le porte del mio monastero.

– Sì, noi rimarremo qui tutti – disse il capitano, che aveva ormai compreso che i suoi amici erano stati creduti per esseri divini. – Prima però devo comunicare ai miei fratelli degli ordini datimi dal dio che impera nel nirvana.

– Volete recarvi al monastero di Dorkia?

– È necessario.

– Il Bogdo-Lama terrà anche voi prigionieri e non vi lascerà più.

– Sono prigionieri i miei fratelli?

– Sì, e guardati da centinaia e centinaia di monaci.

Il capitano corrugò la fronte.

– È potente il Bogdo-Lama di Dorkia? – chiese.

– Comanda a tutta la regione, e se vuole può radunare parecchie migliaia di montanari.

– Credete voi che non lascerà in libertà i miei fratelli, se io andassi a reclamarli?

– No, perché ormai su tutte le rive del lago si è sparsa la voce che due figli dell’Illuminato sono scesi dal cielo e se il Bogdo-Lama dovesse lasciarli in libertà perderebbe gran parte della sua celebrità. Sono certo che egli farà di loro, due Buddha viventi.

– La vedremo – disse il capitano che aveva compreso persino troppo. – Quando avrò liberato i miei fratelli tornerò.

– Volete andarvene?

– Devo obbedire a mio padre.

– Io ve lo impedirò – disse il monaco, con voce risoluta. – Ho perduto gli altri; tratterrò voi non volendo essere da meno del Bogdo-Lama.

– Provatevi – rispose semplicemente il capitano, balzando sopra la balaustrata e facendo un segno al macchinista.

Il Lama si era rivolto verso i suoi monaci, gridando:

– Fermate i figli di Buddha!

Nessuno invece si era mosso. Un terrore superstizioso li aveva inchiodati al suolo, vedendo lo “Sparviero”, che per loro doveva essere qualche aquila terribile, agitare le sue immense ali.

– Che Buddha vi maledica! – gridò il Lama, furioso. – Voi non siete suoi figli! Siete degli stranieri.

Il capitano non si era nemmeno preso la briga di rispondere. Che cosa gl’importava che quel monaco si fosse accorto che era un uomo di razza bianca, e che non aveva mai avuto a che fare con Buddha! A lui bastava di aver saputo dove si trovavano il russo e il cosacco.

Lo “Sparviero”, con una rapida volata, aveva raggiunto i quattrocento metri e filava a tutta velocità sul lago, dirigendosi verso il sud.

Nondimeno il capitano non era interamente soddisfatto delle buone nuove avute. Come strappare ora i suoi due amici al potente Bogdo-Lama che li teneva prigionieri nel suo monastero? Era quello che si domandava senza trovare una risposta.

Sapeva dove si trovava quel convento, perché la sua carta lo segnava, ma non bastava. Bisognava trovare il modo di liberare i due Buddha viventi fra parecchie centinaia di monaci e forse sotto gli occhi di migliaia di pellegrini e probabilmente armati, non avendo i tibetani l’abitudine di deporre i loro moschettoni e i loro coltellacci nemmeno quando entrano nei templi a pregare.

Era bensì vero però che poteva disporre di mezzi potenti, quali le sue tremende bombe ad aria liquida, più che sufficienti per smantellare anche una fortezza, ma lanciandole senza sapere dove si trovavano rinchiusi Rokoff e Fedoro, li esponeva al pericolo di saltare assieme ai monaci.

– Che cosa farai? – gli aveva chiesto lo sconosciuto, quando lo “Sparviero” ebbe perduto di vista il monastero.

– È ciò che stavo domandandomi – aveva risposto il capitano.

– Bombarderai il convento?

– Potrei uccidere anche loro.

– Che quei monaci non fuggano, vedendo il tuo “Sparviero”?

– Ne dubito.

– Spaventali con qualche bomba.

– Pensavo precisamente a questo. Intanto prepariamone alcune; poi vedremo cosa si potrà fare.

Il capitano, non volendo farsi scorgere dai rivieraschi onde giungere improvvisamente sul monastero per produrre maggior effetto, aveva dato ordine al macchinista di tenersi lontano dalle sponde.

Lo “Sparviero” s’avanzava velocissimo quantunque il vento non fosse interamente cessato. Su quelle regioni è rarissimo che non si faccia sentire in causa delle immense montagne e del numero infinito di gole che hanno diverse direzioni.

Era quasi mezzogiorno, quando il capitano che si era collocato a prora, munito d’un cannocchiale, scoperse all’estremità d’una penisoletta, un grosso ammasso di costruzioni, sormontato da alcune cupole che il sole faceva scintillare vivamente come se fossero d’oro.

– È Dorkia – disse allo sconosciuto che lo interrogava. – Mi hanno detto che solo quel monastero ha cupole dorate, quindi non possiamo ingannarci.

– Sono pronte le bombe?

– Ne ho preparate cinque.

– Basteranno per distruggere Dorkia e anche i villaggi vicini.

– Macchinista, innalziamoci a cinquecento metri, onde tenerci fuori di portata dalle armi da fuoco.

– Temi che ci facciano cattiva accoglienza? – chiese lo sconosciuto.

– Che cosa vuoi? Non sono tranquillo.

– Se i tuoi amici si sono fatti credere figli del cielo o di Buddha i monaci dovrebbero riceverci con grandi onori.

– E se si fossero accorti che erano invece due stranieri? Tu hai veduto se il Lama di quel convento si è ingannato sul nostro vero essere.

– Uccidono gli stranieri qui?

– E fra i più atroci tormenti, se non godono alte protezioni – rispose il capitano. – Porta in coperta anche dei fucili e teniamoci pronti a tutto.

Riprese il cannocchiale puntandolo verso il monastero, che non si trovava allora che a sei o sette miglia di distanza. A un tratto fece un gesto di stupore.

– Il Lama mi ha parlato di pellegrini accorsi a Dorkia da tutte le parti del lago, eppure io non vedo nessuno sulla penisola, né sulle terrazze! Il monastero pare deserto: che cos’è avvenuto?

– Che abbiano condotto via i tuoi amici? – chiese lo sconosciuto, che era tornato allora sul ponte portando parecchi fucili.

– E dove?

– Se il Dalai-Lama di Lhassa, informato della discesa dal cielo di due figli di Buddha li avesse reclamati?

– In tal caso – disse – sarebbero perduti. Chi oserebbe andarli a strappare a quel possente pontefice? Lhassa ha migliaia e migliaia d’abitanti, ha truppe cinesi e anche bastioni armati d’artiglierie. Ma no, è impossibile che in così breve tempo abbiano potuto condurli sino a quella città attraverso strade quasi impraticabili. Li raggiungeremo ancora in viaggio e daremo battaglia alla scorta. Andiamo ad assicurarci se sono stati condotti via.

Guardò nuovamente, con maggior attenzione.

– Eppure non vi è anima viva, né sulla penisola, né sulle rive vicine – disse. – Il monastero è deserto. Macchinista, aumenta la velocità più che puoi.

Lo “Sparviero” precipitava la corsa. Con una volata fulminea superò la distanza e si librò sopra i tetti e le cupole del monastero, descrivendo un largo giro intorno a quell’ammasso di fabbricati.

Cosa strana! Il più profondo silenzio regnava dappertutto e non si vedeva alcuno né alle finestre, né sulle terrazze, né sui poggioli delle torri, né sul piazzale.

– Che siano fuggiti tutti? – si chiese il capitano, le cui apprensioni aumentavano di momento in momento. – È impossibile che un monastero così famoso, abitato da centinaia di monaci, sia stato da un istante all’altro abbandonato.

– Che stiano pregando in quel tempio gigantesco? – chiese lo sconosciuto.

– E i pellegrini?

– Saranno tornati ai loro villaggi.

– Non ne sono convinto, ma lo sapremo subito.

Il capitano fece abbassare lo “Sparviero” dinanzi al piazzale, strappò la coperta di tela cerata che riparava la mitragliatrice e scaricò tutte le canne. Le detonazioni si ripercossero rumorosamente fra i fabbricati, ma nessun monaco comparve.

– Se ve ne fosse qualcuno, si sarebbe mostrato – disse il capitano.

– Come spieghi questa fuga? – chiese lo sconosciuto. – Che ci abbiano veduto giungere e che temendo che noi volessimo rapire i due prigionieri si siano rifugiati in qualche luogo?

– Col mio cannocchiale li avrei veduti.

– Ho scorto un villaggio entro terra.

– L’ho osservato anch’io.

– Andiamo a domandare a quegli abitanti dove sono andati i monaci.

– Sì, ed a spiegare questa inesplicabile scomparsa di tanta gente – rispose il capitano.

A un suo cenno il macchinista fece dopo aver descritto un altro giro intorno una roccia enorme, sulla quale sorgeva un piccolo gruppo di capannucce pietra e di fango seccato.

In dieci minuti lo “Sparviero” raggiunse il villaggio, ma anche quello sembrava disabitato. Nessun montanaro si vedeva aggirarsi attorno alle capanne, né nei campicelli dissodati chissà con quali fatiche, su quell’altura.

– Ciò è inesplicabile! – esclamò il capitano, nel momento in cui lo “Sparviero” toccava il suolo. – Che qui sia scoppiata la guerra o che delle bande di briganti devastino le rive del lago, fugando tutti gli abitanti?

– Signore… là… un uomo che fugge! – esclamò in quel momento il macchinista.

Il capitano, con una rapida mossa, aveva afferrato un fucile e si era slanciato fra le capanne, seguito dallo sconosciuto.

Un uomo vestito di pelli, cercava di celarsi in mezzo ad alcune betulle, che crescevano dietro al villaggio.

Il capitano in pochi salti lo raggiunse, afferrandolo pel collo.

Il montanaro, un vecchio che zoppicava, non aveva osato opporre resistenza, anzi si era lasciato cadere in ginocchio, tendendo le mani con gesto supplichevole e balbettando alcune parole incomprensibili.

– Conosci la lingua cinese? – chiese il capitano con voce minacciosa.

– Sì, signore, la comprendo – rispose lo zoppo. – Non fatemi mangiare dalla vostra aquila; sono un vecchio che non ha mai fatto male ad alcuno.

– Se ti è cara la vita, rispondimi.

– Parlate – disse il vecchio, con voce tremante.

– Perché sono fuggiti i monaci di Dorkia?

– Non sono fuggiti, signore.

– Dove sono andati?

– Il vecchio additò un’alta montagna che giganteggiava verso il sud-ovest.

– Lassù – disse.

– A cosa fare?

– Non so… vi erano due uomini bianchi come voi… che si dicevano figli di Buddha…

– Avanti.

– Ignoro che cosa sia successo… so però che dopo essere stati adorati, sono stati condannati…

– A morte? – chiese il capitano, impallidendo.

– A essere mangiati vivi dalle aquile.

– Dove?

– Sulla cima di quella montagna.

– Quando sono stati condotti lassù?

– Stamane.

– Dai monaci?

– E da migliaia di pellegrini – rispose il tibetano.

– Ah! Canaglie! Me la pagheranno! – gridò il capitano. – Che siano già giunti sulla cima?

– La via è lunga… lo ignoro.

– Giurami che hai detto la verità.

– Sul grande Buddha.

– Partiamo senza perdere un istante – disse il capitano. – Forse giungeremo in tempo per salvarli.

Si era lanciato verso lo “Sparviero”, seguito dallo sconosciuto.

Un momento dopo la macchina s’innalzava volando verso la montagna segnata dal tibetano, la quale sorgeva a circa mezza dozzina di miglia verso l’ovest.

Era una piramide enorme, che doveva toccare i tremila metri e che sorgeva isolata fra un gruppo di monti minori. Tutti i suoi fianchi erano coperti di neve; solamente alla base si vedeva un po’ di vegetazione, dei gruppi di pini e di abeti.

Lo “Sparviero” si elevava rapidamente, battendo poderosamente e precipitosamente le ali per raggiungere quell’altezza considerevole. Anche le eliche orizzontali turbinavano vertiginosamente, imprimendo al fuso un fremito sonoro.

L’aria diventava di momento in momento più rarefatta, rendendo la respirazione degli aeronauti assai penosa. Si trattava di raggiungere i settemilanovecento e forse gli ottomila metri d’elevazione, trovandosi già il lago a quattromilaseicentotrenta sul livello del mare. Solamente i tibetani, abituati a quell’atmosfera, potevano resistere senza provare alcun disturbo.

Perfino il capitano si sentiva ronzare gli orecchi e girare il capo come se fosse ubriaco. Lo sconosciuto poi si era lasciato cadere su una cassa tenendosi la testa stretta fra le mani e respirando affannosamente.

Raggiunti i settemila metri, lo “Sparviero” prese la corsa verso l’enorme montagna, provocando una fortissima corrente d’aria. Ora il freddo era così intenso a quell’altezza, che le balaustrate di metallo si erano coperte quasi istantaneamente di ghiaccioli e che l’alito degli aeronauti, appena uscito dalle loro labbra, si convertiva in nevischio.

Il capitano, dopo essersi avvolto in coperte di lana di molto spessore, si era messo in osservazione a prora, tenendo il cannocchiale puntato sulla vetta della piramide.

Quantunque la distanza fosse ancora notevole, gli pareva d’aver veduto due punti oscuri ergersi sulla cima, fra il candidissimo strato nevoso.

– Che siano Rokoff e Fedoro? – si era chiesto. – Se giungessimo troppo tardi? Macchinista, aumenta ancora, fino a far scoppiare la macchina!

I due punti neri diventavano più distinti. Sembravano due esseri umani appesi a un palo o a una croce sormontata da alcuni stracci svolazzanti al vento. Dei punti più piccoli, che non si potevano ancora discernere, volteggiavano intorno, ora alzandosi e ora abbassandosi. Che cos’erano? Aquile forse, pronte a precipitarsi sulla preda a loro offerta dal miserabile Bogdo-Lama di Dorkia? Il capitano lo supponeva.

– I fucili da caccia! – gridò. – Preparate i fucili da caccia e innalziamoci ancora!… Rokoff e Fedoro sono lassù!

Lo sconosciuto, strappato dal suo torpore da quei comandi, con uno sforzo supremo si era alzato, barcollando come un ebbro.

– Perché i fucili?- chiese. – E le bombe?

– Le aquile! Le aquile! Stanno per dilaniarli! – gridò il capitano. – Guardate! Ah! I miserabili!

Lo “Sparviero”” aveva raggiunto la piramide, ma si trovava ancora troppo basso per raggiungere il vertice. Interruppe bruscamente la sua marcia orizzontale e ricominciò ad elevarsi, inclinandosi verso poppa per avere maggior slancio.

Sulla cima della piramide, proprio sulla vetta, si vedevano Fedoro e Rokoff a dibattersi disperatamente e si udivano a urlare colla speranza di spaventare le aquile che giravano intorno a loro, pronte a dilaniarli coi robusti rostri e coi poderosi artigli.

I due disgraziati, che indossavano ancora le tonache dei monaci, erano legati a una specie di croce, l’uno accanto all’altro, sormontati da una bandiera di feltro bianco, su cui si vedevano dipinte delle lettere. Quindici o venti aquile volteggiavano ora sopra e ora intorno a loro mandando acute grida, sfiorandoli colle loro poderose ali per stordirli prima di cominciare a farli a pezzi vivi.

Entrambi si dibattevano disperatamente, cercando di far cadere la croce, ma erano legati così solidamente da non poter liberare né le mani né i piedi. Già un’aquila, più ardita delle altre, si era posata sulla cima della croce, pronta a spaccare il cranio del cosacco, che si trovava più vicino, quando comparve lo “Sparviero”, il quale aveva finalmente superato l’orlo della piramide tronca.

Contemporaneamente rimbombarono due spari e il vorace volatile, colpito in pieno, capitombolava al suolo.

Due grida era sfuggite ai disgraziati, che già credevano di sentirsi dilaniare, due grida di gioia suprema:

– Lo “Sparviero”! Il capitano!

Poi seguirono una serie di detonazioni: era la mitragliatrice che tempestava le altre aquile, fracassando le loro ali o fulminandole sul colpo.

Lo “Sparviero” si era adagiato sulla cima della montagna e il capitano e lo sconosciuto, quantunque storditi, si erano slanciati a terra.

– Rokoff! Fedoro! – gridò il comandante, mentre il macchinista continuava a far tuonare la mitragliatrice per fugare i volatili sopravvissuti alla prima scarica e che non volevano decidersi ad abbandonare le prede.

– Per le steppe del Don e anche dell’inferno! – urlò Rokoff. – Liberateci, signore! Le canaglie! I miserabili! Andiamo a sterminarli tutti! Urrà per lo “Sparviero”!

Il capitano, che aveva portato un coltello, s’arrampicò sulla croce e liberò entrambi dalle corde che li avvincevano.

Fedoro, assiderato, istupidito, mezzo asfissiato, si era subito abbandonato fra le braccia dello sconosciuto, borbottando con voce appena intelligibile:

– Grazie…

Aveva il sangue al naso e anche agli orecchi in causa dell’estrema rarefazione dell’aria. Lo si dovette portare sullo “Sparviero”, perché non si reggeva più.

Rokoff invece, appena liberato, si era messo a correre verso l’estremità opposta del piccolo altipiano, coi pugni chiusi, gli occhi scintillanti d’ira.

– Signor Rokoff! – gridò il capitano. – Dove correte? Siete impazzito? Il cosacco pareva che non lo udisse nemmeno e che non provasse lo stordimento che s’impadroniva sempre più dei suoi compagni.

Quando giunse sul margine estremo, un urlo selvaggio gli sfuggì.

– Eccoli! Cane d’un lama, avrò la tua pelle!

Il capitano lo aveva raggiunto.

– Venite… lo “Sparviero” ci attende… è pericoloso fermarci quassù… la rarefazione…

– Guardateli! – gridò Rokoff, furioso. – Scendono la montagna.

– Ma chi?

– I buddisti… i monaci… gli assassini…

Il capitano guardò abbasso. Sotto di lui, sei o settecento metri più giù, una lunga fila di persone, composta di monaci e di montanari, scendeva i fianchi della montagna, fermandosi di quando in quando per guardare verso la cima. Erano almeno tre o quattromila persone e buona parte di esse armate di moschettoni e di lance.

– Eccoli quelli che volevano fare delle nostre ossa delle pillole da dare da mangiare ai cani – disse Rokoff.

– Lasciate che vadano ad appiccarsi altrove – rispose il capitano.

– Promettetemi di passarvi sopra.

– Sì, ma fuori di portata dei loro fucili.

– Andiamo allo “Sparviero”.

Ripresero la corsa e raggiunsero il fuso, dove il macchinista stava facendo sorseggiare a Fedoro un bicchiere di vecchio ginepro, per rimetterlo un po’ dalle emozioni provate e per riscaldarlo.

– Partiamo! – disse il capitano. – Non è prudente fermarsi troppo a simili altezze.

Si erano imbarcati tutti.

Lo “Sparviero” attraversò il piccolo altipiano e scese il versante opposto, dirigendosi là dove i pellegrini e i monaci calavano.

Questi si erano subito accorti della presenza di quel mostruoso uccello che piombava dalle cime del nevoso colosso con rapidità fulminea, come se volesse schiacciarli.

Un immenso urlo di terrore si era alzato fra quelle centinaia e centinaia d’uomini, ripercuotendosi lungamente nelle vallate, poi era subentrato un profondo silenzio. Pareva che tutti, monaci e pellegrini, fossero impietriti dallo spavento. Alcuni si erano lasciati cadere al suolo, nascondendosi il viso fra le cappe villose dei loro mantelloni.

Rokoff si era curvato sulla prora del fuso, per farsi meglio vedere e agitava le braccia come se scagliasse sui suoi assassini delle maledizioni. D’un tratto si slanciò verso la macchina, afferrò una cassa di zinco ripiena d’acqua e la precipitò in mezzo alla folla terrorizzata, urlando:

– Prendete! Ecco il saluto dei Buddha viventi!

Quante persone avesse accoppate o storpiate, non lo poté sapere perché già lo “Sparviero” era lontano, volando in direzione del Tengri-Nor.

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