Lo strangolatore (prima parte)

Erano trascorsi venti giorni. Tremal-Naik, mercé la sua robusta costituzione e le assidue cure dei suoi compagni, guariva rapidamente.
La ferita si era ormai richiusa e poteva alzarsi.
Però, mentre riacquistava le forze, l’indiano diventava ognor più cupo ed inquieto. I suoi compagni lo sorprendevano talvolta colla faccia nascosta fra le mani e le gote umide, come se avesse pianto. Non parlava che rade volte, non confessava a chicchessia il terribile dolore che struggevalo e talvolta veniva assalito da improvvisi accessi di rabbia, durante i quali si lacerava le carni colle unghie e tentava di gettarsi dall’amaca gridando:
– Ada!… Ada!…
Kammamuri ed Aghur indarno si sforzavano di farlo parlare; indarno cercavano la causa di quelle sfuriate che minacciavano di riaprire la non ancora cicatrizzata ferita e si chiedevano chi mai poteva essere colei che portava quel nome che egli pronunciava e nei suoi deliri e nei suoi sonni, quel nome che era il suo incubo, il suo tormento.
Manciadi il bengalese, qualche volta si associava a loro per venire a capo di qualche cosa, ma ciò accadeva assai di rado. Quest’uomo pareva anzi che sfuggisse la presenza del ferito, quasiché avesse da temere qualche cosa.
Non entrava nella di lui stanza se non quando lo vedeva dormire, ma quasi con ripugnanza. Amava meglio percorrere la jungla in cerca di selvaggina, di raccogliere legna e di attingere acqua. Strana cosa:
ogni qual volta udiva il padrone invocare Ada, egli veniva assalito da un tremore straordinario e la sua faccia, di solito tranquilla, d’un subito s’alterava cangiando persino di colore.. Altro particolare misterioso è, che di mano in mano che Tremal-Naik migliorava, anziché gioire, diventava tetro e d’umore nero.
Si avrebbe detto che a quell’uomo spiaceva che il padrone guarisse.
Perché? Nessuno avrebbe potuto dirlo.
Il mattino del ventunesimo giorno, nella capanna accadde un avvenimento che doveva avere funeste conseguenze.
Kammamuri s’era alzato al primo raggio di sole. Visto che Tremal-Naik dormiva d’un sonno tranquillo, si diresse verso la porta per svegliare Manciadi che riposava al di fuori, sotto una piccola tettoia di canne di bambù. Levò la spranga e spinse l’uscio ma con sua grande sorpresa questo non s’aprì: e’era al di fuori qualche cosa che gli faceva intoppo.- Manciadi!- gridò il maharatto.
Nessuno rispose alla chiamata.. Nella mente del maharatto balenò il sospetto che al poveretto fosse toccata qualche disgrazia, che i nemici lo avessero strangolato o che le tigri della jungla l’avessero sbranato.
Accostò un occhio alla fessura della porta e s’accorse che l’oggetto che le impediva d’aprirsi era un corpo umano. Guardando con maggiore attenzione, riconobbe in lui il bengalese Manciadi.
– Oh!… – esclamò egli con orrore. Aghur!
L’indiano fu lesto ad accorrere alla chiamata del compagno.
– Aghur, – disse il maharatto, sgomentato. – Hai udito nulla questa notte?
– Assolutamente nulla.
– Nemmeno un gemito?
– No, perché?
– Hanno ucciso Manciadi!
– E’ impossibile! – esclamò Aghur.
– E’ qui disteso dinanzi alla porta.
– Darma non ha dato alcun segnale e nemmeno Punthy.
– Eppure dev’esser morto. Non risponde, né si muove.
– Bisogna uscire: spingi forte.
Il maharatto appoggiò una spalla alla porta e fece forza respingendo Manciadi. Ottenuto un varco, i due indiani si slanciarono all’aperto.
Il povero bengalese era coricato bocconi e pareva morto, quantunque non si vedesse sul suo corpo ferita alcuna.. Kammamuri gli accostò una mano sul petto e sentì che il cuore ancora batteva.
– E’ svenuto, – diss’egli.
Strappò una penna ad un “punya” che trovavasi lì vicino, vi diede fuoco e l’accostò alle nari dello svenuto. Tosto un sospiro sollevò il petto, poi le braccia e le gambe si mossero e infine s’aprirono gli occhi che si fissarono con smarrimento sui due indiani.
– Cosa ti è accaduto – gli chiese premurosamente Kammamuri.
– Siete voi! – esclamò affannosamente il bengalese. – Ah!… che paura!… Credevo di essere stato ammazzato sul colpo!
– Ma cos’hai veduto? Chi ccercò d’ammazzarti? Degli uomini forse?
– Uomini?… Chi parla d’uomini?
– Di’ su.
– Ma non sono stati uomini, – disse il bengalese.
– Sì, sì, non m’inganno, era un elefante.
– Un elefante! esclamarono i due indiani. – Un elefante qui!
– Ma sì, era un elefante enorme, con una proboscide mostruosa, e due denti lunghissimi.
– E si è avvicinato a te? – chiese Aghur.
– Sì, e per poco non mi spezzò il cranio. Io dormiva saporitamente, quando fui svegliato da un potente soffio; aprii gli occhi e vidi sopra di me la gigantesea testa del mostro. Cercai di alzarmi per fuggire, ma la proboscide mi piombò sul cranio, inchiodandomi al suolo.
– E poi? – chiese Kammamuri con ansietà.
– Poi non ricordo più nulla. Il colpo era stato così forte che svenni.
– Che ora era?
– Non lo so, perché m’ero addormentato.
– E’ strano, – disse il maharatto. – E Punthy non s’accorse di nulla.
– Cosa facciamo, – chiese Aghur, lanciando uno sguardo ardente sulla jungla.
– Lasciamo il colosso in pace, rispose Kammamuri.
– Ritornerà, – s’affrettò a dire Manciadi, – e rovinerà la capanna..
– E’ vero, – disse Aghur. – Se lo inseguissimo?
– E perché no? Abbiamo delle buone carabine. – Io sono pronto ad aiutarvi, – rispose Manciadi.
– Ma non possiamo lasciare solo il padrone, quantunque sia completamente guarito, – osservò Kammamuri. – Voi sapete che un pericolo ci minaccia sempre.
– Tu rimarrai e noi andremo alla caccia, – incalzò Aghur. – Con un vicino così pericoloso, non si può vivere tranquilli.
– Se avete coraggio bastante, vi lascio libero campo.
– Così va bene! – esclamò Aghur. – Lascia fare a noi, e vedrai che prima di mezzodì il colosso sarà morto.
Andò a prendere nella capanna due pesanti carabine di grosso calibro e ne porse una al bengalese che la caricò con grande attenzione, con una verga di piombo. Munitisi di pistoloni e d’un enorme coltellaccio, nonché di abbondanti munizioni, entrarono risolutamente nella jungla, percorrendo un largo sentiero tracciato fra i bambù. Aghur era allegro e discorreva; il bengalese, invece, era diventato cupo e spesso soffermavasi per guardare il compagno che lo precedeva di pochi passi.

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