A Raimangal (prima parte)

Come aveva detto il maharatto, la notte era tempestosa. Enormi masse di vapori s’erano alzate dal sud e correvano disordinatamente per la volta celeste, accavallandosi come le onde del mare.
Frequenti colpi di vento si lanciavano attraverso le deserte “Sunderbunds”, curvando con mille gemiti le immense piantagioni di bambù, strappando le deboli canne che volavano per l’aria assieme a bande di marabù e di pavoni che gettavano grida disperate.
Di quando in quando poi, un lampo livido, abbagliante, rompeva le tenebre, mostrando quel caos di vegetali contorti ed atterrati, seguito poco dopo da un formidabile scroscio che si ripercuoteva fino alle rive del golfo del Bengala.
Non pioveva, ma le cateratte del cielo non dovevano tardare ad aprirsi.
I due indiani e la tigre in pochi minuti guadagnarono la riva del Mangal, le cui acque, ingrossate da qualche acquazzone, scorrevano con maggiore rapidità, trascinando ammassi di bambù strappati probabilmente alle “Sunderbunds” del settentrione e gran numero di tronchi d’albero.
Stettero alcuni minuti nascosti fra i canneti, aspettando che un lampo rischiarasse la riva opposta, poi, certi di non essere spiati, s’affrettarono a scendere la riva ed a spingere in acqua il canotto.
– Padrone, – disse Kammamuri, mentre Tremal-Naik vi balzava dentro. – Credi tu che incontreremo degli indiani lungo il fiume o nei dintorni di Raimangal?
– Ne sono certo ma cosa importa? Questa notte mi sento tanto forte da cozzare contro un esercito di mille uomini. La passione che m’arde in petto, mi darà la forza necessaria per vincere e superare ogni ostacolo.
– Lo so, padrone, ma bisogna agire con prudenza. Se ci scorgono daranno l’allarme e ci impediranno di sbarcare.
– E come vorresti fare?
– Ingannarli.
– Come?
– Lascia fare a me; passeremo senz’essere veduti.
Il maharatto riguadagnò la riva, abbatté un considerevole numero di bambù lunghi non meno di quindici metri e coprì accuratamente il canotto, in modo da farlo sembrare un ammasso di canne in balìa della corrente.
– Fa oscuro, – diss’egli nascondendovisi sotto con Tremal-Naik e Darma. – Gl’indiani non sospetteranno che sotto le canne v’è un canotto e che il canotto porta due uomini ed una belva.
– Presto, Kammamuri, spingiamoci al largo, – disse Tremal-Naik che fremeva d’impazienza. – Ogni minuto che scorre, è per me un colpo di pugnale al cuore ed io tremo tutto pensando al gran pericolo che corre Ada. Credi tu, maharatto, che noi arriveremo a salvarla?
– Lo credo, padrone, – rispose Kammamuri, spingendo il canotto in mezzo alla corrente. – Forse quegli uomini sperano che il miserabile abbia compiuto il delitto.
– E se noi arrivassimo tardi?… Grande Siva, qual terribile colpo! Io non sopravviverei, lo sento, alla catastrofe.
– Calma, padrone. Chissà, forse Manciadi ha esagerato.
– Possa essere vero. Mia povera Ada, potessi ancora rivederti.
– Zitto, padrone; parlare è imprudente.
– E’ vero, Kammamuri: silenzio.
Tremal-Naik si sdraiò a prua a fianco della tigre e Kammamuri a poppa, col remo in mano, cercando di dirigere il canotto.
L’uragano allora raddoppiava di violenza e alla notte oscura era successa una notte di fuoco.
Il vento ruggiva tremendamente nella jungla, curvando con mille gemiti e mille scricchiolii i giganteschi vegetali e torcendo in mille guise i cento tronchi dei “banian”, i rami dei palmizi tara, dei latania, dei “pipal” e dei giacchieri, e fra le nubi scrosciava incessantemente la folgore che veniva giù, descrivendo abbaglianti zig-zag.
Il canotto trascinato dal vento e dalla corrente straordinariamente gonfia, filava come una freccia, dondolandosi spaventosamente fra i gorghi, cozzando e tornando a cozzare contro le molteplici isolette e contro la moltitudine d’alberi che andavano disordinatamente alla deriva.
Kammamuri si sforzava, ma invano, di mantenerlo sulla buona via e Tremal-Naik cercava di calmare la tigre, la quale, spaventata da tutti quei fragori e da quell’abbagliante chiarore, ruggiva ferocemente, lanciandosi dall’uno all’altro bordo della imbarcazione con grande pericolo di rovesciarla.
Alle dieci di sera Kammamuri segnalò un gran fuoco che ardeva sulla riva del fiume a meno di trecento passi dalla prua del canotto. Non aveva ancora terminato di parlare, che si udì il “ramsinga” suonare tre volte e su tre diversi toni.
– Allerta, padrone! – gridò, dominando colla voce tutti quei formidabili fragori.
– Scorgi nessuno? – chiese Tremal-Naik, tenendo stretta pel collo la tigre colla mano sinistra e impugnando colla destra una pistola.
– No, padrone, ma il fuoco fu certamente acceso per vedere chi va o viene. Stiamo in guardia; il “ramsinga” ha segnalato qualche cosa.
– Prendi la carabina. Forse daremo battaglia.
Il canotto s’avvicinava rapidamente al fuoco, il quale bruciava un ammasso di bambù secchi, rischiarando come in pieno giorno le due rive del fiume.
– Padrone, guarda! – disse d’un tratto Kammamuri.
– Zitto! – bisbigliò Tremal-Naik, serrando la bocca alla tigre.
Due indiani si erano improvvisamente lanciati fuori da un cespuglio di mussenda.
Portavano il laccio attorno al corpo e tenevano una carabina in mano.
Sui loro petti, si scorgeva distintamente il serpente azzurro colla testa di donna.
– Guarda laggiù! – gridò uno di essi. – Vedi?
– Sì, – rispose l’altro. – E’ un ammasso di canne che va alla deriva.
– Lo credi?
– E perché no?
– Temo che nasconda qualche cosa.
– Non vedo nulla sotto.
– Taci!… To’. Mi sembrò di avere udito…
– Un ruggito, vuoi dire?
– Precisamente. Che ci sia una tigre là in mezzo?
– Buon viaggio.
– Adagio, Huka. L’uomo che Manciadi deve strangolare ha una tigre.
– Questo non lo sapeva. E vuoi tu, che là sotto ci sia il nostro uomo colla sua bestia?
– Potrebbe darsi. Quell’uomo è astuto ed audace.
– Cosa conti di fare?
– Scovarlo con un colpo di carabina. Mira molto basso.
Kammamuri e Tremal-Naik avevano udito distintamente il dialogo.

Speak Your Mind

*

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.