Il salvatore (prima parte)

All’oriente cominciava ad albeggiare, quando il capitano Macpherson e Bhârata discesero nel cortile del “bengalow”.
Erano armati tutti e due con carabine di lunga portata e di grosso calibro, di pistole e di coltellacci colla lama larghissima ed a doppio taglio. Un sipai li seguiva, portando altre due carabine di ricambio ed alcune picche.
In pochi minuti raggiunsero il recinto sulla cui soglia barriva fragorosamente Bhagavadi, circondato da una mezza dozzina di “mahuts”, o conduttori d’elefanti.
Bhagavadi era uno dei più grandi e più belli “coomareah” che fosse dato d’incontrare sulle rive del Gange. Era meno alto d’un elefante “merghee” ma più vigoroso, dotato d’una potenza straordinaria, con un corpo massiccio, gambe corte e tozze, una tromba assai sviluppata e due magnifici denti aguzzi, arcuati all’insù.
Sul dorso gli era già stata accomodata l'”hauda”, specie di navicella nella quale prendono posto i cacciatori, solidamente assicurata con corde e catene.
– Siamo pronti? chiese il capitano Macpherson.
– Non manca che di partire, – rispose il capo dei “mahuts”.
– I battitori?
– Sono di già sul limitare della jungla, coi cani. Uno dei più abili “mahuts” si collocò sul collo di Bhagavadi, armato di un grosso uncino e di una lunga picca.
Il capitano Macpherson, Bhârata ed il sipai, fattasi calare la scala, presero posto nell'”hauda”, portando con loro le armi.
Il segnale della partenza fu dato nel momento che il sole sorgeva dietro il bosco dei borassi, illuminando d’un sol colpo la fiumana e le sue sponde.
L’elefante camminava con passo spedito, eccitato dalla voce del “mahut”, fracassando, stritolando, sotto le enormi zampe le radici e gli arbusti, ed abbattendo con un vigoroso colpo di proboscide gli alberi o i bambù che gli sbarravano la via.
Il capitano Macpherson, sul dinanzi dell'”hauda”, con una carabina in mano, spiava attentamente i gruppi di piante e le alte erbe, in mezzo alle quali poteva celarsi la tigre.
Un quarto d’ora dopo essi giungevano sul margine della jungla, irta di bambù e di ammassi di cespugli spinosi. Sei sipai, muniti di lunghe pertiche ed armati di scuri e di fucili, li aspettavano con un branco di piccoli cani, miserabili botoli all’apparenza, ma molto coraggiosi in realtà, indispensabili per cacciare il terribile felino.
– Quali nuove? chiese il capitano, curvandosi sull'”hauda”.
– Abbiamo scoperto le traccie della tigre, rispose il capo dei battitori.
– Fresche?
– Freschissime; la tigre è passata di qui mezz’ora fa.
– Allora entriamo nella jungla. Lasciate i cani.
I botolini, liberati dal guinzaglio, si slanciarono animosamente in mezzo ai bambù, dietro le traccie della tigre, abbaiando con furore.
Bhagavadi, dopo di aver fiutato colla proboscide tre o quattro volte l’aria a diverse altezze, s’addentrò nella jungla, sfondando col suo petto la massa di verzura.
– Sta’ bene attento Bhârata, – disse Macpherson.
– Avete scorto qualche cosa, capitano? – chiese il sergente.
– No, ma la tigre può essere tornata sui propri passi ed essersi imboscata fra i bambù. Tu sai che quegli animali sono astuti, e che non temono di assalire l’elefante.
– In tal caso avrà da fare con Bhagavadi. Non è la prima tigre che egli calpesta sotto le sue zampaccie o che scaglia in aria a fracassarsi le membra contro qualche albero. L’avete veduto voi, l’animale?
– Sì, e posso dirti che era proprio gigantesco. Non mi ricordo d’aver visto una tigre così grossa né così agile; faceva balzi di dieci metri.
– Oh! – esclamò l’indiano. – Con un salto arriverà fino all'”hauda”.
– Se la lascieremo avvicinare.
– Tacete, capitano.
In lontananza s’udirono i cani ad abbaiare furiosamente e qualche guaito lamentevole. Bhârata si sentì correre un brivido per le ossa.
– I cani l’hanno scoperta, diss’egli.
– E qualcuno è stato sventrato, – aggiunse il sipai che aveva preso le carabine, pronto a passarle ai cacciatori.
Uno stormo di pavoni s’alzò a circa cinquecento metri e volò via mandando grida di terrore.
– Uszaka? – gridò il capitano, facendo una specie di portavoce colle mani.
– Attenzione, capitano! – rispose il capo dei battitori. – La tigre è alle prese coi cani.
– Fa’ suonare la ritirata.
Uszaka accostò al naso il “bansy”, sorta di flauto, e soffiò con forza emettendo una nota acuta.
Tosto si videro i sipai tornare precipitosamente e correre a rifugiarsi dietro all’elefante.
– Animo, – disse il capitano al “mahut”, – conduci l’elefante dove abbaiano i cani. E tu, Bhârata, guarda bene alla tua sinistra mentre io guardo alla dritta. Può darsi che dobbiamo combattere più di un avversario.
Gli abbaiamenti continuavano ognor più furiosi, segno infallibile che la tigre era stata scoperta. Bhagavadi affretto il passo movendo intrepidamente verso una grande macchia di bambù “tulda”, in mezzo alla quale s’erano cacciati i botoli.
A cento passi di distanza fu trovato uno dei cani orrendamente sventrato da un poderoso colpo d’artiglio. L’elefante cominciò a dare segni d’inquietudine, agitando vivamente la proboscide dall’alto in basso.
– Bhagavadi la sente, – disse Macpherson. – Sta’ bene attento “mahut” e bada che l’elefante non dia indietro o che esponga troppo la sua tromba. La tigre gliela sbranerà come l’anno scorso.- Rispondo di tutto, padrone.
Fra i bambù s’alzò un formidabile ruggito a cui nessun grido è paragonabile. Bhagavadi s’arrestò fremendo ed emettendo sordi barriti.
– Avanti! – gridò il capitano Macpherson, le cui dita si raggrinzavano sul grilletto della carabina.
Il “mahut” lasciò andare un colpo di uncino sul pachiderma, il quale si mise a sbuffare in orribile modo, arrotolando la proboscide e presentando le due aguzze zanne. Fece ancora dieci o dodici passi poi tornò a fermarsi. Dai bambù si slanciò fuori, simile a un razzo, una gigantesca tigre emettendo un formidabile miagolìo.
Il capitano Macpherson lasciò partire la scarica.
– Tuoni e fulmini! – gridò irritato.
La tigre era ricaduta fra i bambù prima di essere stata toccata. Si slanciò altre due volte nell’aria, facendo balzi di dodici metri e scomparve.
Bhârata fece fuoco in mezzo al macchione, ma la palla andò a fracassare la testa di un botolino mezzo sbranato, che si trascinava penosamente fra le erbe.
– Ma ha il diavolo in corpo quella tigre, – disse il capitano, assai di cattivo umore. – E’ la seconda volta che sfugge alle mie palle.
Come va questa faccenda?
Bhagavadi si rimise in marcia, con molta precauzione, facendosi prima largo colla proboscide, che si affrettava però a ritirare subito. Fece altri cento metri, preceduto dai cani che andavano e venivano cercando la pista del felino, poi fece alto piantandosi solidamente sulle gambe. Tornava a tremare ed a sbuffare fragorosamente.
Davanti a lui, a meno di venti metri, stava un gruppo di canne da zucchero. Un buffo d’aria impregnata d’un forte odore di selvatico, giunse fino ai cacciatori.
– Guarda! guarda! – gridò il capitano.
La tigre s’era slanciata fuori dalle canne movendo con rapidità fulminea verso il pachidermo il quale s’era affrettato a presentare le zanne.
Vi giunse quasi sotto, sfuggendo alle carabine dei cacciatori, si raccolse su se stessa e piombò in mezzo alla fronte dell’elefante cercando con un colpo d’artiglio d’afferrare il “mahut”, che s’era gettato all’indietro urlando di terrore.
Già stava per raggiungerlo, quando in lontananza echeggiarono alcune note acute emesse da un “ramsinga”.
Sia che si spaventasse o altro, la tigre fece un rapido voltafaccia e si precipitò giù, cercando di raggiungere la macchia.
– Fuoco! – urlò il capitano Macpherson, scaricando la carabina.
Il felino mandò un ruggito tremendo, cadde, si rialzò, varcò la macchia e ricadde dall’altra parte, rimanendo immobile come se fosse stato fulminato .
– Hurrà! hurrà! – urlò Bhârata.
– Bel colpo! – esclamò il capitano, deponendo l’arma ancor fumante.- Getta la scala. – Il “mahut” ubbidì. Il capitano Macpherson impugnato il coltellaccio giunse a terra e si diresse verso la macchia.
La tigre giaceva inerte presso un cespuglio. Il capitano, con sua grande sorpresa, non iscorse su quel corpo alcuna ferita, né per terra macchie di sangue.

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