Il secondo colpo dello strangolatore (seconda parte)

– Camminiamo con precauzione e in silenzio, disse Kammamuri a Manciadi. – Non bisogna attirare l’attenzione dei nemici, che forse si tengono nascosti a poca distanza da noi.
– Hai paura, Kammamuri? – chiese il bengalese, che non tremava più.
– Credo di sì. Per fortuna, con noi abbiamo Darma, una valorosa bestia che non teme cinquanta uomini armati.
– Ti avverto, Kammamuri, che io non entrerò nel bosco.
– Mi aspetterai dove meglio ti piacerà, e se vuoi ti lascierò Punthy, un bravo cane che sa strozzare una mezza dozzina di persone. Avanti e silenzio.
Manciadi, che aveva già tracciato il suo piano, condusse il maharatto sul sentiero che aveva percorso al mattino e lo seguì per tre quarti d’ora. S’arrestò sul margine del bosco di giacchieri.
– E’ qui? – chiese Kammamuri, guardando con ansietà sotto gli alberi.
– Sì, qui, – rispose Manciadi, con fare misterioso. – Segui questo sentieruzzo che s’addentra nel bosco e giungerai allo stagno, sulle cui rive è caduto Aghur. Io qui t’aspetto, nascosto in quella fitta macchia.
– Vuoi il cane?
– Amo meglio esser solo. Gl’indiani non mi scopriranno, ne sono certo.
– Fra mezz’ora io sono di ritorno. Darma, sta’ attenta e pronta a piombare sul primo uomo che si presenta dinanzi a noi, e tu, Punthy, preparati pure a strozzare qualcuno.
La tigre fece udire un basso ruggito e si mise dinanzi al maharatto colle corte orecchie alzate ed il cane gli si mise dietro mostrando i denti.
– Benone, – disse Kammamuri, quando vide il bengalese nascosto nella macchia. – Nessuno ardirà avvicinarsi senza il permesso di queste care bestie.
Entrarono nel bosco sotto il quale regnava una profonda oscurità ed un silenzio funebre e s’avanzarono sul sentiero, senza produrre rumore di sorta. Kammamuri più volte si fermò sperando di udire qualche lamento o qualche chiamata che segnalasse la presenza di Aghur, ma nulla giungeva al suo orecchio.
– E’ strano, – mormorava, tergendosi il sudore che colavagli in gran copia dalla fronte. – Se fosse ancora vivo, si udirebbe qualche lamento, ma qui regna un silenzio perfetto. Che sia morto?
Aveva percorso da trecento a quattrocento passi, quando udì qualcuno che zuffolava un’arietta malinconica.
Era la medesima arietta che Manciadi aveva zuffolato prima d’assassinare Aghur. La tigre si mise a brontolare volgendo la testa all’indietro e il cane diè segni d’inquietudine, ringhiando.
– Attenti, piccini, – disse Kammamuri, che sentivasi gelare il sangue.- State vicini a me e lasciate che quell’uomo zuffoli a suo piacimento. Credo che per Aghur sia finita.
Una nube oscurò la luna e le tenebre divennero più fitte sotto il bosco.
Kammamuri si arrestò, indeciso se dovesse avanzare o tornare indietro, poi tirò innanzi colle pistole montate.
– Kammamuri! – gridò una voce.
– Kammamuri! – ripeté una seconda voce.
– Kammamuri!- riprese una terza.
La tigre si mise a ruggire sferzandosi i fianchi colla coda e saltando come se fosse su di un braciere. Cercò due o tre volte di slanciarsi a destra del sentiero, ma il maharatto, con un fischio, la richiamava al posto.
– Calma, piccina, calma, – diss’egli. – Lasciate che chiamino. Non sono spiriti, ma uomini che si divertono a spaventarmi. Se ritorno alla capanna, posso ringraziare Visnù d’avermi protetto.
Allungò il passo con una pistola puntata a destra del sentiero e l’altra a sinistra e poco dopo giungeva in vista dello stagno.
Un fascio di luce lunare piombò in quel luogo, illuminandolo come in pieno giorno.
Kammamuri, con indicibile spavento, scorse a terra un corpo umano su cui si agitava un gruppo di marabù.
Punthy si slanciò verso quel cadavere urlando lamentosamente e mettendo in fuga i voraci volatili.
– Aghur! – esclamò Kammamuri, singhiozzando.
Corse come un pazzo allo stagno e si gettò sul corpo dell’infelice suo compagno.
Aveva ancora il laccio attorno al collo ed il corpo era stato straziato dai marabù.
– Aghur! Mio povero Aghur! – ripeté Kammamuri, abbracciando il cadavere. – Ah! miserabili!
D’un tratto emise un urlo terribile e i suoi occhi si fissarono su di una pietra, contro la quale era appoggiata la testa di Aghur.
Ai pallidi raggi della luna, aveva letto, fremendo, le seguenti parole scritte a lettere di sangue:
“Kammamuri, Manciadi mi ha assass…”.
Il maharatto balzò in piedi. Comprese tutto il tradimento del bengalese e il pericolo che correva il padrone.
– Darma! Punthy! – gridò egli con voce strozzata.- Alla capanna!…
Alla capanna!… Si uccide il padrone.
E si slanciò attraverso la foresta preceduto dalla tigre e seguito dal cane, che abbaiava con furore!
Nel mentre Kammamuri correva come un daino sotto le cupe volte di verzura, il bengalese non perdeva il suo tempo.
Rimasto solo, erasi subito slanciato fuori della macchia correndo precipitosamente verso la capanna, risoluto a strangolare la seconda vittima.
Sapeva di avere un vantaggio di un buon quarto d’ora sul maharatto, nondimeno divorava la via colla velocità di una palla di cannone, paventando di venire colto sul fatto dalla tigre e dal cane, dai quali animali aveva tutto da temere.
Attraversò la jungla impiegando meno di mezz’ora e si fermò sul margine della piantagione, dopo di avere preparato un secondo laccio.
– Il padrone deve tenersi in guardia, – mormorò egli. – Se mi vede tornare, crederà che io abbia abbandonato Kammamuri e mi spaccherà la testa con una palla di carabina. Quell’uomo non ischerza.
Aprì adagio adagio i bambù e guardò verso il nord. A quattrocento passi di distanza scorse la capanna ed accanto ad essa Tremal-Naik in piedi, colla carabina in mano.
– Ah! – esclamò il miserabile. – Ucciderlo non sarà tanto facile, ma Manciadi è più furbo di un “cacciatore di serpenti”.
Ripigliò la corsa verso l’est, trottando furiosamente per sei o sette minuti, poi si slanciò nella pianura. La capanna stava alla sua destra e Tremal-Naik gli mostrava un fianco. Con un po’ d’astuzia poteva avvicinarsi e cogliere la vittima alle spalle. La sua risoluzione fu prontamente presa. Si mise a strisciare fra le erbe come un serpente, allungandosi quanto poteva onde non venire scorto da Tremal-Naik e procurando di non far rumore.
Però, il venticello che sfiorava la piantagione, curvando dolcemente le alte cime dei bambù, produceva un leggiero stropiccio, sufficiente per coprire lo strisciare di un uomo.
Così avanzando e soffermandosi per tendere gli orecchi e guardare Tremal-Naik che pareva non s’accorgesse di nulla, riuscì a guadagnare la capanna.
Con uno scatto da tigre si rizzò. Un sorriso atroce sfiorava le sue labbra.
– E’mio, – mormorò con un filo di voce. – Kâlì mi protegge.
Camminò in punta dei piedi lungo le pareti della capanna e si fermò a dieci passi da Tremal-Naik. Diede un ultimo sguardo alla jungla e non scorse nessuno.
Un secondo sorriso, più crudele del primo, apparve sulle labbra ed i suoi occhi scintillarono come quelli di un gatto.
Un secondo ancora e la vittima sarebbe caduta per non più rialzarsi.
Fece fischiare rapidamente il laccio attorno a sé e lo slanciò facendo un balzo avanti. Tremal-Naik piombò al suolo come un albero sradicato dal vento, ma, per un caso fortuito, una mano era rimasta presa nel laccio.
– Kammamuri! – gridò il disgraziato, afferrando coll’altra mano la corda e tirando a sé con disperata energia.
– Muori! muori! – urlò l’assassino, trascinandolo sul suolo.
Tremal-Naik mandò un secondo grido.
– Kammamuri! aiuto!
– Eccomi – tuonò una voce.
Manciadi digrignò i denti con furore. Sul limite della piantagione era improvvisamente apparso il maharatto: dinanzi, correva, con balzi giganteschi la tigre, fiancheggiata da Punthy.
Un lampo squarciò la notte seguìto da una fragorosa detonazione.
Manciadi fece un salto di dieci passi e s’avventò all’impazzata verso la riva vicina.
Un secondo sparo rimbombò e Manciadi piombò nel fiume, scomparendo fra i gorghi.

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