Inglesi e strangolatori (prima parte)

Agli orologi della città inglese suonava la mezzanotte, quando la Devonshire, che sin dal mattino aveva acceso i suoi fuochi, abbandonava a tutto vapore il molo del forte William, scendendo la nera corrente dell’Hugly.
La notte era assai oscura. Non luna e non stelle in cielo, il quale era coperto da una nera fascia di vapori. Pochi affatto i lumi, la maggior parte immobili, accesi dentro le capanne di Kiddepur, o sulla prua di legni ancorati sotto la riva. Solamente verso il nord si scorgeva uno strano bagliore, una specie d’alba biancastra, dovuta alle migliaia e migliaia di fiamme che rischiarano la città inglese e la città nera che formano Calcutta.
Il capitano, ritto sulla passerella, comandava la manovra con voce metallica, dominando il fragore delle tambure che mordevano furiosamente le acque e il formidabile russare della macchina. Sul ponte, mozzi e marinai, si affaccendavano, al vago chiarore di poche lanterne, a stivare le ultime botti e le ultime casse che ancora ingombravano il ponte.
Già Kiddepur era scomparsa nelle fitte tenebre, già gli ultimi lumi delle barche e dei navigli più non si scorgevano, quando un uomo, che sino allora aveva tenuto la ruota del timone, attraversò quatto quatto il ponte, urtando forte col gomito un indiano che stava chiudendo il boccaporto di maestra.
– Affrettati, – gli disse, nel passargli vicino. La camera è deserta.
– Pronto, Hider, – rispose l’altro.
Pochi minuti dopo i due indiani scendevano la scaletta che conduceva nella camera comune, la quale in quel momento era deserta.
– Ebbene? – chiese brevemente Hider.
– Nessuno ha sospettato di nulla.
– Hai contato le botti segnate?
– Sì, sono dieci.
– Dove le hai collocate?
– Sotto poppa.
– Riunite?
– Tutte vicine l’una all’altra, – disse l’affiliato.
– Hai avvertito gli altri?
– Sono tutti pronti. Al primo segnale si getteranno sugli inglesi.
– Bisogna agire con prudenza. Questi uomini sono capaci di far fuoco alle polveri e far saltare amici e nemici.
– Quando si farà il colpo?
– Questa notte, dopo che avremo dato un buon narcotico al capitano.
– Cosa dobbiamo fare intanto?
– Manderai due uomini a impadronirsi della sala d’armi poi attenderai nella macchina cogli altri due fuochisti. Avremo bisogno della tua abilità.
– Non è la prima volta che lavoro alle caldaie.
– Va bene. Io comincio ad agire.
Hider risalì in coperta e diresse lo sguardo sulla passerella.
Il capitano passeggiava innanzi e indietro, colle braccia incrociate sul petto, fumando una sigaretta.
– Povero capitano, – mormorò lo strangolatore, non meritavi un così brutto tiro. Ma bah! Un altro al mio posto, invece di renderti nell’impossibilità di nuocere, ti avrebbe spedito all’inferno con una buona dose di veleno.
Si diresse verso poppa e senza essere veduto discese sotto coperta, arrestandosi dinanzi la cabina del comandante. L’uscio era socchiuso, l’aprì e si trovò in uno stanzino di otto piedi quadrati, tappezzato in rosso ed ammobiliato elegantemente.
S’accostò ad un tavolino, sul quale stava una bottiglia di cristallo, piena di limonata. Un sorriso diabolico gli sfiorò le labbra.
– Ogni mattina la bottiglia risale vuota, bisbigliò. – Il capitano, prima di coricarsi, beve sempre.
Cacciò la mano in petto e trasse una fiala microscopica, contenente un liquido rossastro. Lo fiutò più volte, poi lasciò cadere nella bottiglia tre goccie.
La limonata ribollì diventando rossa, poi riacquistò la sua tinta primitiva.
– Dormirà due giorni, – disse il thug. – Andiamo a trovare gli amici.
Usci ed aprì una porticina che metteva nella stiva. Un leggier rumore si udì sotto la poppa, seguito da uno scricchiolìo, come di un’arma da fuoco che veniva montata.
– Tremal-Naik, – chiamò il thug.
– Sei tu Hider? – domandò una foce soffocata. Apri, che qui dentro ci asfissiamo.
Il thug raccolse in un angolo una lanterna cieca, colà precedentemente nascosta, l’accese e s’avvicinò alle dieci botti collocate l’una presso l’altra.
I cerchi vennero levati e gli undici strangolatori, mezzo asfissiati, colle membra indolenzite, madidi di sudore per l’eccessivo caldo che regnava là sotto, uscirono. Tremal-Naik si slanciò verso Hider.
– La “Cornwall”? – gli chiese.
– Corre verso il mare.
– C’è speranza di raggiungerla?
– Sì, se la “Devonshire” accelera la corsa.
– Bisogna abbordarla, o perderò la mia Ada.
– Ma prima bisogna impadronirsi della cannoniera.
– Lo so. Hai un piano tu?
– Sì.
– Parla, presto, io ardo. Guai, se non raggiungiamo la “Cornwall”!…
– Calmati, Tremal-Naik. Ogni speranza non è ancora perduta.
– Dimmi quale è il tuo piano.
– Innanzi tutto c’impadroniremo della macchina.
– Ci sono affiliati nella camera delle caldaie?
– Tre, e sono tutti fuochisti. In quattro, non faticheremo troppo a legare l’ingegnere.
– E poi?
– Poi andrò a vedere se il capitano ha bevuto il narcotico che gli versai nella sua limonata. Allora voi entrerete nel quadro di poppa e al primo fischio salirete sul ponte. Gli inglesi, colti lì per lì, si arrenderanno.
– Sono armati?
– Non hanno che i loro coltelli.
– Affrettiamoci.
– Sono pronto. Vado a legare l’ingegnere.
Spense la lanterna, ritornò nel quadro di poppa e risalì sul ponte, proprio nel momento in cui il capitano lasciava la passerella.
– Tutto va bene, – mormorò il “thug”, vedendolo dirigersi a poppa.
Caricò la pipa e discese nella camera della macchina.
I tre affiliati erano al loro posto, dinanzi ai forni, discorrendo a voce bassa.
L’ingegnere fumava, seduto su di una scranna e leggeva un libriccino.
Hider con un’occhiata avvertì gli affiliati di tenersi pronti, e s’avvicinò alla lanterna sospesa alla volta, proprio sopra il capo dell’ingegnere.
– Permettetemi, sir Kuthingon, d’accendere la pipa, – gli disse il quartier-mastro.- Sopra tira un ventaccio che spegne l’esca.
– Con tutto il piacere, – rispose l’ingegnere.
S’alzò per tirarsi indietro. Quasi nel medesimo istante lo strangolatore lo afferrava per la gola e così fortemente, da impedirgli di emettere il più lieve grido, poi con una scossa vigorosa lo rovesciò sul tavolato.
– Grazia, – poté appena balbettare il povero uomo che diveniva nero sotto il ferreo pugno del quartier-mastro.
– Sta zitto e non ti verrà fatto alcun male, – rispose Hider.
Gli affiliati ad un suo cenno lo legarono e lo imbavagliarono, trascinandolo dietro un grande ammasso di carbone.
– Che nessuno lo tocchi, – disse Hider. – Ed ora andiamo a vedere se il capitano ha bevuto il narcotico.
– E noi?- chiesero gli affiliati.
– Non vi muoverete di qui, sotto pena di morte.
– Sta bene.
Hider accese tranquillamente la pipa e salì la scala.
La cannoniera filava allora fra due rive completamente deserte, e il suo sperone fendeva gruppi di vegetali galleggianti.
I marinai erano tutti in coperta e guardavano distrattamente la corrente, discorrendo o fumando. L’ufficiale di quarto passeggiava sulla lunetta, chiacchierando col mastro-cannoniere.

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