Kammamuri (seconda parte)

Attraversò il bosco di cocchi perdendo parecchie ore e quantunque la notte fosse abbastanza inoltrata, rientrò nella jungla piegando verso il sud e continuò a marciare così fino a mezzanotte, fermandosi di quando in quando ad esaminare il terreno colla speranza di trovare qualche traccia del padrone. Disperando ormai di scoprire qualche indizio, stava per cercare un albero su cui passare il restante della notte, quando due sordi spari, tirati a poca distanza l’un dall’altro, lo colpirono.
– To’ – esclamò sorpreso.
Un terzo sparo, più forte degli altri due, s’udì.
– Il padrone! – gridò. – Questa volta non mi sfugge più!
Sospese le sue ricerche e corse verso il sud colla celerità d’un cavallo, e mezz’ora dopo giungeva in un’ampia radura, in mezzo alla quale illuminata da uno splendido chiaro di luna, ergevasi una grandiosa pagoda. Fece alcuni passi innanzi, poi ritornò rapidamente indietro riguadagnando i bambù.
Due uomini si erano mostrati all’aperto e muovevano verso la jungla, portando una terza persona che sembrava morta.
– Cosa vuol dire ciò? – borbottò il maharatto, che cadeva di sorpresa in sorpresa. – Che vengano a seppellire quel cadavere nella jungla?
S’allontanò ancor più, cacciandosi nel fitto d’un cespuglio, ma in un luogo da cui poteva vedere senza essere scoperto.
I due portatori, che riconobbe per due indiani, attraversarono rapidamente la radura, arrestandosi presso i bambù.
_ Animo, Sonephur, – disse uno dei due. Facciamolo dondolare e scagliamolo là in mezzo. Sono certo che domani mattina non troveremo che le ossa, se le tigri saranno d’umore di lasciarle.
– Lo credi? – chiese l’altro.
– Sì, la nostra amata dea s’incaricherà d’inviargli una mezza dozzina di quelle bestie. Quest’indiano è un bel pezzo di carne e abbastanza giovane.
I due miserabili scoppiarono in una sonora risata, a quell’atroce scherzo.
– Prendilo bene, Sonephur.- Andiamo, uno, due…
I due indiani fecero oscillare il cadavere e lo scagliarono in mezzo alla jungla.
– Buona fortuna! – gridò uno.
– Buona notte, – disse l’altro. – Domani mattina verremo a farti una visita.
Ed i due indiani s’allontanarono sghignazzando.
Kammamuri aveva assistito a quella scena. Aspettò che i due indiani fossero molto lontani, poi uscì dal nascondiglio e spinto da una forte curiosità, s’avvicinò al cadavere. Un urlo strozzato gli uscì dalle labbra.- Il padrone! esclamò con voce straziante. – Oh! i maledetti!
Infatti quel cadavere era Tremal-Naik. Aveva gli occhi chiusi, la faccia orribilmente alterata e in mezzo al petto, confitto sino al manico, un pugnale. Le vesti erano tutte lorde del sangue che usciva ancora dalla profonda ferita.
– Padrone! mio povero padrone! – singhiozzò il maharatto.
Appoggiò ambe le mani sul corpo di lui e trasalì come se fosse stato toccato da una pila elettrica. Gli pareva d’aver sentito il cuore a battere.
Avvicinò l’orecchio e ascoltò rattenendo il respiro. Non vi era da ingannarsi: Tremal-Naik non era ancor morto poiché il cuore debolmente batteva.
– Forse non è colpito a morte, – mormorò, tremando per l’emozione. – Calma, Kammamuri, e agiamo senza perdere tempo.
Con precauzione tolse a Tremal-Naik il “kurty” mettendo a nudo l’ampio petto. Il pugnale gli era stato immerso fra la sesta e la settima costola, in direzione del cuore, ma senza averlo toccato.
La ferita era terribile, ma forse non era mortale; Kammamuri che se ne intendeva più d’un medico, sperò di salvare l’infelice.
Prese delicatamente l’arma e lentamente, senza scosse, la estrasse dalla ferita: un getto di sangue caldo e rosso uscì dalle labbra. Era buon segno.
– Guarirà, – disse il maharatto.
Stracciò un pezzo del “kurty” ed arrestò l’emorragia che poteva essere fatale pel ferito. Ora si trattava di avere un po’ d’acqua e alcune foglie di “youma” da spremere sulla piaga, per affrettare la cicatrizzazione.
– Bisogna a qualsiasi costo allontanarsi da qui per trovare qualche stagno, – mormorò poi. – Tremal-Naik è forte, un uomo d’acciaio e sopporterà il trasporto senza aggravare la ferita. Animo, Kammamuri.
Raccolse tutte le sue forze, lo afferro fra le braccia più delicatamente che poté, e s’allontano barcollando, dirigendosi verso l’est, ossia verso il fiume.
Riposando ogni cento passi per tirare il fiato e per vedere se il padrone dava sempre segno di vita, grondante di sudore, reggendosi a mala pena sulle gambe, percorse più d’un miglio e si fermo sulle rive d’uno stagno d’acqua limpidissima, circondato da una triplice fila di piccoli banani e di cocchi.
Depose il ferito su di un denso strato d’erbe, ed applicò sulla sanguinosa piaga delle pezzuole bagnate. A quel contatto un debole sospiro, che parve un gemito represso, usci dalle labbra di Tremal- Naik.
– Padrone! padrone! – chiamo il maharatto.
Il ferito agitò le mani ed apri gli occhi che roteavano in un cerchio sanguigno, fissandoli su Kammamuri.
Un raggio di gioia illuminò il suo bronzeo volto.
– Mi riconosci, padrone? – chiese il maharatto.
Il ferito fece un cenno affermativo col capo e mosse le labbra come per parlare, ma non articolo che un suono confuso, incomprensibile.
– Non puoi ancora parlare, – disse Kammamuri, – ma mi narrerai ogni cosa poi. Sta’ certo, padrone, che ci vendicheremo dei miserabili che t’hanno conciato cosi malamente.
Lo sguardo di Tremal-Naik brillò di un cupo fuoco e strinse le dita strappando le erbe. Egli lo aveva senza dubbio compreso.
– Calma, calma, padrone. Ora troverò io alcune erbe che ti faranno molto bene, e fra quattro o cinque giorni abbandoneremo questi luoghi e ti condurrò alla capanna a terminare la tua guarigione.
Gli raccomando un’ultima volta silenzio e immobilità completa, batté le erbe per un raggio di trenta o quaranta passi per assicurarsi che non nascondevano alcuno di quei terribili serpenti detti “rubdira mandali” il cui morso fa, come si dice, sudar sangue, e si allontanò strisciando.
Non corse molto, che trovò alcune pianticelle di “youma”, volgarmente chiamate “lingua di serpente” il cui succo è un balsamo prezioso per le ferite.
Ne fece una buona raccolta e si disponeva a ritornare, ma fatti appena pochi passi s’arrestò colle mani sui calci delle pistole.
Gli era sembrato di aver veduto una massa nera cacciarsi silenziosamente fra i bambù; aveva più la forma d’un animale, che d’un essere umano.
Fiutò a più riprese l’aria e senti un odore marcatissimo di selvatico.
– Attento Kammamuri, – mormorò. Abbiamo una tigre vicina.
Si mise fra i denti il coltellaccio e s’avanzò intrepidamente verso lo stagno guardando attentamente attorno. S’aspettava di trovarsi da un momento all’altro di fronte al feroce carnivoro, ma così non fu e giunse in mezzo agli alberi senza averlo nemmeno veduto.
Tremal-Naik era nel medesimo luogo di prima e pareva assopito, di che si rallegrò il bravo maharatto. Si mise vicino la carabina e le pistole per esser pronto a servirsene, masticò le erbe, malgrado la loro insopportabile amarezza e le applicò sulla piaga.
– Là, così va bene, – diss’egli stropicciandosi allegramente le mani.
– Domani il padrone starà meglio e potremo sloggiare da questo luogo che non mi sembra molto sicuro. Gl’indiani fra poche ore si recheranno nella jungla e non trovando il cadavere, si metteranno senza dubbio in campagna. Non lasciamoci dunque prendere così…
Un miagolìo formidabile, famigliare alle tigri, simile ad un ruggito, gli troncò la frase. Volse rapidamente la testa, allungando istintivamente le mani verso le armi.
Là? a quindici passi di distanza, raccolta su se stessa, come in atto di slanciarsi stava un’enorme tigre reale, che lo fissava con due occhi brillanti che avevano i riflessi azzurrini dell’acciaio.

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