La “vergine della pagoda” (quarta parte)

La giornata passò con una lentezza spaventevole per l’indiano, condannato ad una immobilità quasi assoluta e ad un digiuno forzato.
Le ombre della notte a poco a poco invero i più oscuri recessi della pagoda, poi s’alzarono gradatamente verso la cupola: alle nove l’oscurità era così profonda, da non vederci ad un passo di distanza, quantunque la luna brillasse in cielo, riflettendosi sulla grande palla di bronzo dorato e sul serpente dalla testa di donna.
Il “ramsinga” non aveva più fatto udire le sue funebri note ed il brusìo era da lunga pezza cessato. Un silenzio misterioso regnava dappertutto.
Tremal-Naik tuttavia non ardiva muoversi; il solo movimento che facesse, era quello di appoggiare l’orecchio sulle fredde pietre della pagoda e di ascoltare con profonda attenzione.
Una voce segreta gli diceva di vegliare e di diffidare e ben presto si accorse che quella voce non mentiva, poiché verso le undici, quando più fitte erano le tenebre, un rumore strano, non ancor definibile, giunse fino a lui.
Pareva che qualche cosa scendesse dall’alto, seguendo la corda che sosteneva la lampada. Tremal-Naik per quanto aguzzasse gli occhi non fu però capace di distinguere ciò che fosse. Per ogni precauzione impugnò le pistole e silenziosamente s’alzò, ponendosi in ginocchio.
– Che può esser mai? – si chiese egli. – Ada, no poiché mezzanotte è ancor lontana. Che sieno quei terribili uomini?
Una vampa d’ira gli salì in volto.- Sfortuna a colui che qui entra!
Un tintinnìo metallico risuonò fra le tenebre. Era la lampada che si agitava, scossa senza dubbio da colui che scendeva dall’alto.
Tremal-Naik non si trattenne più.
– Chi è là? – gridò egli.
Nessuno rispose alla domanda, anzi il tintinnìo cesso.
– Che mi sia ingannato? – si domandò egli.
Si alzò e guardò in aria. Lassù, sulla cupola, la luna continuava a riflettersi sulla palla dorata e scorgevasi una parte della fune vegetale che sosteneva la lampada, ma nessuno essere umano v’era appeso.
– E’ strano, – disse Tremal-Naik, diventato inquieto.
Tornò a rannicchiarsi continuando a guardarsi d’intorno. Passarono altri venti minuti, poi la lampada tornò a tintinnare.
– Chi è là? – ripete egli con voce stridula. – Se v’è qualcuno si faccia innanzi, che Tremal-Naik lo attende.
Nuovo silenzio. Allora s’aggrappò ai piedi della gigantesca statua, sali sulle braccia, si elevò fino a posare i piedi sulla testa ed afferrò la lampada scuotendola furiosamente. Uno scroscio di risa risuonò nella pagoda.
– Ah, – esclamo Tremal-Naik, che sentivasi invadere dalla rabbia.- V’è qualcuno che ride lassù. Aspetta!
Radunò le sue erculee forze, poi con una strappata irresistibile spezzò la fune. La lampada rovinò al suolo con un fracasso indescrivibile, che gli echi del tempio più volte ripeterono.
Un secondo scroscio di risa risuonò. Tremal-Naik si precipitò giù dalla statua, nascondendovisi dietro.
Era tempo. Una porta s’aprì ed un indiano alto e magro, riccamente vestito, con un pugnale in una mano e una torcia resinosa nell’altra, apparve.
Quell’uomo era il truce Suyodhana: una gioia infernale irradiava il bronzeo suo volto e ne’ suoi occhi balenava un sinistro lampo.
Egli si arrestò un momento a contemplare la mostruosa divinità, dietro la quale stava Tremal-Naik col coltello fra i denti e le pistole in pugno poi fece alcuni passi innanzi. Dietro a lui si avanzarono ventiquattro indiani, ponendosi dodici a destra e dodici a sinistra.
Erano tutti armati di pugnale e del cordone di seta colla palla di piombo.
– Figli miei, – disse Suyodhana con un accento da far fremere, – è mezzanotte!
– Gli indiani sciolsero le corde, brandirono i pugnali e piantarono le torcie in alcuni buchi fatti nelle pietre.
– Siamo pronti alla vendetta! – risposero in coro.
– Un empio, – proseguì Suyodhana, – ha profanato la pagoda della nostra dea. Cosa merita quest’uomo?
– La morte, risposero gl’indiani.
– Un empio ardì parlare d’amore alla “vergine della pagoda”. Cosa merita quest’uomo?
– La morte, – ripeterono gl’indiani.
– Tremal-Naik! – gridò Suyodhana con terribile accento. – Mostrati!
Uno scroscio di risa gli rispose, poi il “cacciatore di serpenti”, che tutto aveva udito, apparve, slanciandosi con un solo salto dinanzi alla mostruosa divinità.
Non era più lo stesso uomo; pareva una vera tigre sbucata dalla jungla. Un feroce sorriso sfiorava le sue labbra, la sua faccia era truce, alterata da una collera furiosa e gli occhi mandavano sinistri baleni.
Il selvaggio figlio della jungla si risvegliava, pronto a ruggire ed a mordere.
– Ah! Ah! – esclamò egli ridendo. – Siete voi che volete uccidere Tremal-Naik?
Si vede che non conoscete ancora il “cacciatore di serpenti”.
Guardate, assassini, quanto vi disprezzo.
Alzò in aria le due pistole e le scaricò, gettando lontano da sé le armi. Scaricò dipoi la carabina e l’impugnò per la canna per servirsene come d’una mazza.
– Ora, – diss’egli, – chi si sente tanto ardito da assalire Tremal- Naik, si faccia innanzi. Mi batto per la donna, che voi, o maledetti, condannaste.
Fece un salto indietro e si mise sulla difensiva, emettendo il suo urlo di guerra.
– Avanti ! avanti! – tuonò. – Mi batto per la “vergine della pagoda”!
– Un indiano, senza dubbio il più fanatico, gli si avventò contro, facendo fischiare in aria il laccio. Sia che avesse preso troppo slancio o che scivolasse, egli venne a cadere quasi ai piedi di Tremal-Naik.
La terribile mazza s’alzò e discese con rapidità fulminea percotendo il cranio dell’indiano. La morte fu istantanea.
– Avanti! avanti! – ripeté Tremal-Naik. – Mi batto per la mia Ada!
I ventitré indiani si scagliarono come un sol uomo sul “cacciatore di serpenti”, che roteava come un demente la carabina.
Un altro indiano cadde, ma la carabina non resse a quel secondo colpo e si spezzo nelle mani di colui che l’adoperava.
– A morte! a morte! – vociarono gl’indiani, spumanti d’ira.
Un laccio piombò su Tremal-Naik stringendogli il collo, ma egli lo strappò di mano allo strangolatore, poi impugnò il coltello e si avventò contro la statua di bronzo salendole sulla testa.
– Largo! largo! – gridò egli, girando intorno sguardi feroci.
Si raccolse su se stesso come una tigre e saltando sopra le teste degl’indiani cercò dirigersi verso la porta, ma gli mancò il tempo.
Due corde gli strinsero le braccia, percuotendolo dolorosamente colle palle di piombo e lo atterrarono.
Egli gettò un urlo terribile. Gl’indiani in un baleno gli furono sopra come una torma di cani attorno al cinghiale, e malgrado la sua forte resistenza venne solidamente legato e ridotto all’impotenza.
– Aiuto! aiuto! – rantolò egli.
– A morte! a morte! – gridarono gli indiani.
Con uno sforzo erculeo spezzo due corde, ma fu tutto quello che poté fare. Nuovi lacci lo strinsero, e così fortemente, che le carni divennero nere.
Suyodhana, che aveva assistito impassibile a quella disperata lotta di un uomo solo contro ventidue, gli si avvicinò e lo contemplò per alcuni istanti con gioia satanica. Tremal-Naik nulla potendo fare, gli sputò contro.
– Empio! esclamò il “figlio delle sacre acque del Gange”.
Afferrò con mano solida il suo pugnale e l’alzò sul prigioniero che lo guardava sdegnosamente.
– Figli miei, – disse l’indiano, – qual pena merita quest’uomo?
– La morte! – risposero gl’indiani.
– E la morte sia.
Tremal-Naik emise un ultimo grido.
– Ada! Povera Ada!
La lama del vendicatore che penetravagli nel petto, gli spense la voce. Sbarrò gli occhi, li chiuse, uno spasimo violento agitò le sue membra e s! irrigidì. Un rivo di sangue caldo scorreva per le sue vesti, disperdendosi per le pietre.
– Kâlì! – disse Suyodhana, volgendosi verso la statua di bronzo.- Scrivi sul tuo nero libro, il nome di questa nuova vittima.
Ad un cenno due indiani sollevarono l’infelice Tremal-Naik.
– Gettatelo nella jungla a pasto delle tigri, concluse il terribile uomo. – Così periscono gli empi!…

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