La vittoria di Tremal-Naik (seconda parte)

D’un tratto sulla cima dell’albero s’udì un grido:
– Il “banian”!
Al nord era apparso il gigantesco albero, coi suoi trecento tronchi.
Tremal-Naik si sentì scuotere da capo a piedi da una violenta commozione.
– Ada!… – esclamò egli. – Eccomi alla fine delle mie pene!
Si gettò d’un balzo giù dalla lunetta e corse a prua.
La riva era deserta. Solamente dei marabù stavano appollaiati sui rami del “banian”, crocidando lugubremente. La vista di quei funebri uccelli gli fe’ correre un brivido per le ossa.
– Macchina indietro! – gridò.
La battuta delle tambure cessò. La cannoniera, trasportata dal proprio slancio, andò a cozzare colla prua la costa dell’isola, incagliandovisi profondamente.
Il capitano si avvicinò a Tremal-Naik, che si era arrestato, stringendo con mano convulsa la murata.
– Nessuno?, – chiese.
– Nessuno, – rispose Tremal-Naik.
– Allora li sorprenderemo nel loro covo.
– Lo spero.
– Conosci l’entrata?
– Sì capitano.
– Sarà accessibile?
– Lo credo.
– A terra adunque!…
– Una parola: lasciate che entri prima io. Mi si conosce e vi aprirò il passo. Quando udirete un fischio, avanzatevi liberamente.
Ciò detto si mise a correre, come un delirante, verso l’albero, vi si arrampicò, raggiunse il tronco e si lasciò cader giù.
Ai piedi della scala brillava una torcia, e accanto ad essa vegliava un “thug”, con una carabina in mano.
– Avanti, diss’egli.
– Cosa succede nei sotterranei? – chiese Tremal-Naik.
– Nulla.
– La mia Ada?
– Aspetta nella pagoda il suo regalo di nozze.
S’avvicinò ad un enorme tamburo sospeso alla volta, e batté tre colpi.
In lontananza s’udirono tre colpi eguali.
– Sei atteso, – disse il “thug”, porgendogli la torcia.
– Allora muori!…
Tremal-Naik, pronto come il lampo, erasi gettato addosso al “thug” col pugnale in mano. Afferrarlo strettamente per la gola e cacciargli l’arma nel petto fu cosa d’un solo istante. Lo strangolatore cadde senza emettere un grido.
Tremal-Naik spinse da un lato il cadavere, poi emise un fischio. Il capitano ed i suoi uomini, che erano già entrati, lo raggiunsero.- La via è libera, – disse l’indiano.
– E mia figlia? – chiese Corishant, con voce soffocata.
– Ci attende nella grande caverna.
– Avanti!… Armate i fucili!…
– No, lasciate che io vi preceda. Li sorprenderemo più facilmente.
– Va’, noi ti seguiremo a breve distanza.
Tremal-Naik si mise in cammino procedendo rapidamente. Mille angoscie lo agitavano in quel supremo istante. Gli pareva che un tremendo pericolo lo minacciasse, ora che stava per raggiungere la felicità suprema.
La sua corsa, attraverso a quelle lunghe fughe di corridoi, durò dieci minuti.
Dodici colpi sonori rimbombavano in quegli spaventevoli sotterranei, quando giunse alla pagoda, in mezzo alla quale giganteggiava la sinistra figura di Kâlì, la mostruosa divinità dei “thugs” indiani.
Uno spettacolo strano, mai più visto, si presentò tosto dinanzi ai suoi occhi.
Sotto le volte splendevano ricche e bizzarre lampade, le quali versavano torrenti di luce azzurrognola, livida.
Dalle pareti pendevano migliaia e migliaia di lacci e migliaia e migliaia di pugnali.
Dinanzi ad una vaschetta di marmo bianco, colma d’acqua, nella quale guizzava il pesciolino sacro delle acque del Gange, su di un cuscino di seta cremisi sedeva Suyodhana, avvolto in un grande “dubgah” di seta gialla, e attorno a lui, ritti e immobili come statue, stavano cento “thugs”, alcuni dalla pelle nera come gli africani, altri olivastra come i malesi ed altri ancora bronzina, rossiccia o gialla, quasi nudi, unti d’olio di cocco e col petto tatuato.
Tremal-Naik, anelante, stupefatto, s’era arrestato in mezzo alla pagoda, saettato da quei cento sguardi acuti come punte di spillo.
– Sii il benvenuto, – disse Suyodhana con uno strano sorriso. – Torni vinto o vincitore?
– Dov’è la mia Ada? chiese Tremal-Naik con angoscia. Un sordo mormorìo percorse il cerchio dei “thugs”.
– Sii paziente, – disse il capo dei settari. Dov’è la testa del capitano?
– Hider mi segue, e fra qualche minuto te la presenterò.
– L’hai dunque ucciso?
– Sì.- Fratelli, il nostro nemico è morto! – urlò Suyodhana.
S’alzò, anzi scattò su come una tigre. Sulla sua faccia passò come un fremito e rimase lì, immobile a guardare Tremal-Naik.
– Odimi, – disse, dopo qualche minuto. – Vedi tu quella donna di bronzo che sta di faccia a noi?
– La vedo, – rispose Tremal-Naik. – Ma quella donna non è la mia.
– Lo so, ma quella donna è possente, più possente di Brahma, di Visnù, di Siva e di tutte le divinità adorate dagli indù. Vive nel regno delle tenebre, parla a noi a mezzo di quel pesce che tu vedi nuotare in quella vaschetta, è giusta e terribile. Disprezza gli incensi e le preci, non vuole che vittime. Quella donna rappresenta la libertà indiana e la distruzione dei nostri oppressori dalla pelle bianca.
Suyodhana si arrestò per vedere quale effetto producevano quelle parole su Tremal-Naik, ma questi rimase freddo, insensibile all’entusiasmo del settario. Egli non pensava che alla sua Ada, che per lui era la sua dea, la sua patria, la sua vita.
– Tremal-Naik, – ripigliò Suyodhana. – Tu sei uno di quegli uomini che nell’India sono rari, tu sei forte, tu sei audace, tu sei terribile, tu sei un indiano, che come noi langue sotto il giogo degli stranieri dalla pelle bianca. Abbracceresti la nostra religione?
– Io! – esclamò Tremal-Naik. – Io “thug”!
– Ti fanno orrore i “thugs”? Forse perché strangolano? Gli europei ci schiacciarono col ferro dei loro cannoni, noi li schiacciamo col laccio, I’arma della nostra possente dea.
– E la mia Ada?…
– Rimarrà fra noi, come rimane Kammamuri che ormai è diventato un “thug”.
– Ma sarà mia sposa?
– Giammai! Ella appartiene alla nostra dea.
– E Tremal-Naik non ha altra dea che Ada Corishant!
Per la seconda volta un sordo mormorio percorse il circolo dei “thugs”. Tremal-Naik si guardò attorno con furore.
– Suyodhana! – esclamò. – Sarei io forse tradito?… Mi si negherebbe ora quella donna dopo tutto quello che feci per la vostra dea?…
Saresti tu uno spergiuro?
– Quella donna ti appartiene, – disse Suyodhana con un tono di voce che metteva i brividi.
Un indiano batté dodici colpi su di un tam-tam.
Nella pagoda regnò per alcuni istanti un profondo silenzio, un silenzio di morte.
Si avrebbe detto che quei cento uomini non respiravano più.
D’un tratto una porta s’aprì e si slanciò fuori Ada, coperta di candidi veli, col petto racchiuso da una corazza d’oro dalla quale scaturivano acciecanti bagliori.
Due grida rimbombavano nella pagoda:
– Ada!…
– Tremal-Naik.
E l’indiano e la giovanetta si slanciarono l’una nelle braccia dell’altro. Quasi subito si udì una voce tuonante a gridare:
– Fuoco!…
Una scarica tremenda rimbombò nel sotterraneo scuotendo tutti gli echi delle gallerie, poi sessanta uomini, irrompendo dal tenebroso corridoio, si slanciarono nella pagoda a baionetta calata.
I “thugs”, stupefatti, atterriti, si rovesciarono confusamente attraverso alle gallerie, lasciando sul terreno una ventina di loro.
Suyodhama, con un balzo di tigre si era lanciato in uno stretto passaggio, chiudendo dietro di sé una pesante porta di legno di tek.
Il capitano si era precipitato verso Ada, gridando:
– Figlia mia!… finalmente di rivedo!…
– Mio padre!… – aveva gridato la giovanetta, ed era svenuta fra le braccia di lui.
– In ritirata!… – tuonò Tremal-Naik.
I soldati si ripiegarono verso la pagoda, per tema di smarrirsi sotto le tenebrose gallerie.
– Partiamo! – disse il capitano. – Vieni, mio valoroso Tremal-Naik la mia Ada è tua sposa!… Tu l’hai ben meritata.
E si misero a ritirarsi, ma prima che uscissero dall’immenso sotterraneo, si era udita la voce del terribile Suyodhana a gridare con accento minaccioso:
– Andate!… Ci rivedremo nella jungla.

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