L’assassinio (seconda parte)

Chi era quella apparizione? Una donna od uno spirito celeste? Ancora lo ignoro. – Tremal-Naik si tacque. Kammamuri notò che egli tremava sì forte da temere che avesse la febbre – Quella visione mi fu fatale, – ripigliò Tremal-Naik, con rabbia.- Da quella sera si operò in me uno strano cangiamento; mi parve di essere diventato un altro uomo; e che qui, nel cuore, si sviluppasse una terribile fiamma!
Si direbbe che quell’apparizione mi ha stregato. Se sono nella jungla, me la vedo danzare dinanzi agli occhi; se sono sul fiume la vedo nuotare dinanzi la prua del mio battello; penso e il mio pensiero corre a lei; dormo e in sogno mi appare sempre lei. Mi sembra di essere pazzo.
– Mi spaventi, padrone, – disse Kammamuri, girando all’intorno uno sguardo pauroso. – Chi era quella bella creatura?
– L’ignoro, Kammamuri. Ma era bella oh sì! molto bella! – esclamò Tremal-Naik con accento appassionato.
– Forse uno spirito!
– Forse.
– Forse una divinità?
– Chi può dirlo?
– E non l’hai più veduta?
– Si, l’ho veduta ancora e molte e molte volte. La sera dopo, alla medesima ora, senza sapere il come, mi trovava sulle rive del ruscello. Quando la luna s’alzò dietro le oscure foreste del settentrione, quella superba creatura riapparve fra le macchie dei mussenda.
– Chi sei? – gli chiesi.
– Ada, – mi rispose.
E disparve emettendo il medesimo gemito. Mi sembrò che sprofondasse sotto terra.
– Ada! – esclamò Kammamuri. – Che nome è questo?
– Un nome che non è indiano.
– E non aggiunse altra parola?
– Nessuna.
– E’ strano; io non sarei più ritornato.
– Ed io vi ritornai. V’era una forza irresistibile, potente che mi spingeva mio malgrado verso quel luogo; più volte tentai di fuggire e mi mancò la forza di farlo. Ti ho detto che mi pareva d’essere stregato.- E cosa provavi in sua presenza?
– Non lo so, ma il cuore mi batteva forte forte.
– Non l’avevi, prima, mai provata quella sensazione?
– Mai, – disse Tremal-Naik.
– Ed ora la vedi ancora quella creatura?
– No, Kammamuri. La vidi dieci sere di seguito; alla stessa ora comparivami dinanzi agli occhi mi contemplava mutamente, poi scompariva senza rumore. Una volta le feci un cenno, ma non si mosse; un’altra volta aprii le labbra per parlare, ed ella si pose un dito sulla bocca invitandomi a tacere.
– E tu non la seguisti mai?
– Mai, Kammamuri, perché quella donna mi faceva paura. Quindici giorni or sono, mi apparve vestita tutta di seta rossa e mi guardò più a lungo del solito. La sera seguente invano l’aspettai, invano la chiamai: non la rividi più.
– E’ un’avventura strana, – mormorò Kammamuri.
– E’ terribile, invece, – disse Tremal-Naik con voce sorda. – Non ho più bene, non sono più l’uomo di una volta; mi sento indosso la febbre e una smania furiosa di rivedere quella visione che mi stregò.
– Allora tu ami quella visione.
– L’amo! Non so cosa significhi questa parola.
In quell’istante, ad una grande distanza, verso le immense paludi del sud, echeggiarono alcune note acutissime. Il maharatto si alzò di scatto e divenne cinereo.
– Il “ramsinga”! esclamò egli, con terrore.
– Cos’hai che ti sgomenti? – chiese Tremal-Naik.
– Non odi il “ramsinga”?
– Ebbene, cosa vuol dir ciò?
– Segnala una disgrazia, padrone.
– Follie, Kammamuri.
– Non ho mai udito suonare il “ramsinga” nella jungla, fuorché la notte che fu assassinato il povero Tamul.
A quel ricordo una profonda ruga solcò la fronte del “cacciatore di serpenti”.
– Non sgomentarti, – diss’egli, sforzandosi di parer calmo. – Tutti gli indiani sanno suonare il “ramsinga” e tu sai che talvolta qualche cacciatore ardisce porre il piede sulla terra delle tigri e dei serpenti.
Aveva appena terminato di parlare, che s’udi il lamentevole urlio d’un cane e poco dopo un potente miagolìo che poteva scambiarsi per un vero ruggito. Kammamuri fremette dalla testa alle piante.
– Ah! padrone! – esclamò. – Anche il cane e la tigre segnalano una sventura.
– Darma! Punthy! – gridò Tremal-Naik.
Una superba tigre reale, di alta statura, di forme vigorose, col mantello aranciato e screziato di nero, uscì dalla capanna e fissò il padrone con due occhi che mandavano terribili lampi. Dietro ad essa comparve, qualche istante dopo, un cagnaccio nero, con lunga coda, orecchi aguzzi, ed il collo armato di un grosso anello di ferro irto di punte.
– Darma! Punthy! – ripeté Tremal-Naik.
La tigre si raccolse su se stessa, emise un sordo brontolìo e con un salto di quindici piedi venne a cadere ai piedi del padrone.
– Cos’hai, Darma? – chiese egli, passando le sue mani sul robusto dorso della belva. – Tu sei inquieta.
Il cane invece di accorrere dal padrone si piantò sulle quattro zampe allungò la testa verso il sud, fiutò per qualche tempo l’aria ed abbaiò lamentosamente tre volte. – Che sia toccata qualche disgrazia ad Hurti e ad Aghur? – mormorò il “cacciatore di serpenti”, con inquietudine.
– Lo temo, padrone, – disse Kammamuri, gettando sguardi spaventati sulla jungla. – A quest’ora dovrebbero essere qui, ed invece non danno segno di vita.
– Hai udito nessuna detonazione, durante la giornata?
– Sì, una verso la metà del meriggio, poi più nulla.
– Da dove veniva?
– Dal sud, padrone.
– Hai mai veduto alcuna persona sospetta aggirarsi nella jungla?
– No, ma Hurti mi disse d’aver veduto, una sera delle ombre sulle rive dell’isola Raimangal ed Aghur d’avere udito degli strani rumori provenire dal “banian sacro”.
– Ah! dal “banian”! – esclamò Tremal-Naik. – Hai udito qualche cosa anche tu?
– Forse. Cosa facciamo, padrone?
– Aspettiamo.
– Ma possono…
– Zitto! – disse Tremal-Naik, stringendogli un braccio con forza tale da arrestargli il sangue.
– Cos’hai udito? – mormorò il maharatto, battendo i denti.
– Guarda laggiù, non ti sembra che i bambù della jungla si muovano?
– E’ vero, padrone.
Punthy fece udire per la terza volta il suo lamentevole urlo, che fu seguito dalle note acute del misterioso “ramsinga”. Tremal-Naik si strappò dalla cintura di pelle di tigre una lunga e ricca pistola incrostata d’argento e l’armò.
In quell’istante un indiano, d’alta statura, seminudo, armato d’una sola scure, si slanciò fuori dai bambù correndo a rompicollo verso la capanna.
– Aghur! – esclamarono ad una voce Tremal-Naik ed il maharatto.
Punthy gli si slanciò contro urlando lugubremente.
– Padrone!… pa… drone! – rantolò l’indiano.
Giunse come un fulmine dinanzi alla capanna, barcollò come fosse stato colpito da un improvviso malore, stralunò gli occhi, gettò un grido strozzato come un rantolo e piombò fra le erbe come albero sradicato dal vento.
Tremal-Naik gli si era precipitato sopra. Una esclamazione di sorpresa gli sfuggi.
L’indiano pareva moribondo. Aveva alle labbra una spuma sanguigna, tutto il volto lacerato ed imbrattato di sangue, gli occhi stravolti e dilatati enormemente ed ansimava emettendo rauchi sospiri.
– Aghur! – esclamò Tremal-Naik. – Che cosa ti è successo? Dov’è Hurti?
La faccia d’Aghur, a quel nome si contrasse spaventosamente e colle unghie sollevò rabbiosamente la terra.
– Padrone… pa…drone! – balbettò egli con profondo terrore.
– Continua.
– Sof… foco… ho corso… ah! padrone.
– Che sia avvelenato? – mormorò Kammamuri.
– No, – disse Tremal-Naik. – Il povero diavolo ha galoppato come un cavallo e soffoca; fra qualche minuto si sarà rimesso. – Infatti Aghur cominciava a ritornare in sé, ed a respirare liberamente.
– Parla, Aghur, – disse Tremal-Naik, dopo qualche minuto. – Perché sei ritornato solo? Perché tanto terrore? Cosa è successo al tuo compagno?
– Ah! padrone, – balbettò l’indiano rabbrividendo.- Quale disgrazia!
– Il “ramsinga” l’aveva annunciata, – mormorò Kammamuri, sospirando.
– Avanti, Aghur, – incalzò il “cacciatore di serpenti”.
– Se l’aveste veduto il poveretto… era là, disteso per terra, irrigidito, cogli occhi fuor dalle orbite…
– Chi?… chi?…
– Hurti!
– Hurti morto! – esclamò Tremal-Naik.
– Si, l’hanno assassinato ai piedi del “banian sacro”.
– Ma chi l’ha assassinato? Dimmelo, che io vada a vendicarlo.
– Non lo so, padrone.
– Narra tutto.
– Eravamo partiti per cacciare una gran tigre. Sei miglia da qui, scovammo la belva la quale, ferita dalla carabina di Hurti, fuggì verso il sud. Seguimmo per quattro ore la sua pista e la ritrovammo presso la riva, di fronte all’isola Raimangal, ma non riuscimmo a ucciderla, poiché appena ci scorse si gettò in acqua approdando ai piedi del gran “banian”.
– Bene e poi?
– Io volevo ritornare, ma Hurti si rifiutava dicendo che la tigre era ferita e quindi una facile preda. Attraversammo il fiume a nuoto e giungemmo all’isola Raimangal, dove ci separammo per esplorare i dintorni.
L’indiano s’arrestò battendo i denti pel terrore e divenne pallidissimo.
– Calava la sera, – riprese egli con voce cupa. – Sotto i boschi cominciava a fare oscuro e regnava un silenzio funebre che metteva paura. Tutto ad un tratto una nota acuta, quella del “ramsinga”, rimbombo. Mi guardo d’attorno ed i miei occhi s’incontrano con quelli di un’ombra che si teneva a venti passi da me, semi-nascosta fra un cespuglio.
– Un’ombra! – esclamò Tremal-Naik. – Un’ombra hai detto?
– Si, padrone, un’ombra.
– Chi era? Dimmelo, Aghur, dimmelo!
– Mi parve una donna.
– Una donna!
– Si, sono sicuro che era una donna.
– Bella?
– Faceva troppo oscuro perché potessi vederla distintamente.
Tremal-Naik si passò una mano sulla fronte.
– Un’ombra! – ripeté egli, più volte. – Un’ombra laggiù! Se fosse la mia visione?… Tira innanzi, Aghur.
– Quell’ombra mi guardò per alcuni istanti, poi tese un braccio verso di me, invitandomi ad allontanarmi subito. Sorpreso e spaventato ubbidii, ma non avevo fatto ancora cento passi, che un urlo straziante giunse ai miei orecchi. Quel grido lo riconobbi subito: era quello di Hurti!
– E l’ombra? – chiese Tremal-Naik, in preda ad una estrema agitazione.
– Non mi volsi nemmeno indietro per vedere se era rimasta là, oppure scomparsa. Mi slanciai attraverso alla jungla colla carabina in mano e giunsi sotto al gran “banian”, ai piedi del quale, disteso sul dorso, vidi il povero Hurti. Lo chiamai e non mi rispose. Lo toccai, era ancora caldo ma il suo cuore non batteva più!
– Sei certo?
– Sicurissimo, padrone.
– Dove era stato colpito?
– Non vidi sul suo corpo ferita alcuna.
– E’ impossibile!
– Te lo giuro.
– E non vedesti alcuno?
– Nessuno, né udii alcun rumore. Io ebbi paura mi gettai nel fiume lo attraversai perdendo la carabina e riguadagnai la nostra jungla. Credo di aver fatto sei miglia senza respirare, tanto era il mio spavento.
Povero Hurti!

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