Manciadi (prima parte)

Ad oriente cominciava ad albeggiare, quando il canotto giunse alle sponde della jungla nera.
Nulla di nuovo pareva che fosse accaduto. La capanna si rizzava ancora fra i canneti sormontata da una dozzina di giganteschi arghilah immobili sulle loro lunghe gambe giallastre, e la tigre, la fedele Darma, vi girava e rigirava attorno, senza mai allontanarsi.
– Buono, – mormorò Kammamuri. – I maledetti non hanno visitato questi luoghi. Darma!
La tigre a quella chiamata s’arrestò, alzò la testa, fissò sul canotto i suoi occhi verdastri e si slanciò verso la riva emettendo un sordo mugolìo.
Kammamuri e Aghur si affrettarono a sbarcare e portarono il padrone nella capanna, adagiandolo su di una comoda amaca. La tigre ed il cane si arrestarono al di fuori a vegliare.- Esamina la ferita, Aghur, – disse Kammamuri.
Il bengalese levò la fascia e guardò attentamente il petto del povero Tremal-Naik. Una ruga si disegnò sulla sua fronte.
– E’ grave, – disse. – Il pugnale è entrato assai, probabilmente fino all’impugnatura.
– Guarirà?
– Lo spero. Ma perché l’hanno pugnalato?
– E’ difficile il dirlo. Tu sai che il padrone voleva rivedere la visione.
– Almeno così ha detto.
– Egli, giunto all’isola, si fissò in testa di scoprire quella creatura. Pare che sapesse ove si celava, poiché mi comandò di ritornare alla capanna e partì solo. Ventiquattro ore dopo lo trovava nella jungla immerso in un lago di sangue: lo avevano pugnalato.
– Ma chi?
– Gli uomini che abitano l’isola e che forse vegliano su quella donna.
– Ma a quale scopo?
– Certamente per ucciderlo.
– Hai veduto tu quegli esseri?
– Coi miei propri occhi.
– Sono uomini o spiriti?
– Credo che siano uomini. Anzi mi gettarono un laccio al collo per strangolarmi, e ne uccisi due o tre. Se fossero spiriti, non sarebbero morti.
– E’ strano, – mormorò Aghur, diventato pensieroso. – E cosa fanno quegli uomini? Perché ammazzano le persone che sbarcano sulla loro isola?
– L’ignoro, Aghur. So che sono uomini terribili e che adorano una divinità la quale esige molte vittime.
– Hai paura, Kammamuri?
– Ho le mie buone ragioni per averne.
– Credi tu che si mostreranno nella nostra jungla?
– Lo temo, Aghur: quell’uomo ci ha gridato: “ci rivedremo”.
– Mal per loro. La tigre è un animale da non lasciarli avvicinare.
– Lo so, ma vegliamo attentamente. Ci sono nell’aria delle nubi che minacciano tempesta.
– Lascia fare a me, Kammamuri. Tu pensa a guarire il padrone e io m’incarico di loro.
Kammamuri ritornò presso il padrone per applicare sulla ferita un nuovo cataplasma di erbe, ed Aghur si sedette dinanzi alla capanna, colla tigre ed il cane accovacciati.
La giornata passò senza incidenti. Tremal-Naik ebbe ancora qualche accesso di delirio, durante il quale gli usci più volte dalle labbra straziate il nome di Ada, la sventurata giovane che aveva lasciato senza difesa, nelle mani di quei terribili fanatici.
Però tornò a cadere in una specie di assopimento, che si prolungò fino al calare del sole. I due indiani, quantunque ardessero dal desiderio d’interrogarlo per sapere qualche cosa su coloro che lo avevano pugnalato, credettero bene di astenersene per non affaticarlo.
Allorché le tenebre stesero il loro nero velo sulla silenziosa jungla, Aghur montò pel primo la guardia, al di fuori della capanna, armato fino ai denti. Il cane si era accovacciato ai suoi piedi cogli occhi fissi al sud. A mezzanotte nessun indiano era comparso, né sul fiume, né sulla jungla. Però il cane s’era più volte alzato fiutando l’aria, dando segni evidenti d’inquietudine. Forse presentiva qualche cosa d’insolito; chissà, forse la vicinanza di qualche persona e forse anche di qualche animale selvaggio. Aghur stava per svegliare Kammamuri onde lo surrogasse, quando Punthy s’alzò abbaiando.
– To’! – esclamò l’indiano, sorpreso. – Cosa vuol dir ciò?
Il cane abbaiava colla testa volta al fiume, segno evidente che colà succedeva qualche cosa. Contemporaneamente la tigre apparve sulla soglia della capanna, facendo udire un sordo miagolio.
-Kammamuri! – chiamò Aghur, preparando le armi.
Il maharatto, che dormiva con un sol occhio, lo raggiunse.
– Cosa succede? – chiese egli.
– I nostri animali hanno udito qualche cosa e sono inquieti.
– Hai udito qualche rumore?
– Assolutamente nulla.
– Tieni il cane ed ascoltiamo.
Aghur s’affrettò a ubbidire.
D’improvviso verso il fiume s’udi a gridare:
– Aiuto! Aiuto!…
Il cane si mise ad abbaiare furiosamente.
– Aiuto!…- ripeté la medesima voce.
– Kammamuri! – esclamò Aghur. – Qualcuno si annega.
– Certamente.
– Non possiamo lasciarlo annegare.
– Non sappiamo chi sia.
– Non importa: alla riva!
– Prepariamo le armi e stiamo attenti. Non si sa mai cosa può accadere. Tu, Darma, rimani qui e sbrana senza pietà quanti si presentano.
La tigre certamente lo comprese, poiché si raccolse su se stessa, cogli occhi fiammeggianti, pronta a scagliarsi sul primo venuto. I due indiani si slanciarono verso la riva, preceduti da Punthy che continuava ad abbaiare furiosamente, e guardarono sul fiume che pareva nero come se fosse d’inchiostro.
– Vedi nulla? – chiese Kammamuri ad Aghur, che si era curvato sulla corrente.
– Sì, mi pare di scorgere laggiù qualche cosa che va alla deriva.
– Un uomo forse?
– Si direbbe più il tronco di un albero.
– Olà! – gridò Kammamuri. – Chi chiama?
– Salvatemi! – rispose una fioca voce.
– E’ un naufrago, disse il maharatto.
– Potete giungere alla riva? – chiese Aghur.
Un gemito fu la risposta che ottenne. Non vi era da esitare, quel naufrago si trovava agli estremi e poteva da un momento all’altro annegarsi. I due indiani balzarono nel canotto e si diressero rapidamente verso di lui.

Speak Your Mind

*

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.